Prolusione per il conferimento della laurea << honoris causa>>
Università Cattolica di Lublino, 23 maggio 1994
Magnifico Rettore, Eminenza Reverendissima, Eccellenze, Spettabilissimo Decano, Onorevole Presidente del Consiglio d! Stato del Cantone Ticino, Illustri componenti del Senato Accademico, Signore e Signori,
accedo oggi all’alto onore del quale avete voluto insignirmi, conferendomi la laurea «honoris causa», con un sentimento di trepidazione e intensa commozione.
Il prestigio di questa Alma Università Cattolica di Lublino, acquisito in uno spazio di tempo breve, rispetto alla vetustà di altre sedi universitarie, ma certo non meno ricco di significato, di storia, di eventi – talora tragici – alimenta in me un sentimento di gratitudine che trascende il significato stesso del titolo – peraltro ambitissimo – che mi viene conferito.
Sento infatti di appartenere, «honoris causa», ad un Corpo Accademico che ha interpretato in modo mirabile l’invito che risuonava nelle parole di Sua Santità Giovanni Paolo II ai membri del Pontificio Consiglio della Cultura nel 1983: quello di aiutare la Chiesa «a divenire creatrice di cultura nei suoi rapporti con il mondo moderno; aiutarla nella missione di evangelizzazione delle generazioni presenti, per far sì che sappiano comprendere le nuove culture ed alimentarle alla ricerca del più profondo senso della vita dell’Uomo, che nasce dalla sua deri-vazione da Cristo».
E se è vero – sono ancora parole del Papa, questa volta rivolte ai professori nell’Università Jagellonica di Cracovia – che «esiste una sovranità fondamentale della società che si manifesta nella cultura della Nazione», ebbene, un grande contributo alla formazione di questa sovranità è stato offerto dall’Università Cattolica di Lublino; non solo attraverso l’attività di magistero e di ricerca dei suoi illustri docenti, ma anche nella loro opera di formazione spirituale, religiosa e culturale di intere generazioni di studenti, molti dei quali sono diventati protagonisti della recente rinascita della vostra nobilissima Nazione alla libertà e alla democrazia.
Ma non è solo al contesto della storia contemporanea, in cui questa Università è sorta per illuminata decisione dell’episcopato polacco, presieduto allora dal Nunzio apostolico Mons. Achille Ratti, che dobbiamo guardare. Anche il passato ci offre validissimi spunti per valutare l’importanza della celebrazione odierna.
Questa prestigiosa Università affonda le sue radici nell‘«humus» culturale della città in cui è sorta. In effetti Lublino vanta una grande tradizione giuridica e politica, per essere stata anticamente sede del Tribunale della Corona e, occasionalmente, anche della Dieta del Regno. Una Dieta, quella polacca, che ha avuto il merito di essere stata il primo parlamento europeo a varare, già nel XVIII secolo, una costituzione repubblicana. In effetti la celebre Costituzione polacca del 3 maggio 1791 ha anticipato di quattro mesi la Costituzione francese, ponendosi, nel solco di quella americana del 1787, come primo grande monumento del costituzionalismo repubblicano europeo. Le Facoltà di Diritto e di Diritto canonico sono rifiorite su questo«humus», ridando splendore a una tradizione giuridica nazionale di grande rispetto, proprio in questo nostro secolo, che ha scritto alcune tra le pagine peggiori della storia delle prevaricazioni del potere statale e dell’arbitrio giuridico.
Mi sento, dunque, profondamente onorato anche dalla dignità morale di questa Università, che all’inizio della seconda guerra mondiale è stata un luogo di martirio, consumatosi con l’arresto di tutto il corpo accademico e con la tragedia di numerosi professori, tra cui il Vicerettore, passati per le armi.
L’Europa di quell’epoca, travolta dai totalitarismi, ha visto il potere accademico, orgoglio dell’illuminismo, piegarsi in modo vergognoso di fronte alla prepotenza del potere politico. Una Università bagnata dal sangue dei martiri vanta perciò un titolo in più per elargire riconoscimenti scientifici, proprio perché scienza e morale non possono mai essere disgiunte. Da ultimo, mi sia permesso confessarvi di essere particolarmente toccato di ricevere il dottorato «honoris causa»,da questa Università, che nel novero dei suoi professori più illustri ed ascoltati vanta Karol Wojtyla, che, tentando una sintesi tra l’ontologia di Tommaso d’Aquino e la fenomenologia di Max Scheer, ha inserito questa Università Cattolica nel dibattito culturale europeo.
Con questi sentimenti – ed altri, più intensi, che percorrono oggi il mio animo e che mi trattengo dal manifestarvi per quel pudore che deve sempre lasciare nell’ombratilità le più profonde emozioni – raccolgo oggi il premio che avete voluto conferirmi e nel quale mi compiaccio di vedere, non solo un gesto di stima per la mia persona e la mia attività scientifica In esso vedo anche e soprattutto il fenomeno del prestigio scientifico riconquistato dagli studi di diritto canonico in seno al mondo accademico, per opera di tanti miei illustri Colleghi, molti dei quali oggi presenti e membri di questa Università, dopo la bufera dell’antigiuridismo che ha investito la Chiesa del post-Concilio.
È questa la ragione che mi ha indotto a scegliere per la riflessione odierna, un tema in cui converge, in ultima analisi tutto il travaglio in cui si è dibattuta la coscienza ecclesiale sia a livello scientifico, sia a quello dell’opinione dei fedeli, in questi ultimi trent’anni: «II valore della norma canonica in rapporto alla salvezza».
In effetti, fin dall’antichità, la coscienza dei popoli, come quella degli uomini di pensiero, è sempre stata confrontata con il problema del valore vincolante delle norme giuridiche poste a guida e a tutela dell’ordine sociale.
La domanda alla quale la filosofìa e la teologia hanno dovuto e devono rispondere è, perciò, sempre stata la seguente:esiste un nesso di dipendenza ontologica tra le norme umane contingenti e mutevoli, ed una eventuale forma superiore di diritto, naturale oppure divino, che, pur trascendendole le giustifica, conferendo loro una forza vincolante per l’esperienza sociale umana o ecclesiale?
Il problema si è posto già agli albori della cultura occidentale. Nell’Antigone di Sofocle, infatti, .l’eroina accetta la morte piuttosto che disobbedire alle «leggi non scritte», superiori e divine, eterne e immutabili. In questa visione ancora poetica emerge, comunque, la coscienza del popolo greco dell’esistenza di un «diritto naturale», quale fondamento assoluto delle leggi umane positive.
Era dunque inevitabile che questa esperienza umana paradossale stimolasse, per la sua eterogeneità, la riflessione, sia filosofica che teologica, a interrogarsi non solo sull’origine e la natura, ma anche sull’unità intrinseca del fenomeno giuridico e, di conseguenza, sulla forza vincolante delle sue norme positive. Le risposte in ambito cristiano sono state diverse. Limitandoci a quelle che si riferiscono alla norma canonica, e dovendo prescindere per motivi di tempo dal problema delle norme civili e statuali, dobbiamo constatare che la specificità delle diverse risposte date dalla teologia ortodossa, protestante e cattolica, alla questione della natura del Diritto canonico e della sua forza vincolante può essere colta solo tenendo conto delle opinioni culturali di fondo in cui esse si iscrivono storicamente. Due sono stati gli sbocchi ricorrenti, pur nella varietà delle forme e dei contenuti, del tentativo dell’uomo di eludere, come afferma Hans Urs von Balthasar, «il circolo diabolico delle apparenze cosmiche», senza indugiarvi «come il serpente che si morde la coda».
La prima via è quella orientale che, di fronte all’assolutezza dell’essere, accetta l’assoluta relatività della realtà e della storia e tenta perciò un’uscita dalla contingenza della storia verso l’alto, per ritornare all’originaria purezza del «divino». Questa elevazione filosofica, perpendicolare alla direzione orizzontale della storia, permette platonicamente di superare le contraddizioni terrene, ma disattende ultimamente il destino dell’uomo di appropriarsi il mondo), vivendo un’escatologia senza storia. La seconda via, quella occidentale, fa leva invece sulla volontà dell’uomo di cogliere nel concreto della propria storia il destino ultimo di sé e della realtà. Essa tende a identificare Dio con la storia, intesa come progetto messo in atto dall’uomo, all’interno del quale esso vive un’esistenza priva di escatologia.
Questo tentativo, iniziato con il messianismo giudaico, è stato ripreso in Occidente da Marx, il quale, radicalizzando l’idea del progresso, ha dato corpo alla forma più consapevole e scaltrita del mito prometeico.
Il cristianesimo preclude, con il principio della «incarnazione», qualsiasi possibilità di fuga dal mondo verso l’alto e verso I’avanti. Il cristiano è chiamato ad assumere il mandato mondano, senza soggiacere alla tentazione di procurarsi la salvezza con la propria forza, ma inserendosi nel piano di salvezza del Dio incarnato.
Ciò non esclude che, all’interno della stessa tradizione cristiana l’approccio teologico e, di conseguenza, anche quello riguardante la valenza assiologica da attribuire ai sistemi normativi canonici, in vigore nelle diverse tradizioni ecclesiali, abbia subito fino ad oggi l’influsso delle posizioni fìlosofiche fondamentali emerse nel pensiero occidentale. Non certo per identifacarvisi, perché il fatto teologico rimane trascendente ad esse ma per trovare in essi lo strumento razionale per interpretare il tatto teologico stesso. Nell’orizzonte di queste prospettive culturali deve essere collocata anche la soluzione del problema centrale del fenomeno giuridico canonico: quello dell’unità esistente tra il diritto divino e quello umano.
La tirannia del tempo mi permette di fare alcune considerazioni solo a proposito della risposta che la teologia cattolica ha dato al problema dell’unità del proprio Diritto e, di conseguenza, anche al problema del valore della norma disciplinare canonica in rapporto alla salvezza.
Essa deve essere cercata, collocandola, come ha fatto Lutero, ali interno della tematica più ampia della giustificazione. Ma, mentre Lutero ha creduto di dovere constatare un’antinomia tra la «Legge» e il «Vangelo», e perciò tra la salvezza proveniente dal Vangelo, cioè da Cristo, e le opere richieste dalla Legge la teologia cattolica è riuscita a stabilire un’unità tra ilVangelo e la Legge e tra la Grazia e le opere, avvalendosi di una più coerente valutazione del mistero e dell’incarnazione.
Per la teologia cattolica, le opere prescritte dalla Legge compiute con l’aiuto della Grazia, non sono solo una conseguenza necessaria dlla fede, come riteneva Lutero, ma sono necessarie come condizione «a posteriori», affinchè la salvezza data da Cristo non si ritorca in dannazione per l’uomo. Benché la salvezza sia data da Cristo e non dalla Legge e dalle sue opere, che non sono la causa efficiente della salvezza, esse tuttavia non sono solo la conseguenza, bensì la condizione necessaria «a posteriori» per salvarsi.
La Grazia, inoltre, non è una semplice presenza personale esterna di Cristo, come nella concezione protestante, ne si identifica con Dio, come nella «theosis» ortodossa, ma è una realtà soprannaturale creata, infusa nell’uomo come qualità inerente della sua natura. In questa concezione teologica cattolica della Grazia creata si realizza con tutte le sue conseguenze il principio della «incarnazione». In effetti la Grazia increata penetra nella natura dell’uomo come Grazia creata, sanando l’uomo ontologicamente, così da renderlo capace di collaborare con Dio, per la propria salvezza, attraverso le opere della Legge. Ne consegue che anche il Diritto canonico diventa essenziale all’esperienza cristiana, ne più ne meno del dogma. In effetti il dogma e il diritto ecclesiale non sono due realtà ete-rogenee. Non sono retti tra di loro da un semplice rapporto estrinseco di «reciproca funzionalità», come invece afferma Evdokimov per l’ortodossia. L’esperienza cristiana infatti non è assolutamente riducibile a esperienza solo dottrinale. Anche il «corpus» delle leggi ecclesiali porta con sé, intrinsecamente, una propria verità rivelata, poiché è espressione della Tradizione della Chiesa.
Il Diritto canonico non è una sovrastruttura sociologica della Chiesa. Non è un fatto puramente additivo, senza nessuna consistenza soteriologica propria, bensì un fenomeno sociale con una autonomia epistemologica e logica propria. In esso si manifesta e può essere conosciuta la Chiesa, nella forza vincolante della sua realtà totale. La pretesa della Chiesa latina di voler stabilire con assoluta precisione una corrispondenza estre-mamente articolata tra la propria coscienza dogmatica e l’ordinamento giuridico, deriva perciò dal suo modo specifico di intendere il dogma stesso. Una concezione diversa, sia dalla tra-dizione ortodossa che da quella protestante.
La teologia cattolica è arrivata a stabilire un’identità totale tra la verità dogmatica e la verità giuridica, come dimostra il dogma del primato di giurisdizione papale, in cui la formulazione giuridica e la verità dogmatica sono coessenziali. La norma canonica, come il dogma, gode di una valenza soteriologica intrinseca.
Mentre l’essenza della legge statuale, ma anche del Vecchio testamento, sta nel suo carattere imperativo, derivante dalla volontà estrinseca del legislatore, sia assoluto che democratico,l’ essenza del Vangelo e della Grazia e, perciò, del Diritto canonico, sta invecein una partecipazione intrinseca di Dio nel cuore dell uomo così come aveva intuito Tommaso d’Aquino nella la-IIae quando ha affermato che la «nova lex evangelii…est ipsa gratia (seu tpsa praesentia) Spiritus Sancii, quae datur Christi fidelibus» (q. 106, art. 1).
Con l’Incarnazione, Cristo ha conferito alla Parola di Dio e ai segni simbolici, cioè ai Sacramenti, attraverso i quali Dio si rivela all’uomo, un valore definitivo per l’esistenza umana. La parola e il Sacramento, attraverso i quali Dio si manifesta e comunica la Grazia, interpellano l’uomo nel più intimo della sua persona ed esigono una risposta. La giuridicità dell’ordinamento della Chiesa deriva, perciò, dalla intimazione formale inerente alla Parola e al Sacramento, che generano la Grazia nel cuore dell uomo.
Poiché non esiste realtà più fortemente vincolante e imperativa del fatto che Dio si sia manifestato definitivamente, attraverso l’Incarnazione del Figlio, ne consegue che il diritto della Chiesa ha una forza vincolante più profonda rispetto al diritto secolare, poiché radicata non solo nel «ius divinum naturale» ma addirittura nel <<ius divinum positivum» inerente alla Parola e al Sacramento.
In forza del principio «incarnazione», nasce un rapporto ontologico di derivazione dello «ius humanum» dallo «ius divinum positivum>> per cui il diritto della Chiesa, a differenza di quello secolare, derivante dallo «ius divinum naturale» non ha la pretesa di esigere un’obbedienza a livello etico solo intramondano anche a livello del destino ultimo e soprannaturale dell’uomo.
Ne consegue che la sostanza teologica del Diritto canonico è anche giuridica, così come la sua sostanza giuridica è anche teologica, senza possibilità di dicotomia. Ciò significa che la dimensione teologica non si contrappone tanto alla dimensione giuridica in quanto tale, quanto ad una giuridicità che pretendesse di avere origini unicamente alla volontà di un legislatore umano o, nella migliore delle ipotesi, nella venta immanente alla ragione umana in quanto tale.
Ciò spiega perché Francisco Suàrez abbia potuto affermare che l’ordinamento canonico della Chiesa cattolica vincola i fedeli non solo nei loro atti esteriori, ma anchein quelli inferiori II CIClatino (can. 209, § 1), come pure quello orientale (can 12 § 1), non esitano, infatti, a domandare a tutti i fedeli, con valore di intimazione formale, non solo etica, ma anche giuridica, il compimento di atti interiori, vale a dire di rimanere sempre in comunione con la Chiesa. E la comunione con la Chiesa, prima di essere un atteggiamento esteriore, e un atteggiamento interiore.
Che questa ingiunzione di comportamento interiore abbia carattere rigorosamente giuridico è dimostrato dalla proibizione fatta ai fedeli dai due Codici, latino (can. 916) e orientale (can 711) di accedere alla comunione eucaristica quando fossero consapevoli di essere in peccato grave. Il peccato, infatti lede sempre anche la «communio ecdesialis».
Proprio questo esempio, che evidenzia il nesso giuridico esistente tra la vita interiore del fedele e la comunione eucaristica svela in modo estremamente preciso il valore intrinseco della norma canonica in rapporto alla salvezza. Non e pura coincidenza, se l’ultimo e conclusivo canone del CiC latino
(1752), afferma che la «salus animarum… suprema semper lex esse debet>>.
Tutti sappiamo che, in vista della salvezza, la norma positiva può sempre essere superata facendo ricorso alla «epzkeia» alla dispensa o ad altri istituti, in cui si manifesta l’elasticità dell’ordinamento canonico.
Ma proprio questa possibilità di ricorso ali «epikeia» o alla dispensa dimostrano che, in linea di principio, l’ordinamento canonico considera la singola norma disciplinare come vincolante per la salvezza e ciò in forza del principio della «incarnazione», che sul modello di Cristo si applica, secondo modalità diverse, a tutti gli elementi dell’esperienza ecclesiale:dalla «gratia creata», in cui la «gratia increata» si «incarna» nell’uomo, fino alla norma canonica, in cui la verità dogmatica assume forma e forza disciplinare.