- I. Premessa
- II. Chiesa universale – Chiesa particolare
- III. Diritto universale e particolare
- IV. Considerazioni sul CIC e sulle Conferenze dei vescovi
- V. Conclusioni
La valutazione del rapporto tra diritto universale e particolare, risultante dal CIC, può avvenire sulla base di criteri diversi [1]. Un primo potrebbe essere quello di allestire l’elenco dei rin- vii fatti dal CIC in favore del diritto particolare [2].
Un secondo criterio potrebbe essere quello di valutare, all’interno dell’ordinamento canonico globale, lo spessore e l’importanza ecclesiologica e disciplinare dei settori legislativi concessi dal Codice al diritto particolare.
Un terzo possibile approccio è quello di collocare l’indagine sul rapporto tra diritto universale e particolare, nel quadro dottrinale più ampio del rapporto esistente tra Chiesa universale e particolare.
Sono convinto che solo questo approccio ecclesiologico è in grado di offrire una valutazione che superi l’orizzonte limitato dei due precedenti.
Evidentemente, in tutti e tre i casi, potrebbe essere interessante completare l’indagine con un confronto del CIC attuale con quello del 1917 e con il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali del 1990. Ma le circostanze di questa esposizione e il margine di tempo mi inducono a limitare questo intervento al terzo criterio di indagine.
Procedendo in tal senso, un dato preliminare è la prevalenza indiscussa del diritto universale su quello particolare; risultato inevitabile della prevalenza nella ecclesiologia latina, oltre che nella prassi ecclesiale dell’ultimo millennio, della Chiesa universale su quella particolare. Una prevalenza che il Concilio Ecumenico Vaticano II non ha eliminato, anche se l’ha attenuata, grazie ad alcuni testi in cui ha ricuperato pienamente, almeno in linea di massima, il valore teologico della Chiesa particolare.
In effetti, l’impianto della Lumen gentium rimane globalmente dettato dalla ecclesiologia latina della Chiesa universale.
E inevitabile, perciò, porre la domanda se questo dato abbia radici e giustificazioni di natura solo storica, oppure, e in quale misura, sia legittimamente sostenuto da chiare e imprescindibili premesse dottrinali.
Il nocciolo della questione per valutare in termini non meramente qualitativi o quantitativi, ma ecclesiologici, il rapporto tra diritto universale e diritto particolare, così come è stato stabilito dall’ordinamento canonico codificato dieci anni or sono, non è, perciò, di natura primariamente giuridica, bensì ecclesiologica.
Il punto nodale della questione, se, da una parte, è quello di valutare, nel Vaticano II, la forza ecclesiologica dei testi concernenti la Chiesa particolare, in rapporto a tutto l’orientamento universalistico del Concilio stesso, dall’altra, è quello dell’interpretazione che di questi testi hanno dato sia la dottrina teologica, sia il magistero successivi.
II. Chiesa universale – Chiesa particolare
Il «locus theologicus» più esauriente per comprendere il mistero del rapporto tra Chiesa universale e Chiesa particolare è il testo della LG 23, 1, in cui il Concilio Vaticano II ha utilizzato la formula «in quibus et ex quibus» [3].
Gli altri testi paralleli, come quello del n. 26, 1 della LG stessa e il n. 6, 3 del Decreto CD, mettono in evidenza solo 1’«in quibus», senza peraltro negare ì’«ex quibus».
I risvolti di questa formula sono molteplici, dal momento che essa significa, prima di tutto, che la Chiesa universale non esiste in se stessa, quasi possedesse una consistenza e un luogo di inveramento propri, ma esiste e si concreta solo laddove essa si realizza in una Chiesa particolare. Essa esiste solo in modo concomitante ad una Chiesa particolare.
Roma non è la sede della Chiesa universale, ma solo di un organo della stessa, cioè del ministero petrino. La diocesi di Roma, cioè 1’«Ecclesia romana», non ha uno statuto paragonabile al Distretto di Washington nella Confederazione degli Stati Uniti d’America.
In secondo luogo, la formula «in quibus et ex quibus» significa che la Chiesa universale è formata da tutte le Chiese particolari, per cui non è una realtà astratta, ma storicamente concreta, che coincide di fatto con tutte le Chiese particolari. E un «corpus Ecclesiarum» (LG 23, 2 – nozione non recepita dal CIC), o una «communio Ecclesiarum». La Chiesa universale che si realizza in quelle particolari è quella medesima realtà che si costituisce da tutte le Chiese particolari.
In terzo luogo, la formula ecclesiologica di LG 23, 1, significa che in ogni Chiesa particolare sono ontologicamente presenti tutte le altre Chièse particolari, attraverso la mediazione della Chiesa universale, di cui esse sono gli elementi costitutivi. La Chiesa particolare è Chiesa solo nella misura in cui ripropone in se stessa tutti i valori e tutti gli elementi essenziali e comuni, propri a tutte le altre Chiese particolari, la cui comunione con la Chiesa romana è «piena».
La struttura profonda del mistero della Chiesa è perciò essenzialmente una struttura di immanenza: immanenza reciproca e totale della Chiesa universale nelle e dalle Chiese particolari. Solo quando questa immanenza si avvera in tutta la sua totalità, si realizza anche la nota della «communio piena», prerogativa della Chiesa cattolica romana, dal momento che in essa, per definizione, «sussiste» l’unica Chiesa di Cristo in tutta la sua verità strutturale e costituzionale e, in particolare, secondo l’immanenza perfetta che in essa si realizza tra la dimensione universale e quella particolare.
Il principio dell’immanenza reciproca, e perciò di inseparabilità, degli elementi costitutivi, della struttura costituzionale della Chiesa, così come emerge in modo paradigmatico nell’immanenza dell’universale nel particolare e del particolare nell’universale, forma l’essenza stessa della nozione di «communio» [4]. Si tratta di un principio che, pur assumendo molti significati, spirituali, è prima di tutto un principio strutturale, riscontrabile a molti altri livelli della realtà ecclesiale, fino a investire la dimensione antropologica del fedele cristiano [5].
Infatti, esiste una immanenza reciproca tra la Parola e il Sacramento, che sono inscindibili e sono solo due manifestazioni formali diverse, attraverso le quali Dio comunica e trasmette all’uomo la salvezza; tra il Papa e il Collegio dei vescovi, poiché l’uno non esiste se non cointendendo l’altro; tra il vescovo e il presbiterio, perché il vescovo non esiste da solo, senza partecipazione del suo ministero a un collegio di presbiteri e questi ultimi non esistono senza il vescovo; immanenza tra il sacerdozio comune e quello ministeriale, perché il sacerdozio comune sussiste in quello ministeriale e quello ministeriale non ha senso, se non in quanto è orientato alla realizzazione di quello comune; tra l’istituzione e il carisma; da ultimo, tra il fedele stesso e la Chiesa e viceversa, poiché la persona battezzata è immanente al Corpo Mistico di Cristo, e il Corpo Mistico, che è la Chiesa, è immanente al fedele. L’identità antropologica nuova del fedele è determinata proprio dal fatto che tutti gli altri fedeli gli appartengono, attraverso l’unico battesimo e l’unica fede, come elemento costitutivo della sua persona di «homo novus».
Al di fuori di questa dinamica di reciproca immanenza, tutte le altre soluzioni del rapporto tra Chiesa universale e particolare, sono ecclesiologicamente fuorvianti, perché elidono il primo o il secondo elemento: 1’«in quibus» o l’«ex quibus».
Ciò avviene ad esempio per la tradizione ortodossa, che tende a concepire la Chiesa universale platonicamente, secondo il principio filosofico degli «universalia ante res», vale a dire come un modello o archetipo trascendente, che in se stesso non esiste concretamente, ma che si realizza solo nelle singole Chiese particolari e in modo sempre uguale. Privilegiando Y«in quibus», l’ortodossia orientale non riesce perciò a concepire l’unità della «communio Ecclesiarum» attorno ad un fatto istituzionale, come il ministero petrino, che è proprio di una specifica Chiesa particolare, quella romana. L’unità è garantita solo dal modello trascendente, comune a tutte le Chiese autocefale.
Altrettanto può dirsi per la tradizione protestante, che privilegia nominalisticamente, secondo il principio «universalia post res», il secondo elemento, cioè l’«ex quibus». Esistono solo le Chiese particolari, non la Chiesa universale. L’unità tra le singole Chiese particolari può realizzarsi, nel segno di una soluzione volontaristica, solo come federazione delle Chiese particolari.
Scorrendo queste differenti prospettazioni del rapporto tra Chiesa universale e particolare ci si accorge che l’ostacolo principale ad una concezione corretta della formula ecclesiologica dell’«in quibus et ex quibus» sta nel fatto di concepire la Chiesa universale e quella particolare come due entità materiali diverse. Così intese, esse, in forza della loro concretezza storica, tendono a rapportarsi con una dinamica di potenziale contrapposizione o concorrenzialità reciproca. In realtà non sono due entità materiali, ma solo due dimensioni formali di un’unica realtà: quella dell’unica Chiesa di Cristo.
Ne consegue che la Chiesa particolare, in quanto dimensione locale o concreta imprescindibile dell’unica Chiesa di Cristo, che si realizza solo laddove la Parola e il Sacramento si inverano concretamente nel tempo e nello spazio, ha una legittimità «costituzionale» altrettanto grande della Chiesa universale.
Quest’ultima (la Chiesa universale) non coincide neppure con il suo organo costituzionale specifico, il collegio dei vescovi con il Papa. Il collegio, infatti, è indissolubilmente radicato nelle Chiese particolari in forza di due elementi; sia perché i vescovi che lo compongono provengono dalle Chiese particolari, che rappresentano, sia perché lo stesso Papa è, a sua volta, vescovo di una Chiesa particolare, cioè la Chiesa di Roma [6].
Se l’unica Chiesa di Cristo ha una duplice dimensione universale e particolare, come ha affermato anche il Sommo Pontefice nella sua omelia a Lugano nel 1984 [7], mi sembra problematico affermare una previetà ontologica, e ancora meno una previetà temporale, della Chiesa universale su quella particolare.
In effetti, per definizione, la Chiesa di Cristo, nella sua dimensione universale, è costituita da tutte le Chiese locali, in cui la Chiesa di Cristo si realizza nella sua dimensione particolare. Senza questo inveramento nella particolarità, la Chiesa universale non è posta in essere.
L’immagine della Chiesa, emersa il giorno della Pentecoste, è comprensibile solo a condizione di tener conto che nelle persone degli undici Apostoli sono già realmente presenti, sia pure secondo un potenziale sviluppo storico, tutte le future Chiese particolari [8]. Un’interpretazione «metropolitana» della Chiesa di Pentecoste sarebbe altrettanto falsa di quella «federativa», proposta da una certa teologia contemporanea, della Chiesa particolare.
Giova notare che anche l’incorporazione sacramentale e giuridica irreversibile di una persona nella Chiesa, in forza del battesimo, non avviene né a livello della Chiesa particolare né a quello della Chiesa universale, bensì nell’unica Chiesa di Cristo [9].
Non a livello della Chiesa particolare, perché questa appartenenza è soggetta a mutamenti in seguito al cambiamento di domicilio, di rito o di confessione; non a livello della Chiesa universale, perché essa non esiste in quanto tale, ma solo come risultanza della aggregazione di tutte le Chiese particolari, in rapporto di comunione piena con la Chiesa di Roma.
La dinamica di immanenza tra l’universalità e la particolarità ha un preciso risvolto anche ecumenico. Infatti, la nota dell’universalità è attribuibile solo alla Chiesa cattolica, perché è l’unica Chiesa che realizza tutti i Sacramenti e l’integralità della Parola, in quanto elementi contemporaneamente costitutivi, però, anche delle singole Chiese particolari. In forza del fatto che l’attributo dell’universalità – predicabile solo dell’unica Chiesa di Cristo – si realizza nella Chiesa cattolica (romana), è possibile affermare che in essa «sussiste» la Chiesa stessa di Cristo (can. 204 § 2).
Le Chiese (particolari) e le Comunità ecclesiali separate, per contro, realizzano l’unica Chiesa di Cristo in misura solo diversamente limitata, perché, o sono carenti sul piano della universalità o su quello della particolarità.
Dalle considerazioni precedenti bisogna concludere che gli elementi materiali essenziali e costitutivi della Chiesa, cioè la Parola e i Sacramenti, sono comuni sia alla dimensione universale che a quella particolare della Chiesa, poiché, in quanto tali, appartengono alla Chiesa stessa di Cristo.
La peculiarità delle Chiese particolari (cattoliche) è, infatti, sintetizzata mirabilmente dalla Lumen gentium al n. 26,1 ove si afferma che «la Chiesa di Cristo è veramente presente nelle legittime comunità locali di fedeli, nelle quali, sebbene piccole, povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Cristo, infatti, in quanto unico Figlio di Dio, è universale e, in quanto uomo, è particolare. Il Verbo si è incarnato nella particolarità di un uomo singolo.
Affinché questo inverarsi locale e particolare della Chiesa di Cristo avvenga, è necessario l’elemento formale della legittimità, cioè del riconoscimento, da parte del Papa o del Collegio episcopale, della esistenza della comunione. Esso non crea la comunione, ma ne constata semplicemente l’esistenza.
Riconoscere l’esistenza della comunione è un fatto formale, non aggiunge nulla ai contenuti del Sacramento e della Parola, celebrato o annunciata dal vescovo in una Chiesa particolare.
Dal profilo materiale, cioè dei contenuti salvifici, il Sacramento celebrato dal vescovo e dal Papa, oppure dal Collegio episcopale concelebrante, sono perfettamente uguali e i contenuti del magistero del vescovo possono essere esattamente uguali a quelli del Papa quando parla «ex cathedra» o del Concilio ecumenico. Ciò che è diverso è la forza vincolante formale del magistero papale e conciliare, perché è l’unico, a differenza di quello episcopale, che può vincolare definitivamente i fedeli.
Lo stesso valore formale è attribuibile alla dimensione particolare della Chiesa. La pluralità culturale presente nelle Chiese particolari non è un fattore sostanziale in ordine al contenuto salvifico, ma solo estrinseco. La Chiesa particolare non si definisce a partire dalla sua capacità di inculturazione in un determinato ambiente storico e sociale, ma si definisce a partire solo dal Sacramento e dalla Parola che essa celebra e annuncia localmente [10].
Le modulazioni culturali diverse, nel celebrare i sacramenti e nel comprendere la fede, pur essendo in grado di aiutare tutta la Chiesa universale a formulare in modo eventualmente più profondo le verità della stessa fede, grazie al fenomeno della ricezione, sono elementi puramente formali, rispetto ai contenuti salvifici proposti dalla Chiesa particolare in un determinato luogo e in un determinato tempo.
Se la Chiesa particolare non è in grado di dare a se stessa la garanzia di vivere in perfetta comunione con l’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa universale, in quanto elemento formale della Chiesa di Cristo, non è in grado di esistere di per se stessa, se non incarnandosi in una molteplicità di Chiese particolari, che le garantiscono la pluralità delle espressioni culturali.
La Chiesa di Cristo non potrebbe mai coincidere con un unico vescovo ed un’unica diocesi, fosse pure quello di Roma, perché verrebbe a mancare l’elemento essenziale della pluralità, che è il presupposto della comunione.
Le considerazioni fin qui esposte introducono un’ulteriore riflessione, che riguarda quella delle quattro note della Chiesa, professate nel Credo niceno-costantinopolitano; esse colgono il mistero della Chiesa a livelli diversi e non sono neppure formulate in modo sistematico ed esaustivo. Infatti, è pensabile attribuire alla Chiesa anche altre note, altrettanto significative.
Dopo il Vaticano II sarebbe, per esempio, legittimo aggiungere nel Simbolo della fede di credere che la Chiesa cattolica, cioè universale, si realizza nelle e dalle Chiese particolari.
Ne consegue, perciò, che la preminenza di valore data alla universalità sulla particolarità, o viceversa, nasce da un equivoco derivante da una infrastruttura di pensiero di natura filosofica, più che teologica, che tende, a seconda dei casi, ad attribuire una priorità all’universale sul particolare, oppure al particolare sull’universale.
Così, la preminenza o la previetà ontologica data all’universalità sulla particolarità suppone l’accettazione del principio, di ascendenza platonica, degli «universalia ante res», che ha fatto, più o meno consapevolmente, da infrastruttura culturale e filosofica alla teologia latina della Chiesa universale.
Per contro, la preminenza ontologica attribuita da una certa ecclesiologia contemporanea alla Chiesa particolare fa capo, come abbiamo visto, al principio nominalista degli «universalia post res», cui si è ispirato anche il protestantesimo.
Il principio filosofico più vicino e connaturale alla comprensione del mistero ecclesiale della immanenza degli elementi costitutivi della Chiesa è quello ilemorfistico degli «universalia in rebus».
L’universale è presente nella cosa; la forma si incarna nella materia. L’analogia con il mistero dell’incarnazione è stata usata peraltro anche dalla Lumen gentium al n. 8, 1, nel tentativo di coniugare l’elemento divino e umano, invisibile e visibile della Chiesa. Essa serve evidentemente anche per capire il rapporto tra la Chiesa universale e quella particolare.
Tuttavia, anche questo principio filosofico tomista, pur aiutando a comprendere come la Chiesa universale si inveri o incarni necessariamente in quella particolare, rivela anch’esso i suoi limiti. Pur aiutando a capire 1’«in quibus», non riesce a dare ragione dell’«ex quibus», perché non riesce ad esprimere il fatto, conoscibile solo per fede, che quella Chiesa stessa universale, che si realizza nelle Chiese particolari, non è una realtà monistica e universale ontologicamente preesistente, come la forma rispetto alla materia, bensì una realtà in se stessa già pluralistica, materialmente costituita da tutte le altre Chiese particolari.
L’«ex quibus» della LG 23,1, d’altra parte, non è il frutto di una concessione sincretistica fatta dal Concilio al nominalismo, poiché la Chiesa universale, dal profilo teologico, non è semplicemente la somma di quelle particolari, né è da esse «composta», come un po’ approssimativamente dice la Mysti- ci Corporis.
Anche l’«ex quibus» esprime una realtà di fede irriducibile a categoria filosofica umana: ha origine nel mistero del progetto divino, in ossequio al quale Cristo non ha scelto un unico Apostolo, bensì un corpo di Apostoli, in cui è già presente, come essenziale, l’elemento della pluralità. L’unicità di Dio è conoscibile, infatti, solo attraverso la pluralità, così come l’universalità della Chiesa può realizzarsi solo attraverso la pluralità delle Chiese particolari.
III. Diritto universale e particolare
Il discorso sul valore formale della dimensione universale e particolare dell’unica Chiesa di Cristo, deve essere tenuto presente ed applicato per impostare correttamente anche il problema del rapporto tra «ius universale» e «tus particulare».
Affrontare questo problema usando le categorie politiche, costituzionali e sociologiche, come quella della centralizzazione e decentralizzazione del potere, sarebbe metodologicamente sbagliato, così come sarebbe inadeguato far ricorso al principio della sussidiarietà, diventato di moda [11]. Queste categorie sono incapaci di definire il rapporto di comunione, vale a dire di immanenza reciproca, sacramentale ed ecclesiologica, sia della Chiesa universale e particolare, sia del Diritto canonico universale e particolare.
La tradizione latina, che ha privilegiato la Chiesa universale, ha condizionato inevitabilmente anche le codificazioni del 1917 e del 1983, potenziando, sia pure in misura diversa, il diritto universale a scapito di quello particolare.
In effetti, l’idea giusnaturalistica della «societas perfecta», che ha dominato l’ecclesiologia post-tridentina, facendo prevalere nella legislazione e nella scienza canonistica il metodo giuridico su quello teologico, ha esteso la sua ombra anche sulla codificazione del 1983, continuando a far prevalere, di fatto, il criterio tipicamente giuridico dell’importanza prevalente del diritto universale su quello particolare. Ciò è vero malgrado il dettato del can. 20, che in linea di principio afferma (come del resto nel CIC del 1917): «lex universalis minime derogai iuri particulan».
In realtà però, prevale di fatto la clausola salvatoria: «nisi aliud in iure expresse caveatur», posta alla fine del can. 20 stesso. Del resto, l’intenzione abrogativa del CIC, nei confronti del diritto particolare, appare chiaramente nel can. 6 § 1 n. 2.
Il diritto universale è prevalente anche nel nuovo Codice, benché la svolta epistemologica, in esso avvenuta, sia evidente. In effetti, mentre nelle «Norme Generali», nel «Diritto Patrimoniale», in quello «Penale» e in quello «Processuale», affiora ancora senza attenuanti il principio epistemologico razionale soggiacente all’impianto sistematico romanistico del vecchio Codice, i libri concernenti il Popolo di Dio, il «munus docendi» e il «munus sanctificandi» sono chiaramente determinati dal principio epistemologico proprio della fede.
Quanto la logica della Chiesa universale abbia ancora prevalso nel CIC, lo si può misurare valutando le conseguenze applicative che avrebbero potuto avere i due testi chiave del Vaticano II.
Nel n. 8a del Decreto Christus Dominus, il Concilio riconosce, con dichiarazione fondamentale, che i vescovi diocesani, in quanto vicari e successori degli Apostoli, per se stessi, cioè come rappresentanti non del Papa, ma di Cristo, in nome del quale agiscono (LG 27,1 e 2), sono titolari di tutto il potere – ordinario, proprio e immediato – necessario all’esercizio del loro ministero pastorale.
Il Papa – ma ciò vale anche per il Collegio episcopale in quanto tale – in forza del suo ufficio, può solo riservare a sé o ad altra autorità alcune cause, in vista dell’utilità della Chiesa o dei fedeli, limitando, entro certi limiti, l’esercizio del potere dei vescovi (LG 27, 1). In questo contesto, la «sacra potestas» è intesa, evidentemente, non come potere di ordine, ma come potere di giurisdizione.
Questo riconoscimento del potere fondamentale proprio ai vescovi nelle loro diocesi, dove è presente Cristo e la sua Chiesa una, santa, cattolica e apostolica (LG 26,1), comprende, come risulta chiaramente anche dal n. 27 della LG stessa, sia la funzione legislativa, che quella giudiziaria e amministrativa.
In particolare, il n. 27,1 della LG sottolinea il potere e il dovere fondamentale dei vescovi di provvedere, attraverso le leggi, al bene dei loro fedeli.
E noto che il Concilio, con la constatazione del n. 8a, in cui si riconosce implicitamente che il potere di giurisdizione ordinario, proprio ed immediato del vescovo, secondo le funzioni legislative, giudiziarie e amministrative, appartiene al vescovo «ex iure divino», ha capovolto la situazione rispetto al Tridentino, per il quale il vescovo era da considerarsi solo «tamquam Seáis Apostolicae delegatus».
Abolendo il vecchio sistema della concessione del potere ai vescovi, il Vaticano II ha introdotto quello della riserva di potere in favore del Papa, segnando un ritorno al regime ecclesiale del primo millennio e stabilendo una chiara presunzione di competenza di potere a favore dei vescovi.
Tuttavia bisogna notare che, mentre il cpv. b) del n. 8 del Decreto CD concede al vescovo una larghissima facoltà di esercizio del potere amministrativo, abilitandolo a dispensare anche dalle leggi della Chiesa universale, il cpv. a) vincola più strettamente il potere legislativo del vescovo [12]. Ciò risulta da due fatti.
Prima di tutto, perché il cpv. a) attribuisce al Papa, senza sottoporlo alla clausola di dichiarazione, un potere di riserva più globale, rispetto a quello relativo alle dispense, regolato invece dal cpv. b) [13].
In secondo luogo, perché il n. 26,2 della LG afferma in modo generale che, nell’esercizio del potere legislativo, il vescovo deve attenersi non solo ai precetti del Signore, ma anche alle leggi della Chiesa. Le leggi della Chiesa, in questo contesto, sono sia quelle universali, sia quelle infrauniversali e sovraparticolari dei concili provinciali e plenari e delle conferenze episcopali.
Mentre la facoltà di dispensa, concessa dal n. 8b, per sua natura, avrebbe potuto essere utilizzata dai vescovi anche immediatamente dopo il Concilio, il principio più generale del n. 8a comprendente in particolare anche il potere legislativo dei vescovi, pur nella sua importanza fondamentale, non poteva avere, per il suo carattere troppo generale, forza di legge. Esigeva di essere concretizzata con una legge di applicazione.
Dal profilo tecnico-giuridico, la riserva al Papa, formulata al n. 8a, avrebbe legislativamente potuto essere concretizzata adottando lo stesso metodo applicato alle dispense e alle competenze delle Conferenze dei vescovi, cioè quello dell’elaborazione di un catalogo.
Il vantaggio di questa soluzione sarebbe stato quello di sotto- lineare con più evidenza il radicamento del potere legislativo dei vescovi nello «ius dwinum» e, di conseguenza, di mettere in risalto lo spessore ecclesiologico anche della Chiesa particolare.
Le difficoltà tecniche nel fissare le competenze legislative riservate al Sommo Pontefice sono evidenti. Questa soluzione, oltre a rompere con tutta la prassi legislativa precedente della Chiesa latina, avrebbe probabilmente reso improponibile anche il progetto, coltivato da decenni, di procedere ad una nuova codificazione.
Tuttavia, è evidente che il peso culturale della lunghissima tradizione della ecclesiologia latina, peraltro operante anche nella codificazione dei canoni del diritto orientale [14], è stato così decisivo da non permettere neppure che si affacciasse l’idea di un catalogo delle competenze legislative del Papa.
Mentre il n. 8a del Decreto CD introduce il sistema della riserva, il CIC offre invece un’immagine complessiva diversa, se non addirittura contraria: quella di una legislazione universale che, invece di riservarsi alcuni settori propri, apre solo alcuni spazi, quasi residuali, alla legislazione particolare; che, in concreto, sono solo una sessantina.
Come vedremo in seguito, a questi casi di legislazione concessa al diritto particolare, non possono propriamente essere assimilati, né la competenza generale dei Concili particolari, né le ottanta competenze attribuite alle Conferenze dei vescovi, di cui peraltro solo la metà circa sono di natura legislativa [15] .
Dal profilo giuridico le competenze attribuite dal CIC alle Conferenze hanno un duplice carattere: da una parte sono una concessione fatta alle Conferenze dal legislatore universale; dall’altra sono una riserva fatta dallo stesso legislatore, ma non a se stesso, bensì in favore delle Conferenze, a scapito dei vescovi diocesani.
Anche la grande autonomia statutaria, attribuita dal diritto universale del CIC agli Istituti di Vita Consacrata, non può essere considerata come una apertura in favore dello «ius particulare» vero e proprio. Si tratta, in effetti, di «ius speciale», il cui fondamento, più che di natura corporativa, è di natura carismatica, ma comunque non derivante immediatamente dalla «sacra potestas» episcopale. Dal profilo formale, infatti, il diritto degli «Istituti di Vita Consacrata» assume la connotazione di una concessione, invece di quella della riserva. Si tratta di un diritto che, per esistere, ha bisogno, fin dal suo nascere, dell’approvazione costitutiva, o del vescovo o della Santa Sede.
Di fronte a queste constatazioni la domanda che sorge spontanea è la seguente: il CIC ha tradito l’istanza fondamentale del Concilio, formulata al n. 8a del Decreto sui vescovi?
La risposta è molto più articolata di quanto le apparenze potrebbero suggerire.
Deve essere formulata, comunque, tenendo conto non tanto di criteri quantitativi o contenutistici, cioè qualitativi, bensì delle valutazioni ecclesiologiche emerse in precedenza sul rapporto Chiesa universale-particolare.
In effetti, se è vero che l’universalità e la particolarità non sono due realtà materialmente diverse, bensì solo due dimensioni formali dell’unica Chiesa di Cristo, alla quale appartengono in quanto tale tutti gli elementi costitutivi in cui si attua la salvezza attraverso la Parola e il Sacramento, ne consegue che anche le norme canoniche, in cui si esplicitano questi contenuti comuni alla Chiesa di Cristo, non appartengono, di per sé, né alla dimensione universale della Chiesa, né a quella particolare.
Si tratta di norme comuni, che hanno nella Chiesa di Cristo, in quanto tale, il loro «locus theologicus».
In realtà, tutte le norme che formulano o esplicitano il diritto divino positivo (e, sia pure in via suppletiva e provvisoria, il diritto divino naturale), non sono norme specifiche della Chiesa universale, né di quella particolare. Sono norme comuni a queste due realtà formali diverse. La Parola e i Sacramenti appartengono, infatti, alla Chiesa di Cristo in quanto tale e, perciò, in modo uguale alla Chiesa universale e a quella particolare.
A queste norme di diritto divino positivo devono essere aggiunte, a mio avviso, anche tutte quelle regole disciplinari che, nel corso dei secoli, sono diventate pacificamente patrimonio comune di tutta la Chiesa in quanto tale. Esse devono essere considerate, in forza della ricezione della Chiesa universale verso quella particolare e da quest’ultima verso la prima, come appartenenti ormai al «munus regendi» ordinario e comune della Chiesa di Cristo. Allo stesso modo che esiste un «munus docendi» comune, esiste anche un «munus regendi» comune.
Esiste, perciò nel CIC, un «corpus» legislativo che appartiene all’unica Chiesa di Cristo in quanto tale. Il fatto che queste norme siano state formulate dalla Santa Sede o dai vescovi diventa, a distanza di tempo e in ultima analisi, irrilevante.
A rigore possono essere considerate pari a norme che potrebbero essere state formulate anche da un Concilio ecumenico, nel quale l’immanenza della Chiesa universale in quella particolare, grazie alla presenza del ministero petrino e di tutti i vescovi in rappresentanza delle loro Chiese particolari, si esprime in modo perfetto.
Nel Concilio, infatti, non opera solo la «potestas episcopalis ordinaria, propria et immediata» del Papa, che può essere fonte anche di diritto particolare, ma anche la «potestas propria ordinaria et immediata» dei singoli e di tutti i vescovi: quella riconosciuta, appunto, ai vescovi dal numero 8a del Decreto CD.
La distinzione fra diritto universale e particolare è applicabile perciò propriamente solo al diritto umano, sia pure con la riserva fatta sopra a proposito delle norme ormai entrate a far parte del patrimonio comune della Chiesa, anche se si deve tener sempre conto del fatto che il diritto umano, per definizione, rimane sempre riformabile.
Il riconoscimento dell’esistenza, comunque non facile da valutare quantitativamente e qualitativamente, di un «corpus» legislativo comune a tutta la Chiesa di Cristo, ridimensiona in modo considerevole, anche nel CIC del 1983, lo scarto ancora evidente, tra il diritto universale e quello particolare.
Questa relativizzazione del problema non intende peraltro nascondere la difficoltà nel distinguere con esattezza e senza incertezze, da una parte, il diritto divino da quello umano e dall’altra, nell’ambito del diritto umano, il diritto diventato ormai patrimonio tradizionalmente comune all’identità di tutte le Chiese particolari.
La Lex Ecclesiae Fundamentalis ha dovuto essere abbandonata proprio perché, più che l’idea di enucleare il «corpus legu- um commune», aveva soggiacente un tentativo di applicare all’ordinamento canonico il concetto e la tecnica giuridica costituzionali, propri del moderno Stato di diritto.
La legislazione umano-positiva universale e quella particolare hanno, perciò, in ultima analisi, funzioni formali, che si equivalgono. Da una parte, quella di garantire l’unità, dall’altra, invece, la pluralità, secondo il principio dell’«in quibus et ex quibus». Giova sottolineare che «formale» non significa qualche cosa di irreale. L’unità, infatti, esiste o non esiste, come dato di fatto concreto. Deve però essere garantita, poiché è l’obiettivo stesso della Salvezza, ma non aggiunge nulla ai contenuti della stessa, rivelati e trasmessi in modo efficace e totale all’uomo, attraverso la Parola e il Sacramento.
L’unità ecclesiale, per definizione, non può essere realizzata se non nella pluralità di espressione. Anche la pluralità non aggiunge nulla ai contenuti della Parola e del Sacramento; è un dato di fatto che esiste o non esiste. Deve comunque essere garantito dalle Chiese particolari, che hanno il compito di assumere, nell’ambito della Salvezza, tutte le molteplici espressioni socio-culturali dell’umanità. L’umanità, infatti, deve essere salvata nella pienezza delle sue espressioni culturali più autentiche.
Il compito del diritto umano universale e di quello particolare è perciò quello di garantire, di volta in volta, nel corso della storia, sia l’unità che la pluralità dell’unica Chiesa di Cristo, realizzando nel modo umanamente migliore il principio ecclesiologico dell’«in quibus» e dell’«ex quibus».
Ciò esige, da una parte, che il Diritto canonico universale umano-positivo deve poter essere applicabile nelle singole Chiese particolari senza forzature, evitando di confondere l’unità con l’uniformità; dall’altra, che il Diritto canonico particolare umano, per uno scorretto processo di inculturazione, non deve risultare eterogeneo al diritto delle altre Chiese particolari, che costituiscono la dimensione universale della Chiesa di Cristo e costituiscono, perciò, anche il diritto universale.
Il punto di riferimento di tutte e due può essere solamente il «corpus» legislativo comune, in cui si manifesta, istituzionalmente, l’unica Chiesa di Cristo.
Questa necessaria omologabilità del diritto umano con il «corpus» del diritto divino e del diritto umano acquisito pacificamente da tutta la Chiesa come patrimonio comune, è stata formulata negativamente dalla tradizione canonistica, in particolare con Graziano e san Tommaso, con l’aforisma «lex humana, legi divinae et naturali contraria, irrita est».
Essa fa emergere il problema fondamentale soggiacente a tutto il processo legislativo universale e particolare e perciò all’ordinamento canonico globale: il problema della natura della legge canonica e del metodo della scienza canonistica.
La semplice «rationabilitas» della legge canonica e il metodo giuridico in quanto tale, non sono in grado di garantire la corrispondenza dell’ordinamento canonico con il mistero della Chiesa.
Una perfetta immanenza reciproca tra il diritto umano universale e quello particolare può essere garantita solo nella misura in cui si rispetta il fatto, con tutte le conseguenze inevitabili di metodo per la scienza canonistica, che la legge canonica non è una «ordinatio rationis», bensì una «ordinatio fidei». Sia il diritto umano universale che quello particolare devono essere formulati a partire da una epistemologia non razionale-filo- sofica, cioè puramente giuridica, ma teologica [16].
Molte smagliature del passato a livello universale e particolare avrebbero potuto essere evitate.
IV. Considerazioni sul CIC e sulle Conferenze dei vescovi
Fatte queste premesse a carattere fondamentale, mi sia permesso fare due considerazioni di ordine particolare. La prima riguarda il sistema codiciale attuale, la seconda le Conferenze episcopali.
1) Il CIC del 1983 è un’opera di transizione. Mentre quello del 1917 lo fu, inevitabilmente, ma solo di fatto, poiché gli era stata attribuita una pretesa di definitività, il nuovo Codice è opera di transizione per due motivi immanenti allo stesso, già fin d’ora riconoscibili [17].
In primo luogo, perché solo i tre libri centrali, il II, il III e il IV, hanno un impianto intrinseco teologico, mentre gli altri sono rimasti legati alla tradizione romanistica razionale. Anzi, l’idea stessa della codificazione rimane in futuro aperta ad altri sviluppi, vista la sua matrice culturale illuminista [18].
In secondo luogo, perché solo il futuro dirà se la Chiesa latina potrà assorbire definitivamente nel suo ambito anche quelle Chiese particolari nuove, che non hanno radici comuni con la tradizione culturale del Patriarcato latino-occidentale.
Già la recente Codificazione dei Canoni delle Chiese di Rito Orientale è, da questo punto di vista, significativo. In realtà, si tratterà di realizzare in futuro, in forma sempre più compiuta, il principio ecclesiologico dell’«in quibus et ex quibus».
La formula, secondo cui le Chiese particolari «nascono nella e a partire dalla Chiesa» («Ecclesiae in et ex Ecclesia») [19], arrischia di sovvertire il principio dell’«in quibus et ex quibus», se il termine «Ecclesia» dovesse essere usato, non come sinonimo di «Ecclesia Christi», bensì di «Ecclesia universalis» [20]. Non può perciò essere usata per la Chiesa universale, ma neppure con riferimento alla Chiesa latina nei confronti delle Chiese particolari che storicamente le appartengono. La Chiesa universale non è la madre delle Chiese particolari.
2) La seconda osservazione concerne le Conferenze dei vescovi.
Non dovrebbero esserci dubbi che le Conferenze episcopali, come del resto i Concili particolari, sono espressione della sinodalità inerente al ministero episcopale [21].
Il ministero episcopale è costituito da due elementi formali diversi, inscindibili tra di loro, poiché anche nel ministero episcopale si realizza il principio della «communio», vale a dire della immanenza reciproca degli elementi che la costituiscono.
Il sacramento dell’ordine, oltre a poter essere esercitato personalmente dal vescovo, esige, per sua natura, di essere esercitato anche sinodalmente, poiché il sacramento in quanto tale è unico. Tutti i vescovi sono investiti con l’unico sacramento.
La sinodalità nasce dal fatto che il sacramento dell’ordine è necessariamente conferito a più persone, poiché la pluralità dei ministeri episcopali è ontologicamente necessaria, in quanto riflesso storico-istituzionale dell’unità e pluralità insita al mistero trinitario.
La sinodalità non si pone come alternativa alla dimensione personale dell’esercizio del sacramento dell’ordine e della «sacra potestas». Essa non restringe l’ambito del ministero episcopale, ma gli conferisce una estensione più vasta, poiché sviluppa la relazione ontologica esistente in ogni vescovo con gli altri vescovi. L’allarga oltre i confini territoriali che determinano l’attività del vescovo quando agisce da solo.
Infatti, come afferma il n. 23,2 della LG, il singolo vescovo, da solo, se non può esercitare atti di giurisdizione sulle altre Chiese né sulla Chiesa universale, è tenuto tuttavia ad avere una sollecitudine verso tutta la Chiesa. Questa sollecitudine si trasforma in esercizio vero e proprio dell’aspetto giurisdizionale della «sacra potestas» quando opera in forme sinodali.
La sinodalità non nasce dalla pluralità delle Chiese particolari, bensì dalla struttura profonda del ministero episcopale in quanto tale, poiché, a mio avviso, l’unica opzione ecclesiologica corretta è quella espressa dal principio «Ecclesia a sacramentis» e non invece in quella «Sacramenta ab Ecclesia».
Se la sinodalità nascesse dalla pluralità delle Chiese [22], la conseguenza logica sarebbe quella di dover negare sia il carattere sinodale del Sinodo dei Vescovi [23], poiché esso rappresenta le Chiese particolari in modo prevalentemente sociologico, sia il carattere sinodale del Presbiterio, poiché esso non rappresenta affatto altre Chiese particolari. E una struttura sinodale, sia pure diversa da quella del Collegio episcopale, interna ad una Chiesa particolare e derivante dalla dimensione sinodale, cioè dell’immanenza reciproca tra il grado dell’episcopato e quello del presbiterato, insita al Sacramento dell’Ordine.
Tuttavia, la «sacra potestas» episcopale, quando è esercitata sinodalmente dai Vescovi nell’ambito delle strutture sinodali particolari (delle Conferenze e dei Concili particolari), non vincola mai il singolo vescovo «ex iure divino». «Ex iure humano» e in forza del principio della comunione, il singolo vescovo può essere vincolato, ma mai in modo definitivo.
Il singolo vescovo può sempre fare appello al Papa. Il suo appello contro una decisione giurisdizionale del Concilio particolare o della Conferenza dei vescovi è di natura completamente diversa dallo «ius remonstrandi» nei confronti del Papa [24], poiché è un vero e proprio diritto di ricorso, anche se non è ancora stato codificato.
È evidente, infatti, che, pur ammettendo l’esistenza di un potere magisteriale, sia pure particolare, provvisorio e subordinato a quello del Papa, delle Conferenze dei vescovi, un singolo vescovo non è mai vincolato in coscienza da questo magistero particolare.
Nell’esercizio del potere di giurisdizione, nelle funzioni legislativa, amministrativa e giudiziaria, i singoli vescovi possono essere vincolati disciplinariamente dal diritto universale, ma anche in questo caso a mio avviso dovrebbe esser loro riconosciuto il diritto di ricorso alla Santa Sede.
Ciò significa che pur essendo le Conferenze episcopali radicate nel diritto divino, cioè nell’elemento formale sinodale inerente al ministero episcopale, la loro forza vincolante, come del resto anche quella dei Concili minori, non è una necessità insita al diritto divino, ma una soluzione giuridica di natura solo positiva umana.
«Ex iure divino» le Conferenze non hanno perciò potestà, né ordinaria né propria [25]. Il diritto positivo può considerarla tale, come avviene per esempio per i parroci, ma si tratta di una soluzione giuridica dettata da criteri di pura funzionalità.
E perciò errato definire le Conferenze dei vescovi, come del resto i metropoliti e i Concili particolari, quali istanze intermedie tra la Chiesa universale e quelle particolari [26].
Non sono istanze intermedie «ex iure divino». Infatti, «non datur medium», cioè non si dà nessuna istanza intermedia tra la dimensione universale e quella particolare della Chiesa di Cristo; tra il Collegio dei vescovi con il Papa e i singoli vescovi, e ciò vale anche per le Chiese orientali.
Si tratta semplicemente di morfologie ecclesiali di natura socio-culturale e perciò storica, profondamente radicate nella tradizione della Chiesa, ma di natura non ontologica, anche se svolgono una funzione aggregativa del cui valore nessuno intende dubitare.
Non esiste ecclesiologicamente un’istanza intermedia, perché, malgrado la terminologia da sempre invalsa, i raggruppamenti delle Chiese particolari, attorno alle Conferenze dei vescovi, non sono Chiese nel vero senso del termine. Ad esse, infatti, non è possibile applicare il principio dell’«in quibus et ex quibus».
Non è applicabile nei confronti della Chiesa universale, perché essa non si costituisce ontologicamente nelle e dalle Chiese provinciali o nei e dai raggruppamenti territoriali delle Conferenze episcopali. Non è applicabile neppure alle Chiese particolari, perché la provincia o i raggruppamenti delle Conferenze episcopali non si realizzano nelle e dalle Chiese particolari.
Fatte queste precisazioni, non si può prescindere dal constatare che a livello delle Conferenze episcopali, alle quali il CIC significativamente non conferisce il carattere di persona morale, bensì solo quello di persona giuridica (can. 449 § 2), si sta oggi ripercorrendo di fatto, su base più apertamente democratica di quella antica dei Concili particolari, lo stesso itinerario che ha guidato lo sviluppo e la prevalenza nella ecclesiologia latina della Chiesa universale su quella particolare, e del diritto universale su quello particolare.
Dilatando questo fenomeno, le Conferenze hanno esteso la propria dimensione territoriale, dal livello nazionale a quello sovranazionale, e quindi l’ambito delle proprie prerogative, facendo sempre più perdere di vista il ruolo e gli spazi fruibili dal diritto particolare.
Infatti, l’unica fonte vera del diritto particolare che, malgrado l’ampliamento avvenuto nel nuovo CIC rispetto a quello del 1917, arrischia di essere erosa è quella della «sacra potestas» dei vescovi.
L’intensificarsi della presenza ed attività delle Conferenze episcopali segna, a mio avviso, un fenomeno che è di mutamento, sia della visione universale che di quella particolare della Chiesa, a favore di una «intermedia» figura federativa della Chiesa. Il diritto prodotto dalle Conferenze episcopali, più che particolare, è infrauniversale e sovraparticolare, e l’immagine che esse offrono della Chiesa è di una collettività confederativa.
Il risultato di questa indagine permette alcune considerazioni. La prima sta nella necessità di relativizzare l’esistenza di quella tensione solitamente ritenuta strutturale, che sarebbe immanente al rapporto tra diritto universale e particolare.
Esiste, infatti, un «corpus» legislativo, per quanto difficile da identificare, comune alla Chiesa di Cristo, cresciuto enormemente nel corso di due millenni, che non dovrebbe essere propriamente classificato, né come universale, né come particolare, perché ha contemporaneamente queste due dimensioni.
Il criterio, infatti, per valutare il rapporto tra diritto universale e particolare non può essere solo quello eminentemente giuridico dei soggetti che, di fatto, hanno prodotto le norme: il Papa o il vescovo. E un criterio giuridico secolare che tende a contrapporre tra di loro i due soggetti di imputazione legislativa. Ne è prova il fatto che un vescovo può benissimo regolare l’oggetto sul quale intende legiferare, enucleandone tutta la sua valenza ecclesiale universale.
Ciò ha permesso a molte norme promulgate dai Concili particolari dei primi secoli di essere recepite dalla Chiesa universale.
Il criterio giuridico, secondo cui il legislatore sarebbe il punto di imputazione esclusivo per decidere dell’universalità o particolarità del diritto, è ecclesiologicamente errato. Infatti, ogni soggetto legislativo è sempre radicato sia nella Chiesa universale che in quella particolare: il Papa in quella particolare, perché è interiore alla stessa; il vescovo in quella universale, perché in forza dell’ordine sacro e della comunione diventa membro del Collegio dei vescovi.
La seconda osservazione è che, dal profilo quantitativo e qualitativo, la sproporzione esistente nel CIC tra le norme del diritto particolare e quelle del diritto universale rimane ancora grande.
In effetti, le norme che aprono uno spazio al diritto particolare sono, salvo errore, solamente 56. Un numero esiguo, se si vuole, benché più grande di quello del CIC del 1917. E significativo il fatto che, né l’indice del Gasparri, né il vocabolàrio del Kostler, offrano un elenco dei rinvìi al diritto particolare contenuti nel CIC del 1917, mentre ha ritenuto di doverlo fare il Prof. Ochoa, di venerata memoria, per il Codice del 1983.
Dal profilo qualitativo i settori legislativi lasciati alla competenza del vescovo possono sembrare di secondaria importanza anche se non privi di interesse locale. Essi concernono la formazione del clero, i parroci, i vicari foranei, la custodia dei libri e degli archivi, i funerali, i beni ecclesiastici, le tasse giudiziarie, ecc. Pochissime norme concernono la Parola di Dio (se non una sulla predicazione e due sulla catechesi) e i Sacramenti (rinvio del battesimo, la custodia e il ministro straordinario dell’eucarestia). E possibile perciò affermare che la preoccupazione di garantire la pluralità è meno evidente nel CIC di quella di salvare l’unità della Chiesa.
Pur restando consapevoli che le implicazioni della teologia della Chiesa universale perdurano tuttora, si deve comprendere che, a causa sia dell’espansione enorme della Chiesa, con il relativo aumento del numero dei vescovi, oltre i confini culturali dell’Occidente, sia del persistere, un po’ovunque, delle tendenze centrifughe, possano, ancora oggi, far prevalere la preoccupazione di garantire l’unità della Chiesa, anche se la vera unità ecclesiale non può ontologicamente prescindere dalla pluralità.
Poiché il perfetto equilibrio tra le due dimensioni della Chiesa potrebbe essere storicamente impossibile da raggiungere, non deve sorprendere il fatto che, in diversi momenti della storia della Chiesa, il diritto particolare prevalga su quello universale o viceversa.
È evidente, del resto, che un ritorno al regime del primo millennio non sarebbe pensabile, proprio perché il modello di rapporto fra Chiesa universale e particolare, realizzato nella Chiesa antica, o del primo millennio, non è un modello assoluto, ma storico, come quello, del resto, del secondo millennio, elaborato dalla ecclesiologia latina della Chiesa universale.
Concludendo, ci si deve augurare che la situazione interna della Chiesa contemporanea diventi meno tormentata, così da permettere in futuro uno sviluppo più proporzionato del diritto particolare. La condizione, tuttavia, per ottenere questo equilibrio, è che il diritto infrauniversale e sovraparticolaré delle Conferenze dei vescovi non diventi l’ostacolo maggiore.
[1] La letteratura sull’argomento è molto scarsa. Cfr., comunque, Aymans-Mörsdorf, Kanonisches Recht. Lehrbuch aufgrund des Codex Iuris Canonici, Bd. I, Paderborn – München – Wien – Zürich 13/1991, 191-192; L.M. De Bernardis, Il diritto canonico territoriale tra il Concilio Vaticano li e la riforma del Codice, in: lus populi Dei. Miscellanea in honorem Raymundi Bidagor, Bd. II, Roma 1972,27-42; F. Campo del Pozo, El Derecho particular de la Iglesia segtin el Código de 1983, «Estudio Agustiniano» (1985), 473- 528; H. Eisenhofer, Die kirchlichen Gesetzgeber. Technik und Form ihrer Gesetzgebung, München 1954, 1-45; G. May, Verschiedene Arten des Partikularrechtes, AfkKR 152 (1983), 31-45; M. Pesendorfer, Partikulares Gesetz und Partikularer Gesetzgeber im System des geltenden lateinischen Kirchenrechts, Wien 1975 (Kirche und Recht 12); W. M. Plöchl, Ueber den Regionalismus im Kirchenrecht. Ein Rückblick auf den alten und ein Ausblick auf den neuen C1C, in: Diritto, persona e vita sociale. Scritti in memoria di Orio Giacchi, I, Milano 1984,692-701; R. Puza, Die Teilkirche und ihr Recht im neuen Codex, ThQ 164 (1984), 34-51; J.-C. Röchet, Le droit particulier a-t-il retrouvésa place? L’exemple de la France, «L’Année Canonique» 27 (1983), 165-169; J. Traserra Cunillera, La legislación particular “contra ius”, «Revista Catalana de Teologia» 12 (1987), 165-194.
[2] Lo strumento più utile è l’Index Verborum ac Locutionum Codicis Iuris Canonici di X. Ochoa, Città del Vaticano 19842, utilizzando le voci: lus particulare, Ius proprium, lus universale, Norma (ae), Servatis normis, Servatis praescriptis, Servatur praescriptum canonis, Servatus (a, um), Servo (are).
[3] Sull’argomento cfr. K. Mörsdorf, Konzil II, LThK, 151 n. 4; e specialmente W. Aymans, Das Synodale Element der Kirchenverfassung, München 1970, 318-366.
[4] Tra le innumerevoli inesattezze incorse e le riduzioni arbitrarie commesse da Èva M. Maier nell’esposizione degli scritti e del pensiero della cosidetta «Scuola di Monaco di Baviera» nel suo articolo: Zum Zusammenhang von “Theologisierung” und Positivismus im kirchlichen Recht. Aktuelle Tendenzen kirchenrechtlicher Lehre und Entscheidungspraxis, OAfKR 38 (1989), 37-51, non posso non precisare che il principio della immanenza degli elementi, anche quando fosse perfetta, non implica in nessun modo una identificazione degli stessi. La nozione stessa di immanenza presuppone per sua natura una distinzione. Per un commento preciso e critico all’articolo della Maier, cfr. L. Mùlles, Theologisierung des Kirchenrechtes?, AfkKR 160/2 (1991), 441-463.
[5] Cfr. E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società: aspetti metodologici della questione, in: I diritti fondamentali del cristiano. Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, Friburgo (Svizzera) 6-11 ottobre 1980, Milano 1981, 1222-1225.
[6] Per una giustificazione non primariamente biblica o storica, bensì ecclesiologica del Primato cfr. A. CAKRASCO RouCO, Le Primat de l’Évêque de Rome. Etude sur la cohérence ecclésiologique et canonique du Primat de juridiction, Fribourg (CH) 1990.
[7] «La Chiesa nella dimensione universale e locale è l’ambiente della nuova dimensione dell’uomo», 12 giugno 1984, in: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Città del Vaticano 1984, VII/I, 1676-1683.
[8] Cfr. invece la Lettera della Congregazione per la dottrina della Fede, del 22 maggio 1992, ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, Città del Vaticano 1992, spec. 8-10. Su questo problema meritano di essere citate le osservazioni pertinenti di A. Cattaneo nell’articolo: Teologia de la lglesia parlicular. Reflexiones a proposito de un libro redente (NR. di José R. Villar, Teologia de la lglesiaparticular, Pamplona 1989), «Scripta Theologica» 23 (1991), 287-309, spec. 304.
[9] Cfr. E. Coeecco, battesimo, in: Digesto, Disdpline Pubblicistiche II/4, Torino 1987, 213-216; Id., Chiesa particolare, in: ibidem IV/4, 3-4.
[10] Cfr. G. Colombo, La teologia della Chiesa locale, in: La Chiesa locale, a cura di A. Tessarolo, Bologna 1970, 17-38.
[11] Sul problema cfr. per esempio, J. Beyer, Principe de subsidiarité ou “juste autonomie’’ dans l’Eglise, NRT 108 (1986), 801-822; F.-X. Kaufmann, The principle of subsidiarity viewed by the sociology of organisations, «The Jurist» 48 (1988), 275-291; J. A. Komonchak, Subsidiarity in the Church: The state of the question, ibidem, 298-349; E, Corecco, Dalla sussidiarietà alla comunione, «Rivista Internazionole di Teologia e Cultura: Communio» 127 (1993), 90-105.
[12] Per una interpretazione della facoltà dei vescovi di dispensare dalle norme universali cfr. J. Herranz, Studi sulla nuova legislazione della Chiesa, Milano 1990, 190- 194.
[13] Cfr. K. Morsdorf, LThK, cit., 158-161.
[14] Sulla codificazione dei canoni delle Chiese orientali in ordine al diritto particolare cfr. I. ZjÌEK, Particular Law in the code of canons of the Eastern Churches, in: The Code of Canons of the Eastern Churches. A Study and Interpretation. Essays in honor of Joseph Cardinal Pareccattil, Alwaye (India) 1992, 39-56.
[15] Cfr. J. Listl, Plenarkonzil und hischofskonferenz, in: Handbuch des katholischen Kirchenrechts, hrsg. von J. Lisd – H. Müller – H. Schmitz, Regensburg 1983, 314-320.
[16] Una posizione più sfumata in merito è quella di W. Aymans, che tuttavia rimane fedele alla formula del Mòrsdorf, secondo cui la canonistica è una «Theologische Disziplin mit juristischer Methode». Cfr. Aymans-Mórsdorf, Kanonisches Recht. Lehrbuch aufgrunddes CIC, I, Paderbom 1991, 142-152. Su questo argomento rimane spesso nella letteratura l’equivoco, secondo cui il principio deW«ordinatio /idei» mortifica la funzione della razionalità umana e, perciò, del metodo giuridico; cfr. per esempio, L. Orsy, Theology and Canon Law. New Horizons for Legislation and Interpretation, Collegeville (USA) 1992, 176-177. Caratterizzato da scarsa disponibilità a capire il pensiero degli altri è il lavoro di dottorato – che tocca evidentemente anche il problema del rapporto tra fede e ragione – di M. Wijlens, Theology and Canon Law. The Theories of Klaus Mòrsdorf and Eugenio Corecco, Lahnam – NY – London 1992, spec. 116-206.
[17] Cfr. H. Schmitz, Tendenzen nachkonziliarer Gesetzgebung, AfkKR 126/2 (1977), 381-419; Id., Der Codex Iuris Canonici von 1983, in: Handbuch des katholischen Kirchenrechts, cit., 33-57.
[18] Cfr. E. Corecco, Aspetti della ricezione del Vaticano II nel Codice di Diritto Canonico, in: Il Vaticano II e la Chiesa, a cura di G. Alberigo e J.P. Jossua, Brescia 1985, 333-397.
[19] Cfr. Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, del 22 maggio 1992, ai Vescovi, cit., 10.
[20] Cfr. la posizione più possibilista di P. Rodríguez, La comunione nella Chiesa, «Studi Cattolici» 7 (1992), 496. Per la comprensione ecclesiologica, valevole anche in questo contesto, è importante l’opera dello stesso autore, tradotta in più lingue, Chiese particolari e prelature personali. Considerazioni teologiche su una nuova istituzione canonica, Milano 1985.
[21] Cfr. E. Corecco, Articolazioni della sinodalità nelle Chiese particolari, in: La synodalité. La participation du gouvernement dans l’Eglise. Actes du VII Congrès International de Droit Canonique, Paris 21-28 septembre 1990 (.Année Canonique, hors série I II) I, 861-868.
[22] Cfr. tra gli altri J.H. Provost, Episcopal Conferences as an Expression of the Communion of Church, in: Episcopal Conferences. Historical, Canonical and Theological Studies, edited by Th. J. Reese, Georgetown, University Press, 1989, 267-289; W. Aymans, ‘Wesenverständnis und Zuständigkeiten der Bischofskonferenz im Codex Iuris Canonici von 1983, AfkKR 152/1 (1983), 46-61; Id., Synodalität – ordentliche oder ausserordentliche Leitungsform in der Kirche, in: Actes du VII Congrès International de Droit Canonique, Paris 1990, cit., 123-67.
[23] Sulla natura del Sinodo dei Vescovi, cfr. lo studio analitico e particolarmente approfondito di G.P. Milano, Il Sinodo dei Vescovi, Milano 1985.
[24] Cfr. E. Labandeira, La “remonstratio’ y la aplicación de las leyes universales en la Iglesia particular, «Ius Canonicum» 24 (1984), 711-740.
[25] Come afferma invece A. Antón, Lo statuto teologico delle Conferenze Episcopali, in: Natura e Futuro delle Conferenze Episcopali, Atti del Colloquio Internazionale di Salamanca (3-8 gennaio 1988), a cura di H. Legrand, J. Manzanares, A. Garcia y Garda, Bologna 1988, 201-235, spec. 220.
[26] Cfr., per esempio, G. Greshake, «Zwischeninstanzen» zwischen Papst und Ortsbischöfen. Notwendige Voraussetzung für die Verwirklichung der Kirche als «Communio Ecclesiarum», in: Die Bischofskonferenzen. Theologischer und juristischer Status, Düsseldorf 1989, 88-115.