Il Grazie del Ticino

 

 

L’albero del Vescovo carico di frutti
di Gilberto Agustoni, Cardinale

La parabola del chicco di grano recitata da Gesù quasi alla vi­gilia del suo passaggio da questo mondo al Padre nasconde sotto la sua apparente semplicità un grande insegnamento e per co­glierlo si direbbe che c’è bisogno di incontrare la morte di cui Egli parla.
Chiediamo allo Spirito il dono di poter raccogliere questo inse­gnamento mentre a noi è concesso di incontrare la morte in chi l’ha superata: nell’amico fraterno, nel pastore e unto dal Signore, nel pensatore dotto, lucido e fecondo uscito vincitore nel buon com­battimento, nel nostro Vescovo Eugenio.
Poiché di parabola si tratta occorre enuclearne il fulcro sul quale poggia la sua forza di elevazione.
Non è certamente il processo naturale di germinazione: anzi vo­ler indagare perché e come avviene il misterioso succedersi della vita alla morte nella natura irrazionale sa di presunzione perché il salmo recita: “Tu Signore hai fatto ogni cosa con sapienza”.
Ma meditare sul perché ciò avviene nella vita dell’uomo spiri­tuale, ci invita a guardare alla bara che ci sta dinanzi e Colui che ci ha lasciati, come a una cattedra dalla quale vengono insegnamenti non effimeri.
L’accento di Gesù nella parabola cade sulla morte che è necessa­ria perché diventi un passaggio alla vita. Una morte che genera la vita: “molto frutto”, Egli dice.
Parlava della sua ormai imminente morte, ma tracciava anche un paradigma per ogni morte che sarebbe stata simile alla sua, de­stinata cioè alla risurrezione.
Dalla rivelazione sappiamo che Dio non ha creato la morte -Egli è il Dio dei viventi – la quale è entrata nel mondo a causa del peccato.
Essa è il frutto tragico che l’uomo libero ha maturato nel suo seno come una autopunizione. La morte è quindi frutto della liber­tà umana e perciò, come questa libertà è stata all’origine della mor­te come distruzione, così essa può essere all’origine della morte come sorgente di vita.

Il passaggio alla vita

È la spiegazione che Gesù dà della parabola: “Chi ama la propria vita la perderà, e chi odia la propria vita in questo mondo la conser­verà per la vita eterna”. È la via che Egli ha insegnato e percorso.
Egli ha affrontato la morte, destino necessario di ogni uomo, ma l’ha trasformata in dono, facendone una scelta volontaria il cui oggetto era oltre i limiti dell’egoismo, oltre i limiti di questo mon­do: era situato nella vita eterna.
A Cristo stesso quindi dobbiamo il riscatto della morte dalla sua primitiva destinazione di castigo a possibile sorgente di nuova vita. Egli ha affrontato la morte corporale per risorgere e coinvolgere noi tutti nella sua risurrezione, trasformando la morte da passaggio alle tenebre a balzo nella luce.
A far capo a quella morte liberamente destinata per compiere ciò che era gradito al Padre, la morte è divenuta passaggio alla vita riscattando se stessa: “La morte è stata ingoiata per la vittoria. Do­v’è, o morte la tua vittoria? Dov’è o morte il tuo pungiglione?… Siano rese grazie a Dio che ci dà vittoria per mezzo del Signore no­stro Gesù Cristo” (1 Cor 15, 54b-ss).
La liturgia rinnovata che celebra la morte in Cristo è tutta per­meata da questa visione pasquale. Celebra la morte accettata e quindi vinta da Lui e da tutti coloro che Cristo servono per essere accanto a Lui, come pregò il Padre che avvenisse.
Nessuna notte è tanto vicina al mattino di Pasqua quanto quella della sepoltura, nessuna morte è più prossima alla risurrezione di quella vissuta in Cristo.
La morte che oggi incontriamo si iscrive perfettamente nelle di­mensioni della parabola evangelica.
Una morte accettata con rassegnazione già è cosa grandemente esemplare, quando si è nel pieno vigore degli anni, come il nostro Vescovo Eugenio, e si hanno in mente e sulla scrivania progetti lun­gamente pensati e arrivati a maturazione.

Un dono scritto nei cuori

Ma la sua è stata una morte improntata perfettamente su quella di Cristo: una morte accettata con quell’amore preferenziale di chi sa perdere la propria vita e la destina a diventare vita per gli altri. La sua dipartita è veramente una vittoria sulla morte stessa. Il Ve­scovo Eugenio sapeva a chi e a che cosa era destinata la sua vita che la malattia gli strappava lembo dopo lembo. Lo ha detto parlando della sua malattia, di lui uomo, di lui sacerdote e Vescovo, con sere­nità e quasi con distacco, dirigendosi al popolo che Egli sentiva suo, perché sentiva di farne parte e perché gli era stato affidato dal gran­de Pastore, Cristo. Quanti fratelli sofferenti, quanti infermi sul punto di affrontare l’ultimo combattimento avranno trovato con­forto, luce, pace, in quelle sue parole che uscivano da un corpo che viveva la sofferenza di cui parlava e da un cuore che, illuminato dal­la fede e sorretto dall’amore, sapeva trasformare in offerta. In que­gli incontri, televisivi e radiofonici o scritti, mons. Corecco ha dato a vedere una personalità di altissimo profilo, profonda nel pensiero, semplice nel porgere, soprattutto alimentata da una fede che irra­diava convinzione.
Noi oggi gli siamo grati di quelle sue considerazioni e esortazio­ni: sono il suo testamento spirituale scritto nei cuori di coloro che hanno avuto la grazia di poterlo incontrare e ascoltare.
Certo, anche il Vescovo Corecco poteva dire con Cristo: “l’ani­ma mia è turbata”, perché il governo della diocesi luganese è appe­santito da problemi vari e alcuni di notevole portata. Ma nella capa­cità di analisi che gli era propria, egli aveva individuato delle priori­tà alle quali ha dedicato tutto il suo giovanile entusiasmo e la sua fi­ducia che meritano le iniziative giuste e buone.

Due vette: Seminario e Facoltà

Tale è stata la necessità di attuare una formazione catechetica solida e capillare per tutte le fasce di età e ceti sociali; tale è stato l’impegno per riportare il Seminario in diocesi riaprendo sul terri­torio una sorgente importante per alimentare l’amore del popolo ticinese per i suoi sacerdoti e restituire il seminario alla sua funzio­ne di segno visibile della vocazione al sacerdozio.
Senza dubbio però l’impresa apostolica più eclatante del suo breve ministero pastorale è la creazione della Facoltà teologica a Lugano. L’approvazione di questo Istituto, voluto con chiaroveggenza, tenacemente, superando molti ostacoli e accanite opposizio­ni, è stato per il nostro Vescovo una grande soddisfazione. Questa istituzione è stata fino all’ultimo in cima alle sue preoccupazioni: per assicurarne la fedeltà alla linea dottrinale e disciplinare sulla quale l’aveva attentamente impostata, per garantire le necessarie ri­sorse per il suo futuro sviluppo e la solidità delle sue strutture.
Egli consegna la Facoltà teologica alla diocesi come il dono più prezioso del suo ministero, perché l’ha sempre considerata in una prospettiva pastorale specialmente per la formazione dei seminari­sti, dei sacerdoti e dei laici interessati.
Un progetto così ardimentoso poteva concepirlo soltanto un uomo e un sacerdote dotato dal Signore di una penetrante e brillante intelligenza e ricco di tante virtù umane che di lui, da subito, hanno fatto uno studente diligente, stimato dai suoi professori. Ne ricordo uno per tutti, il celebre canonista Mörsdorf di Monaco, presso quel­l’università che ha dato a mons. Corecco il formato di un uomo eru­dito che ha saputo conquistare l’attenzione di molti studiosi.
La sua fama gli valse la presidenza della prestigiosa Associazione internazionale di diritto canonico che in lui ebbe un animatore in­stancabile e dinamico.
Il professore Corecco non era soltanto un sacerdote istruito: la dottrina appresa durante lunghi anni di intenso e appassionato studio gli fu sorgente di intuizioni profonde, soprattutto sulla natura della legge ecclesiastica, che meritano di essere ancora coltivate per portar­le a piena maturazione. Esse sono state meritatamente celebrate lo scorso anno qui a Lugano, durante un Convegno di studi, e con la presentazione della raccolta dei più significativi tra i molti suoi scritti.

Affetto, stima e rimpianto del Papa

Larghe schiere di studenti, specialmente dell’Università di Friborgo dove era ordinario di diritto canonico, hanno potuto godere della sua apprezzata docenza; e in quella sede gli è nato l’amore per i giovani che doveva diventare una nota caratteristica del suo mini­stero episcopale nel Ticino.
Oggi sono molti coloro che con noi, più direttamente colpiti dalla sua scomparsa, condividono il dolore per la morte del Vescovo Eugenio: alcuni sono presenti, molti altri hanno espresso la loro partecipazione.
Ma indubbiamente la partecipazione più significativa è quella del Santo Padre, che è stato informato della morte di mons. Corecco mentre si accingeva a celebrare il rito delle ceneri a Santa Sabina. Disse poche parole che esprimevano affetto, stima e rim­pianto e soggiunse: “Celebrerò la Messa per lui”. E io sono qui per attestare l’affetto, la stima e il rimpianto del Papa per il nostro Ve­scovo Eugenio che Cristo ha chiamato a sé.
Anche questi vincoli di particolare vicinanza dell’augusta Perso­na del Vicario di Cristo alla Diocesi luganese e al popolo del Ticino è un dono del nostro desideratissimo Vescovo Eugenio.
È stato detto autorevolmente, in occasione della mia recente vi­sita al Consiglio di Stato, durante la quale mons. Corecco mi ha vo­luto accompagnare – è stata forse la sua ultima presenza pubblica -, che il Vescovo Eugenio è stato un dono per la diocesi e il Cantone. Ma anche ora che abbandona la scena di questo mondo egli rimane tale dono.
Al momento in cui il gregge – sacerdoti e fedeli – si congeda dal suo pastore si manifesta veramente la grandezza dell’episcopato per la sua dimensione metastorica e mistica.
Con l’ordinazione episcopale, infatti, il Vescovo è inserito nella linea della successione apostolica che risale sacramentalmente fino a Cristo: trascende quindi il tempo, pur nell’avvicendarsi cronologi­co dei suoi componenti, perché entra nel Collegio formato da tutti i Vescovi con Pietro e sotto Pietro. Questo inserimento si esprime nella comunione con il Papa alla quale ogni Vescovo deve la sua missione di Pontefice nella Chiesa particolare.

Un posto indelebile

L’iscrizione del Vescovo Eugenio nell’albo dei presuli della Chiesa luganese non è perciò un monumento posto a memoria del suo passaggio, ma espressione del suo indelebile inserimento in una successione e comunione che rimane talmente viva che senza di essa non vi sarebbe la Chiesa.
Cristo ha amato il suo servo fedele perché gli ha concesso la forza d’animo e la fede capace di non perdere mai di vista il traguardo. Ora lo possiamo dire, noi che l’abbiamo accompagnato nel suo lungo cal­vario con il Libro della Sapienza: “in cambio di una breve pena rice­veranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé… li ha graditi come olocausti”
(Sap 3, 5-6). E con Paolo: “Un momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2 Cor 4, 17).
Il nostro Vescovo è giunto al varco talmente alleggerito del suo corpo, per cui, quando gli si sono aperti i cieli, gli è bastato un pas­so per incontrare Colui nel cui nome ha istruito, santificato e retto questo suo popolo durante i troppo brevi anni del suo episcopato che rimane in benedizione.
Amen.

La costante esigenza di una pastorale dinamica
di mons. Henri Salina
Abate di S. Maurice e presidente della Conferenza episcopale svizzera

Con emozione nel corso di una liturgia che ci vuole però espri­mere la speranza, noi diciamo un addio e un arrivederci al nostro caro Eugenio, Vescovo di Lugano.
A nome della Conferenza dei Vescovi svizzeri, di cui fu membro dall’estate 1986, vorrei innanzitutto esprimere alla Chiesa diocesa­na di Lugano, a tutti i suoi fedeli, al suo presbiterio, ai suoi amici e anche, dal fondo del cuore, alla mamma e alla famiglia del nostro fratello defunto, la nostra fraterna vicinanza nella preghiera.
Altri hanno parlato e parleranno della vita e del percorso eccle­siale di monsignor Eugenio, senza dimenticare la sua fama interna­zionale di canonista.
A nome della nostra Conferenza io vorrei semplicemente testi­moniare come ci sia sempre parso che l’esigenza di una pastorale dinamica abbia abitato il cuore del nostro confratello.
E soprattutto vorrei dare testimonianza al grande e bel ricordo che il Vescovo Eugenio ci lascia degli ultimi suoi tre anni di vita. Ci ha indicato che entrava profondamente nel mistero della Pasqua di Gesù e che vi comunicava.
La lucidità e il coraggio del suo «fiat voluntas tua», sia fatta la tua volontà, rimarranno a ricordo ed edificazione di noi tutti.
Grazie monsignor Eugenio Vescovo, arrivederci in Dio.

Nella sofferenza una via all’incontro con Dio

Monsignor Eugenio Corecco – precisa il suo esecutore testa­mentario, monsignor Giuseppe Bonanomi – non ha redatto un te­stamento spirituale. Ma ha terminato alcune sue disposizioni testamentarie con questo pensiero:
“Ai miei diocesani, che mi sono stati e mi sono sempre cari, la­scio come mio ricordo particolare le mie riflessioni sulla sofferenza, perché tutti passiamo attraverso ad essa e per tutti può essere via all’incontro con Dio”.

E col pensiero andavamo alle radici del credere
di Flavio Cotti
Consigliere federale

Con Eugenio Corecco fummo amici sin dai tempi della gioventù. Una gioventù che era sinceramente protesa alla traduzione nell’esi­stenza quotidiana di importanti valori umani. Ci ritrovammo più tar­di in tante occasioni. La sua ascesa all’episcopato coincise temporalmente con la mia entrata in Consiglio Federale. Agli iniziali incontri con cari amici a Monte Brè sopra Locamo, altri numerosi seguirono a Friborgo e talvolta assieme ai suoi confratelli nell’episcopato. Il ca­lore, l’amicizia e la schiettezza furono importanti ingredienti del no­stro dialogo. Ma non i soli. Sempre ad essi si aggiunse la sostanza, in particolare nell’approfondimento dei fondamentali quesiti religiosi. L’esperienza della finitezza della vita terrena, la coscienza della nostra fragilità e della nostra debolezza, anche quando raggiungiamo i più alti traguardi, sono queste le ragioni che spingono chiunque voglia riflettere, verso la ricerca delle verità ultime, verso le prospettive escatologiche, verso le origini della speranza. Questi temi furono so­vente oggetto delle nostre discussioni.
Personalmente non mi identificai con il movimento di Comu­nione e Liberazione, che Eugenio Corecco fondò in Svizzera dopo essere stato assistente di Lepontia cantonale. Come sostenitore convinto del più ampio pluralismo possibile nell’ambito della Chie­sa, considerai tuttavia Comunione e Liberazione, sin dall’inizio, come una delle più impegnate espressioni di questo pluralismo nel­la comunità ecclesiale. Ma il dialogo con Eugenio andava, dicevo, ben oltre gli aspetti formali diversi che possono rivestire l’esperien­za quotidiana della fede a livello individuale e collettivo. Il pensiero ci spinse sovente fino alle radici, all’essenza unica e fondamentale della fede cristiana, che è il Cristo risorto. Attorno a questa sublime realtà le differenze di orientamento e di metodo, la molteplicità delle valutazioni che il già citato pluralismo consente, tendono a scomparire, come scompare o comunque parecchio si attenua anche lo spazio che separa le diverse confessioni cristiane. Ragionare con Eugenio Corecco, lo sa bene chi l’ha conosciuto, fu sempre oc­casione di arricchimento e di stimolo morale e intellettuale. Egli fu davvero uomo di grande cultura, studioso eminente, taluni dicono il maggiore specialista di diritto canonico di questi tempi. Rifiutan­do però di rinchiudersi nelle tentazioni delle accademiche torri d’avorio, egli sempre sostenne l’idea che il sapere non è fine a se stesso, che esso deve aprirsi al dialogo con i giovani, a lui particolar­mente cari, e con la società tutta intera.
Lasciando l’Alma Mater Friburgensis e diventando il Vescovo dei ticinesi, egli volle che la Svizzera Italiana avesse un suo centro di riflessione, di insegnamento e di diffusione culturale. Un centro che fosse al contempo legato alla realtà che lo circonda e collegato con il mondo intero. Creando la Facoltà di teologia, egli realizzò un primo passo nella concretizzazione della speranza, che espressi anch’io tempo fa a Poschiavo, di poter realizzare nella Svizzera ita­liana una propria attività di carattere universitario, per il bene della cultura, specifica e particolare nostra.
Giunse il momento crudele della malattia. Essa si annunciò sin dall’inizio sotto gli auspici più neri. Vennero gli incontri all’Inselspital di Berna; arrivò l’ultimo saluto qualche settimana fa presso la Curia vescovile. Non dimenticherò mai la sofferenza fatta immagi­ne, la mestizia del dolore dipinta sul suo viso, ma meno ancora di­menticherò la grande dignità e ancora più mi rimarrà impressa l’in-credibilmente naturale serenità, che il suo volto ancora irradiava. Dignità e serenità, segno esteriore della fede profonda nelle verità essenziali del cristianesimo e certo anche della coscienza, schietta e non presuntuosa, del ruolo, che anche nei momenti drammatici è riservato al Vescovo: essere a tutti di esempio. Sia pace all’anima di un grande ticinese e di un vero amico.
Alla mamma, alla sorella, ai parenti tutti esprimo le mie perso­nali e del Consiglio Federale, sincere condoglianze.

Il carisma dell’interlocutore riferimento per il Paese
di Renzo Respini
Presidente del Consiglio di Stato

Dopo aver avuto, in quel memorabile 29 giugno 1986, l’onore e la gioia di salutare in Eugenio Corecco il nuovo Vescovo della Dio­cesi di Lugano, tocca ancora a me il compito questa volta grave di esprimere a nome personale e a nome del Consiglio di Stato la pa­rola del commiato dal nostro Vescovo.
Era tornato in Ticino ricco di universale notorietà quale ammira­to studioso del Diritto canonico e della teologia, spinto dall’insop­primibile amore per la sua gente e per la sua terra e desideroso di diventare luogo di incontro dei ticinesi di ogni confessione e di ogni sensibilità di pensiero. Era tornato in mezzo a noi spinto dalla voca­zione vera e unica della sua vita che era la fede e l’amore per la Verità vissuta nella Chiesa, luogo di fedeltà all’origine e di comunione tra le persone, per essere «maestro di dottrina, sacerdote del sacro culto, ministro del governo della Chiesa» che è in Lugano.
È stato un dono prezioso per il Ticino, un dono che inizialmen­te solo in parte abbiamo compreso avvertendone poi, con il tempo, il crescente valore e realizzato l’importanza. Un dono che resterà dopo la morte per i segni che ha lasciato nei nostri animi e nella no­stra realtà e per il ricordo del suo calore umano, delle sue profeti­che letture dell’evoluzione in atto nella nostra società, della sua capacità di stupirsi davanti alle cose semplici.
Ha avuto il carisma per far convergere il dialogo interno alla Chiesa ticinese, per avviare la ristrutturazione della Diocesi e, cosa assai più difficile, per ridiscutere senza pregiudizi il tema dei rap­porti tra lo Stato e la Chiesa nel nostro Cantone. Ha avuto il carisma per divenire interlocutore del nostro Paese, per essere un riferimento ricercato da tutti coloro che credono nella possibilità di migliorare la nostra società.
Una dimensione del suo carisma era il desiderio del meglio, la sua volontà programmatica tesa a superare i valori puramente umani spingendo la riflessione verso quell’orizzonte ove si completa quel­l’ininterrotto legame tra il mistero di Dio e il mistero dell’uomo.
Per questo «ad charismata meliora intenti» ha voluto la Facoltà di teologia, generoso e anticipatorio contributo in favore del Ticino universitario e decisivo elemento per un più maturo dialogo tra fede e cultura, per la battaglia in favore della cultura che libera dai preconcetti e dalle ideologie.
La parte più sensibile della nostra società, ossia i giovani che sono più attenti e più capaci di percepire l’autenticità della testimo­nianza degli uomini, ha avvertito la ricchezza non comune della sua fede, che era forte al punto di diventare esperienza comunicabile e quindi elemento della società. Per loro non solo ha vissuto, ma ha saputo continuamente rinnovare se stesso perché con i giovani camminava sui loro stessi sentieri.
A noi ha saputo spiegare le parole più difficili del Salmo «la tua grazia è più grande della vita» e ha saputo dare la testimonianza della sua malattia, delle sue speranze, della sua preghiera per guari­re. La testimonianza anche del Vescovo che rimane umile nel co­raggio di confessare un sentimento inesprimibile: la paura umana della sofferenza, della morte, della scomparsa nel nulla.
Per questo è stato il Vescovo di tutti perché a ognuno ha dato un pezzo di sé e il valore sociale – pubblico si dovrebbe dire – di questo dono trova riscontro nell’unanime cordoglio di un intero popolo. Mi faccio interprete dei sentimenti del Consiglio di Stato e del popolo ticinese di ogni sensibilità e di ogni appartenenza per dire il pubblico ringraziamento al Vescovo Eugenio Corecco per il suo operato. Esprimo le più sentite condoglianze al Capitolo, al clero, ai familiari e a tutti coloro che hanno pianto per la morte del Vescovo Eugenio.

Un debito di riconoscenza della Facoltà per il fondatore
di P. Georges Chantraine
Rettore della Facoltà di Teologia, Lugano

Noi membri della Facoltà di Teologia di Lugano siamo afflitti nell’intimo del cuore dalla perdita del nostro Gran Cancelliere, monsignor Eugenio Corecco e dalle lunghe sofferenze da lui sop­portate con coraggio e dignità.
Contemporaneamente sentiamo un’immensa riconoscenza per il fondatore della nostra Facoltà, che si è impegnato sino alla fine delle sue forze a rendere la Facoltà capace di svolgere il suo ruolo culturale e scientifico, e osiamo sperare dalla misericordia divina che egli, introdotto nella Comunione dei Santi, completerà, anche grazie alle sue sofferenze, la fondazione della nostra Facoltà, con­formemente a quanto Dio gli chiederà e gli darà.
Perciò preghiamo; preghiamo per lui e gli chiediamo di interce­dere per noi che dobbiamo continuare la sua opera. Non possiamo far meglio per venerare la sua memoria, che essere fedeli all’orien­tamento e all’impulso da lui dati alla Facoltà.
Egli ha voluto creare un Centro di insegnamento unito all’espe­rienza ecclesiale e di ricerca scientifica atta a far conoscere meglio Dio e l’uomo.