- Una vocazione maturata prestissimo a Chiasso
di Gianni Ballabio - Dai ricordi di Chiasso a quelli della Curia
di Mons. Giuseppe Bonanomi - Il ricordo di lontane omelie estive leventinesi
di Mario Agliati
Una vocazione maturata prestissimo a Chiasso
di Gianni Ballabio
Il Vescovo Eugenio Corecco, attinente di Bodio, era nato a Airolo il 3 ottobre 1931 da Pietro e da Margherita nata Beffa.
La famiglia abitava però a Chiasso, dove il padre, meccanico di formazione, era capoverificatore presso la stazione FFS. Precisa la sorella Stefania: “le nascite nella nostra famiglia avvenivano tutte ad Airolo, presso la nonna materna. Ogni parto nella stessa stanza; come una tradizione”.
Un bambino vivace e pieno di gioia
A Chiasso la famiglia abitava vicino al Lungobreggia, dove il padre aveva acquistato una casetta, chiamata “il villino ideale”.
Com’era da bambino? Precisa ancora la sorella, maggiore di qualche anno: “Era un bambino nato bene, sempre pieno di vita, di gioia, anche travolgente. Gli piaceva giocare. Le sue passioni: il calcio e la bicicletta. Ma era piccolo e per andare con la bicicletta del papà, doveva infilare la gamba nel telaio”. Da grande confidava alla sorella di avere la passione delle auto. “E gli piaceva andare veloce. La sua auto, poi, specie nel periodo di Friborgo, era sempre in mano agli studenti, che non la rispettavano troppo”. Cambiandole, le comprava sempre della stessa marca (prima il Maggiolino WV e poi la BMW) e dello stesso colore. “Ricordo che la mamma, ignorando questo particolare, commentava dicendo che aveva una gran cura della macchina, perché, nonostante gli anni, sembrava sempre nuova”. Gli piaceva sciare e andare in montagna, “anche un po’ da spericolato. E in montagna portava anche la mamma, fino a non molti anni fa”. Prima della macchina, quando era parroco a Prato Leventina, aveva preso la Vespa. “Una volta, mentre la stava riaccompagnando ad Airolo, la mamma gli chiese di fermarsi. Voleva scendere perché andava troppo in fretta”.
Ma insieme quel bambino indicava già serietà e coraggio. Li avrebbe poi manifestati compiutamente durante la malattia. Diceva alla sorella, prima delle dolorose e tremende operazioni: “Ci vuole coraggio e sangue freddo. Come arrivo in sala operatoria, chiudo gli occhi e non vedo niente. Poi mi addormentano “.
Alzarsi alle 6.00 per servire Messa
Amava scherzare. Così “all’asilo parlava in italiano con la maestra, usando invece il dialetto di Airolo con l’inserviente, che, alla sera, chiedeva alla mamma, quale lingua parlasse il suo bambino“.
Ed era già “un gran lavoratore”. Aiutava il papà nell’orto (“li rivedo ancora, mentre tirano il filo prima di seminare”); la mamma a fare il bucato (“fino al punto di chiedere di rimanere a casa da scuola per questa importante operazione, che lo divertiva tantissimo e lo faceva sentire importante”); il nonno contadino e allevatore a Airolo, salendo con lui persino sull’alpe. E dal nonno (“chiamato ad Airolo “il re dei contadini”) ha imparato moltissimo, attingendo saggezza e serenità dalla sua esperienza. Perché d’estate “si saliva sempre in Leventina: dai nonni materni ad Airolo e da quelli paterni a Bodio”.
“Sempre generoso, non criticava mai nessuno, aveva un animo semplice”. E grande sincerità.
“0 diceva la verità o taceva”.
Ricorda ancora la sorella: “voleva andare a servir Messa e si faceva chiamare dalla mamma alle 6.00 per arrivare in tempo a quella delle 6.30. Aveva sentito che le vecchiette dicevano all’arciprete, il canonico Bernasconi, di volere il Corecchino, come chierichetto, alle messe dei loro defunti. Quello piccolo e con la frangetta”.
A scuola andava benissimo. “Tutte le sere era felice di mostrare alla mamma, che l’aspettava alla finestra, il foglietto del giudizio per condotta e comportamento. Ma la sua gioia era soprattutto quella di farla felice. Era il suo pupillo e le dava solo soddisfazioni”. E in questi anni, subito dopo le operazioni, “le faceva telefonare che stava benissimo”.
Da piccolo cantava sempre, “accompagnato dal canarino che c’era in casa”. Ubbidiente. “Ricordo che ogni tanto la mamma, alla domenica, ci diceva di tornare a casa subito, dopo la riunione all’oratorio e di non fermarci per il cinema. Lui ubbidiva prontamente, obbligando anche me a farlo, che invece avrei voluto rimanere”.
Finite le elementari a Chiasso, comunicava l’intenzione di entrare in seminario. Ma era tanto piccolo che papà e mamma preferirono farlo aspettare, parlandone prima con il Vescovo, mons. Angelo Jelmini, che il papà conosceva bene, avendolo avuto come parroco a Bodio.
Le petit curé
Così frequentava la prima maggiore a Chiasso, ripetendo in continuazione di “perdere un anno, soprattutto per il latino “.
L’entrata al San Carlo di Besso avveniva l’anno successivo e dopo appena un mese moriva improvvisamente il papà. Non aveva ancora 44 anni e la famiglia lasciava Chiasso per trasferirsi ad Airolo.
Gli anni del seminario – ginnasio e liceo – erano preziosi di impegno e di serenità. Scriveva alla mamma di “non mandargli più il Banago – una specie di Ovomaltine – da metter nel caffelatte, ma solo scarpe (le faceva fuori giocando a calcio) e libri, che erano la sua passione’‘.
A quei tempi in seminario “ci si vestiva subito da preti e a 12 anni era salito a Lugano con la mamma per comperare tutto il necessario, e aveva voluto anche il cappello ‘a trii pizz’, come chiamava il tricorno”.
Un altro ricordo: “una volta alla stazione di Lugano, una bambina francese non voleva salire sul treno perché si era fermata a guardare quel pretino, dicendo: “maman je dois regarder le petit curé”.
Riusciva in tutto, “anche a militare era il primo nel tiro alla pistola e nel salto in lungo”.
Roma e Monaco di Baviera
Dopo gli studi ginnasiali e liceali in seminario, frequentava, dal 1952 al 1956, l’Università Gregoriana di Roma, ottenendovi, nel 1956, la licenza in Teologia. Il 2 ottobre 1955 veniva ordinato sacerdote, celebrando la Prima Messa ad Airolo, e dal 1956 al 1958 è stato parroco residente di Prato Leventina.
Dal 1958 al 1962 continuava gli studi presso l’Istituto di diritto canonico dell’Università di Monaco di Baviera, conseguendovi il dottorato; mentre dal 1962 al 1965 frequentava l’Università di Friborgo, ottenendovi la licenza in diritto civile.
Dopo due anni di insegnamento, quale docente di diritto canonico nel seminario teologico di Lugano e di tedesco nel collegio Pio XII, seminario minore, di Lucino, e dopo altri due di ricerca scientifica all’Università di Monaco di Baviera, veniva nominato, nel 1969, professore ordinario di diritto canonico presso la Facoltà di Teologia dell’Università di Friborgo, con la funzione di decano dal 1979 al 1981. Durante il suo insegnamento a Lugano, aveva operato anche presso il tribunale ecclesiastico, quale vice-officiale.
Nel giorno di San Pietro
Nell’ambito della sua intensa attività accademica, ha pure insegnato, in qualità di docente invitato di Diritto Canonico e di Ecclesiologia, presso altri Istituti e Facoltà. Come alla Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale di Milano, di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano e dell’Università di Perugia, di Teologia Protestante dell’Università di Ginevra.
Il 5 giugno 1986 veniva nominato Vescovo di Lugano, ricevendo l’ordinazione episcopale il successivo 29 giugno, festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo, nella Cattedrale di San. Lorenzo. Così lo salutava il suo predecessore, mons. Ernesto Togni, il 7 giugno 1986: «Sacerdote nel 1955, dedicò alcuni anni al servizio della Diocesi, come parroco di Prato Leventina e come insegnante nel seminario. Ma gli studi prima e l’insegnamento universitario poi lo portarono presto via e lo mantennero costantemente lontano dalla nostra diocesi, alla quale servì in altro modo, facendo parte di Consigli e di Commissioni, e soprattutto interessandosi attivamente alla formazione dei giovani studenti universitari. Ora quel prete dall’aspetto sempre giovane torna a noi, con qualità ed esperienze che tutti gli riconoscono, come Vescovo, a guidare, come pastore, il popolo di Dio che forma la Chiesa che è a Lugano».
«Il suo nome – concludeva il Vescovo Togni – che tornerà nella nostra preghiera e nel nostro parlare, ripete quello del Vescovo Eugenio che ci guidava cent’anni fa e che proprio nell’estate 1886 consumava nella morte il servizio breve ma generoso al suo nuovo popolo».
«Il Vescovo – sottolineava monsignor Corecco in cattedrale il giorno della sua ordinazione episcopale – non è il principio e il fondamento della Chiesa locale, come il Papa non lo è della Chiesa universale, perché per molti aspetti tutti quanti siamo con la stessa legittimità principio e fondamento di quella Chiesa che costituiamo storicamente, aderendo alla persona di Cristo. Il Vescovo secondo l’insegnamento del Vaticano II (LG 23,1) è il principio e il fondamento dell’unità della Chiesa locale. E’ il garante della comunione, del fatto che nella Chiesa locale “il tutto si realizza nel frammento” come ha formulato il grande teologo Hans Urs von Balthasar».
«La seconda funzione del Vescovo – proseguiva – è inoltre quella di essere garante dell’unità della Chiesa locale con la Chiesa universale. Questo e l’altro aspetto messo in evidenza dall’atto liturgico che sta per concludersi in questa Cattedrale. La presenza di Vescovi svizzeri e stranieri sta a significare che l’ordinazione di un Vescovo concerne non solo questa nostra Chiesa particolare di Lugano, ma tutta la Chiesa universale».
Collaboratore del Papa
Anche dopo questa importante e gravosa nomina, cui faceva seguito un forte impegno pastorale, il Vescovo Eugenio ha continuato nella sua intensa attività scientifica, pubblicando numerosi scritti, parecchi dei quali tradotti in diverse lingue.
Nel 1982 è stato chiamato da Giovanni Paolo II in qualità di esperto della ristrettissima commissione di sette membri costituita dal Papa per preparare la decisione circa la promulgazione del Nuovo Codice di Diritto Canonico, avvenuta nel 1983.
In seguito Giovanni Paolo II lo nominava consultore del Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi.
L’attività scientifica e di ricerca di monsignor Corecco, che ha trovato la sua espressione più immediata nell’insegnamento accademico e nelle molte sue pubblicazioni, ha avuto sempre più una dimensione internazionale, con riconoscimenti a livello mondiale.
Citiamo al riguardo la sua collaborazione alla Rivista internazionale di teologia, “Communio”, della cui redazione italiana è stato fondatore nel 1971, mentre in Germania e in Francia, la stessa veniva curata da Hans Urs von Balthasar, da Henry de Lubac e da Joseph Ratzinger. Un altro ambito in cui ha portato un determinante contributo è stata l’associazione internazionale dei canonisti, la“Consociatio internationalis studio iuris canonici promovendo “, della quale assumeva la vicepresidenza nel 1980, dopo il quarto congresso internazionale di diritto canonico da lui organizzato a Friborgo.
Veniva in seguito chiamato alla presidenza di questo importante organismo nel 1986, con la riconferma nel 1993.
Riconoscimenti internazionali
In trent’anni di attività scientifica, sia come professore, sia come Vescovo, ha tenuto innumerevoli conferenze a Congressi e Simposi internazionali di diritto canonico e di teologia, in varie e importanti università, segnate da preziosa tradizione accademica e di ricerca: Salamanca, Varsavia, Cracovia, Berkeley, Ottawa, Lublino, Pavia, Urbino, Firenze, Roma, Bologna, Monaco e l’Istituto Cattolico di Parigi.
Nel 1994, prima a Lublino, poi a Lugano, in altrettanti momenti particolarmente significativi, sono stati celebrati il suo impegno e le sue intuizioni teologiche.
Il lunedì 23 maggio, nell’aula magna dell’Università cattolica di Lublino in Polonia, ha ricevuto il dottorato “honoris causa” in diritto canonico. Un riconoscimento, per sottolineare il suo ruolo al congresso mondiale dei canonisti tenutosi a Lublino nel 1993, per richiamarne l’opera svolta alla guida dell’associazione mondiale dei canonisti, per precisarne la preziosa attività pastorale, con particolare riferimento alla ripresa dell’Azione Cattolica nella Diocesi di Lugano e alla nascita in Svizzera del movimento ecclesiale, “Comunione e Liberazione”.
La nascita della Facoltà
Il sabato 12 novembre, a Lugano, aveva invece luogo un convegno di studio, per ripercorrere e far conoscere anche ai non addetti ai lavori, “il contributo di Eugenio Corecco alla canonistica post-conciliare”, lungo le coordinate di “antropologia, fede e diritto ecclesiale” e veniva presentato il volume, “Eugenio Corecco. Ordinatio fidei. Schriften zum kanonischen Recht”: un itinerario che attraversa il suo pensiero e i suoi scritti nell’ambito del diritto canonico.
Al termine di quell’ incontro, il nostro Vescovo, precisato di “aver sempre privilegiato nel suo scrivere il genere letterario dell’articolo”, esprimeva la nostalgia per “un trattato generale sul diritto canonico”.
Quasi a coronamento del suo intenso impegno di teologo e pastore, il Vescovo Eugenio fondava a Lugano, con decreto 27 aprile 1992, l’Istituto di Teologia, riconosciuto da Roma l’8 maggio successivo. Lo stesso fu eretto a Facoltà di Teologia, a tutti gli effetti accademici, con decreto della Santa Sede del 20 novembre 1993. Della stessa è stato il Gran Cancelliere fin dalla sua apertura.
Monsignor Corecco, oltre ad avere esercitato un’intensa attività pastorale, anche prima della sua elezione all’episcopato, soprattutto quale assistente spirituale degli studenti ticinesi e quale fondatore, in Svizzera, del movimento ecclesiale Comunione e Liberazione, ha preso parte attiva alla vita della Chiesa.
In Svizzera, prima dell’ordinazione episcopale, come membro di diverse commissioni della Conferenza dei Vescovi Svizzeri, tra le quali la Commissione teologica e la Commissione centrale per la preparazione del Sinodo Svizzero 1972. In seguito, dopo la sua ordinazione episcopale, come vicepresidente della Conferenza dei Vescovi svizzeri dal 1987 al 1991. Va poi sottolineata la sua partecipazione a Roma a due Sinodi dei Vescovi. Nel 1987, su invito e nomina del Papa, al Sinodo sulla “Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo”; nel 1990, a quello sulla“Formazione al sacerdozio”, quale rappresentante della Conferenza dei Vescovi Svizzeri.
Gli scritti pastorali
In questi anni di episcopato numerosi sono stati gli scritti e gli articoli, attraverso i quali si è rivolto alla sua gente. Ricordiamo in particolare le sue lettere e i suoi scritti pastorali, succedutisi con scadenze regolari. “Siate forti nella fede” (Pasqua 1987); “Lettere dal Sinodo dei Vescovi” (autunno 1987); “Il consiglio pastorale diocesano” (gennaio 1988); “Lettere dall’America latina e dalla Terra Santa” (febbraio 1988); “La verginità nel ministero sacerdotale” (giovedì santo 1988); “Annunciate il vangelo” (Quaresima 1989); “Lettera dall’ottavo sinodo dei vescovi” (ottobre 1990); “Preparazione e celebrazione del sacramento della cresima” (Quaresima 1991); “L’insegnamento religioso nella scuola” (Quaresima 1993); “Le zone pastorali” (4 novembre 1994, festa di san Carlo).
Significativa in questi anni è stata la sua attenzione pastorale per la catechesi, i giovani, la necessità della testimonianza e della presenza cristiana dentro la realtà di tutti i giorni. Ai giovani si è dedicato con impegno continuo, partecipando a incontri, pellegrinaggi (ancora nel febbraio 1994 si era recato con loro in Terrasanta e aveva sperato fino all’ultimo di poter partecipare all’incontro con il Papa a Manila del gennaio 1995), giornate di catechesi e di formazione, anche quando la malattia già l’affaticava e lo faceva soffrire. Proprio ai giovani ha dedicato la sua ultima sosta in cattedrale, per incontrarli, la sera del venerdì 27 gennaio.
Malattia: segno profetico
Lo scorso settembre era stato nominato Gran Priore della Luogotenenza Svizzera dell’Ordine Equestre del S. Sepolcro di Gerusalemme, in sostituzione del compianto mons. Johannes Von-derach, già Vescovo di Coira.
Poi la malattia: un cammino (iniziato nell’autunno del 1992) di sofferenza sempre più faticoso.
L’ “ultima sua cattedra”, dalla quale ha voluto e saputo insegnare il dolore: il coronamento e la completazione dell’esistenza e della missione nella croce, come Gesù.
“Il compito del Vescovo – ha precisato – non è solo quello di predicare il Vangelo, ma anche di aiutare concretamente i fedeli a viverne l’annuncio, a incarnarlo nel quotidiano. Per questo il Vescovo non può sottrarsi di dare anche la sua esperienza sul come ha vissuto e può vivere la malattia, parte integrante della nostra esistenza “.
Una testimonianza che è divenuta annuncio, accolto dalla gente, credenti e non credenti, con commozione, affetto, grande partecipazione. Momenti forti sono stati quelli in cui direttamente e pubblicamente ha voluto comunicare, con immediatezza e altrettanta serenità, la sua esperienza di dolore e fatica. Come alla trasmissione “Controluce” del 23 gennaio 1994 o come a Trevano, nell’aula magna della Scuola tecnica superiore, la domenica 27 novembre 1994. “Accettare la malattia – aveva sottolineato – è la condizione perché possa diventare segno profetico, momento nel quale superiamo le tentazioni che abbiamo dentro nel corso di tutta la vita, perché possiamo capire che è una grazia, in quanto ci cambia interiormente. L’accettazione è il presupposto che dobbiamo avere dentro di noi, che il Signore ci può dare come grazia, perché da soli non possiamo realizzarla totalmente. La prima cosa che dobbiamo fare quando siamo malati è quella di accettare la situazione davanti al Signore, per lasciare che questa situazione nuova della nostra esistenza esplichi tutti gli effetti benefici, tutte le conseguenze benefiche, che magari il mondo non condivide”.
“La malattia come ultima e sublime testimonianza di amore e di adesione a Dio e alla Sua Volontà”,con queste parole la Curia vescovile ne comunicava la morte, avvenuta “nella sua camera presso il palazzo vescovile, alle ore 14.55 di mercoledì 1. marzo 1995, giorno delle Ceneri”.
“In queste ultime settimane – proseguiva il comunicato – durante le quali la situazione generale si era gradualmente aggravata, aveva chiesto e ricevuto il sacramento della penitenza, il sacramento degli infermi, e ogni giorno nella sua camera veniva celebrata la Santa Messa, alla quale partecipava dal suo letto, in un silenzio e raccoglimento sereni, che già anticipavano il suo progressivo entrare nell’eternità di Dio e del suo amore “.
Il motto e lo stemma
Il sabato 28 giugno 1986, alla vigilia della sua ordinazione episcopale, si rivolgeva per la prima volta alla Diocesi, aprendo così il suo messaggio, diffuso dalla TSI: “Vi parlo da questo convento di clausura sopra Claro, dove vive una comunità di benedettine. E’ senza dubbio una delle realtà più preziose della nostra diocesi. Sono salito quassù per prepararmi, perché domani sarò ordinato Vescovo di Lugano; per moltissimi di voi, vostro Vescovo nel senso più stringente del termine”.
In quel messaggio illustrava alla gente il suo stemma episcopale, comprendente un motto e due segni araldici. Il motto: “In omnibus aequitas quae est Deus”, che traduceva: “l’equità in tutto, perché è Dio”. “Sono convinto – precisava – con tutta la tradizione cristiana che ha prodotto questa formula già nel 1200, che l’equità è una forma superiore della giustizia. Anzi, coincide con la giustizia di Dio. La giustizia di Dio, nella sua essenza, é misericordia e perdono. Non ha come simbolo la bilancia umana, dove si pesa meticolosamente il dare e l’avere, ma ha come simbolo la croce che è l’espressione della redenzione e del perdono di Dio. Questa realtà noi dobbiamo renderla presente nella storia attraverso il perdono che ci concediamo vicendevolmente”.
I due segni araldici sono la graticola, simbolo di San Lorenzo, patrono della Cattedrale di Lugano, e l’immagine di San Gottardo.
“La graticola su cui è stato bruciato San Lorenzo ci richiama l’attualità terribile del martirio. Il martirio non è un fenomeno esclusivo della Chiesa primitiva, dilaga attualmente in tutta la Chiesa d’Oriente e d’Occidente”.
Stiamo impoverendo lo spirito
E dopo aver ricordato la tremenda affermazione del Papa durante il suo viaggio in Svizzera del 1984 (“viviamo in una civiltà della morte”), formulava con chiarezza un messaggio che sarebbe ritornato più volte nel suo impegno di pastore e guida: “la nostra grande distrazione rispetto a questi fatti orrendi, appena interrotta da qualche sussulto di coscienza di fronte a singoli fatti particolarmente gravi, è il sintomo che stiamo impoverendo nello spirito; una povertà spirituale mal compensata dalla nostra ricchezza materiale”.
Poi la scelta di San Gottardo, non “dovuta solo ad un fremito vallerano”, ma perché figura altamente simbolica. Il colle a lui dedicato “è il simbolo di tutto il Ticino, della nostra unità etnica e culturale, della nostra italianità. Ha determinato la storia di tutte le genti che ci hanno preceduto in queste vallate e nelle quali si riconosce ogni ticinese”. Sottolineato che il santo “fu un grande precursore della cultura cristiana europea”, ricordato che nei brevi anni del suo episcopato aveva costruito ben trenta chiese (“per questo l’iconografia lo rappresenta con una chiesa in mano”), precisava: “non saranno le chiese quelle che mancano oggi, ma un Vescovo è costruttore della Chiesa di Cristo, per cui l’ho scelto come patrono”. E aggiungeva: “la figura di San Gottardo è perciò carica di un simbolismo che dobbiamo riscoprire, ed oggi abbiamo più che mai bisogno di simboli, se non vogliamo soffocare nei nostri piccoli orizzonti”.
Chiudeva quel messaggio, alla vigilia della sua ordinazione episcopale, con la semplicità del fratello, chiamato a guidare e confermare i suoi fratelli, come loro Vescovo: “Ecco, vi ho detto alcune cose in cui mi identifico; se domani qualcuno di voi mi ricorderà al Signore, gliene sarò infinitamente grato “.
Dai ricordi di Chiasso a quelli della Curia
di Mons. Giuseppe Bonanomi
Quando il 5 giugno del 1986 venne comunicata l’elezione del prof. dr. Eugenio Corecco alla Sede Vescovile di Lugano, gli scrissi un breve biglietto, mettendo a sua disposizione il mandato di cancelliere vescovile e di economo diocesano, perché in piena libertà potesse costituire al momento opportuno la sua Curia. Come al suo predecessore, mons. Ernesto Togni, aggiungevo che era l’ultima volta che mi sarei rivolto a lui in termini confidenziali. Questa confidenza in realtà era di lunga data. Qualche anno fa mi era capitata tra le mani una fotografia, scattata in occasione della presenza della Madonna Pellegrina a Chiasso, il 5 marzo 1949; proprio quella fotografia che è stata riprodotta sul volume-ricordo di quel grande avvenimento. Ero sceso da Comologno, dove avrei accolto la Madonna del Sasso nel maggio successivo, per informarmi, da semplice spettatore, sullo svolgimento delle cerimonie; ma appena entrato in sagrestia, il carissimo arciprete d’allora, il canonico Eugenio Bernasconi, pensò bene di affidarmi l’incarico di portare la croce, incarico che, a dir la verità, non accettai con grande entusiasmo.
Ma ora conservo quella foto come un geloso ricordo, perché vedo accanto a me, sulla sinistra, ancora seminarista, nientemeno che Eugenio Corecco, il futuro Vescovo del Ticino.
La famiglia Corecco non abitava più a Chiasso in quell’anno, ma Eugenio vi aveva frequentato tutte le elementari e nel ’49 era studente di liceo. Io lo ricordo però ancora più piccolo, quando giocava all’Oratorio, diretto allora dal compianto don Aquilino Mattei, al quale Eugenio Corecco attribuiva gran merito della sua vocazione sacerdotale ed era attivo come lupetto nella locale Sezione Esploratori Cattolici. Dopo questi fugaci incontri, il bambino e il seminarista Corecco me lo trovai di fronte – alzando lo sguardo – come professore di università e laureato in diritto canonico. Erano gli anni della preparazione e della attuazione del Sinodo 72. Corecco era membro della Commissione dello Statuto che doveva redigere i regolamenti per lo svolgimento delle nomine dei membri e per la procedura. Per la nomina dei membri fu uno dei fautori del metodo diretto, che fu poi adottato nel nostro Ticino a differenza delle altre Diocesi, dove si preferì il metodo dei grandi elettori. Determinante sarà però la sua presenza per la elaborazione della procedura: il problema infatti si presentava abbastanza complicato perché era in vigore ancora il Codice di Diritto Canonico del 1917 che non prevedeva la presenza di laici nel Sinodo, mentre il Sinodo 72 voleva essere aperto ai laici, uomini e donne ( alle quali era garantita una percentuale di presenza) e ai giovani addirittura di 16 anni. Ma soprattutto si trattava di regolamentare una struttura nemmeno prevista dal Codice: quella delle sessioni a livello svizzero. Le decisioni a questo livello sarebbero poi diventate operanti solo se approvate dai singoli Sinodi diocesani. Pur avendo domicilio a Friborgo, partecipava alle sessioni del nostro Sinodo a Bellinzona, portando la vivacità delle sue intuizioni e la sicurezza della sua formazione.
Nella Cancelleria vescovile capitava di trovarsi confrontati con problemi giuridici: l’amicizia con il professor Corecco suggeriva una telefonata e la soluzione era molto facilitata.
Nel giugno del 1986, come detto all’inizio, la notizia della sua elezione a Vescovo di Lugano e la conseguente ordinazione. Proprio quel bambino, quel seminarista di un tempo, quel consulente che rispondeva con competenza condita dalla spensieratezza dell’amicizia, diventava così il superiore a cui si dovevano obbedienza, rispetto e venerazione. Non è sempre facile conciliare questi obblighi con la familiarità abituale; tanto più se pensiamo che mons. Corecco arrivava alla cattedra di S. Lorenzo in Lugano con tutto il contorno della sua fama come canonista, della considerazione del S. Padre e della sua attività nella Associazione dei canonisti, della quale sarebbe poi stato nominato presidente. Mantenni la promessa e in tutti questi anni mi rivolsi sempre a lui con l’appellativo di Monsignore. Atteggiamento antiquato? Ad ogni modo, monsignor Corecco, che mi aveva confermato nelle mansioni precedenti, accettò la mia decisione e si adattò alla mia mentalità, senza interrompere il dialogo fraterno. Così fu per me una grande soddisfazione, mantenere nei suoi confronti la condizione di dipendente, al quale è permesso esprimere il proprio pensiero con la disponibilità ad accettare la soluzione del superiore, qualsiasi essa fosse o con la gioia di vederlo condiviso. Nella Curia vescovile ritrovammo con lui l’atmosfera giovanile che aveva portato il suo predecessore, monsignor Ernesto Togni. Il personale però era diventato più numeroso per l’accresciuta mole di lavoro dovuta alle intense relazioni con studiosi e università di ogni paese, soprattutto in vista della costituzione dell’Istituto Accademico e poi della Facoltà Teologica e della riapertura del Seminario diocesano a Lugano. Con lui si fece la prima uscita di tutto il personale di Curia. Ma un velo di tristezza si posò inesorabilmente sulle nostre giornate e si fece sempre più pesante con il progredire della malattia. Mons. Eugenio, a dire il vero, faceva di tutto per nascondere la sua sofferenza: con la continua dedizione alla sua attività, con l’immancabile sorriso, con la partecipazione alle nostre piccole ricorrenze. Intravedendo tutte le sue preoccupazioni, le sue alte mire nel rinnovamento della vita diocesana ad ogni livello, pastorale, amministrativo e economico, sgorga spontaneo il lamento che ci è stato rapito troppo presto. Nel palazzo vescovile, per il momento, resterà l’atmosfera della casa dalla quale se ne è andato per sempre un familiare molto caro e prezioso. Il coro di preghiera che ha suscitato attorno alla sua Salma, diventa però certezza della intercessione del Vescovo Eugenio presso il Padre celeste, per l’avvenire della sua e nostra Diocesi.
Il ricordo di lontane omelie estive leventinesi
di Mario Agliati, scrittore
La prima volta ch’io vidi Eugenio Corecco fu nell’estate del 1957 o ’58, in un luogo tutto fuor delle mie consuetudini, cioè a me strano, e remotissimo; nientemeno che fuori dalla capanna dei Leitt (i laghetti), sopra, se ora non confondo, il Campolungo e il lago Tremorgio, a un’altitudine che non dico perché tornerebbe a darmi le vertigini. Ci ero salito nemmeno con troppa fatica (ma avevo allora un’altra età), accompagnato dal mio rimpianto cognato Mario, per raccogliere il materiale di un libretto che naturalmente mi guardai bene poi dallo scrivere. Ora, sotto di noi stava seduto su uno sperone di roccia un giovinotto gagliardo e dall’aria (così mi parve) un poco nordica, che andava consumando allegramente il pranzo al sacco con alcuni compagni ancor più giovani di lui: e insieme facevano di gran risate, continuamente collocando nel discorso il nome di “Friedländer”, che mi parve ricordare fosse il nome di un calciatore svizzero di pochi anni avanti. Perché quel nome? che ragione avevano quelle risate? Un mistero che mi volle poi durare. Mi resi però presto conto che si trattava di un sacerdote, ancorché senza talare come da noi allora sempre usava: coi pantaloni d’alpinista e una camicia nera: e seppi poi che era il parroco del villaggio non lontano di Prato Leventina, che per me voleva dire soltanto la patria di Giorgio Orelli, evidentemente in gita con alcuni giovanissimi parrocchiani. Ad Airolo acquisii di lui notizie più precise: era un’arca di scienza, un grande studioso che frequentava l’università, ed era presso (o forse vi era giunto di già) a laurearsi: non so se in teologia o in diritto canonico o in tutt’e due le discipline insieme, o magari in altre ancora. Gli potei parlare la prima volta nella casa del vicario (il carissimo indimenticabile don Franco), piena di mineralogia e flora alpina, e con in un angolo addirittura un cannoncino del Sonderbund. Gli chiesi allora (stavolta era in talare, ma portava i sandali sulle calze nere) l’origine di quel suo cognome che era pure un toponimo della regione di Airolo; mi rispose gentilmente ma dubitativamente, e senza voler insistere, come se la cosa non gli importasse più di tanto; si vedeva che lui mirava lontano, e più su. Poi via via lo trovai durante le molti estate passate lassù: fatto un certo punto non solo dottore, ma professore di università; sì che si poteva pensare di doverlo guardare con soggezione, se il suo tratto non fosse stato discreto e umile, pronto alla conversazione con umanità e affabilità.
Mi accadde poi di ritrovare Eugenio Corecco vescovo, quando, il 27 luglio 1986 tornò ufficialmente in quella chiesa parrocchiale che lo aveva conosciuto infante; e potei seguire tutta la cerimonia, che fu per molti aspetti commovente, come un’autentica festa insieme di fede e di popolo. Ricordo il saluto che sul sagrato gli rivolse la presidente del consiglio parrocchiale Luciana Coldebella Pini: mentr’egli stava ritto nella solennità dei paramenti episcopali con un impercettibile sorriso che appena attraversava la tensione del volto sotto la mitra dorata, e reggendo il pastorale, dono dei suoi conterranei, che nel ricciolo onde culminava voleva richiamare il vincastro della Bibbia, e nei materiali (larice, cristallo, come mi informarono poi) essere quasi espressione di un cultura alpina, cioè locale, cioè airolese. Disse allora la presidente che se un tempo le omelie di don Eugenio erano dalla popolazione ascoltate con uno stato d’animo non privo di una certa apprensione, perché a parlare era il “dottore”, il “gran professore”, ora l’omelia del prossimo pontificale sarebbe stata ascoltata con un animo trepidantemente nuovo e anche più gioioso: perché ora a parlare ai suoi airolesi era il “pastore” nel senso più alto e più pieno. L’omelia volle essere poi singolarmente significativa e felice: non incentrata sul Vangelo di quella domenica, ma su un altro, tolto da Luca, in cui si parlava dell’andata di Gesù a Nazareth, il villaggio in cui era cresciuto: ed ora al Vescovo incombeva di ripetere appunto quel che Gesù aveva detto ai suoi di Nazareth per dare nella sostanza la salvezza ai poveri: e tutti siamo poveri.
Ma a me poi, mentre osservavo da un laghetto appartato ed eminente, lo spettacolo, all’uscita, di quel piccolo mare di teste frammezzo alle quali compariva, scompariva, riappariva lo zucchetto rosso del Vescovo, veniva fatto di pensare pure a quelle omelie estive pronunciate da don Corecco durante le settimane delle sue vacanze, nella parrocchiale, o nei vari oratori, a Valle, a Madrano, a Nante, a Fontana: dette sempre con voce sommessa e dimessa, nel tono discorsivo di chi cerchi le parole che non sempre vengono immediate, intorno a un ben preciso e originale nocciolo di pensiero; che forse dire omelie era dire troppo solenne, e più che prediche, erano meditative parlate, umane e profonde, spiritualissime. Si sentiva l’uomo che non voleva essere nel senso classico “orator”, ma piuttosto un parlatore, nel senso però più alto e più degno; nel senso di chi voglia trasmettere, con parole apparentemente quotidiane, una parola più grande, anzi “la Parola”.