- I. Il problema dei doveri-diritti nel CIC del 1917
- II. Elementi di un catalogo nel Vaticano II
- III. Il catalogo nello Schema «De Populo Dei» del 1977 e nella «Lex Ecclesìae Fundamentalis» del 1979
- IV. I criteri di incorporazione dei cataloghi dello SCH 1977 e della LEF 1979 nel CIC
- V. Rapporto tra il CIC e il Vaticano II
- VI. Il fondamento ontologico dei doveri-diritti del CIC
- VII. La struttura della reciprocità dovere-diritto all’interno della comunità ecclesiale
- VIII. La non-fondamentalità dei doveri-diritti del fedele
- IX. La tutela giuridica dei diritti.
I. Il problema dei doveri-diritti nel CIC del 1917
II problema della formalizzazione di un catalogo dei diritti- doveri del fedele nell’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica, in termini analoghi a quello dei cataloghi delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo e dei diritti fondamentali nelle costituzioni statuali moderne, risale solo all’epoca del Vaticano II.
Le ragioni di questo ritardo storico sono molteplici e note, come molteplici e note sono le difficoltà della dottrina nell’individuare con certezza tutte le ascendenze culturali che hanno dato origine e progressivamente fatto evolvere l’idea dei diritti dell’uomo e del loro riconoscimento istituzionale come diritti fondamentali nelle costituzioni democratiche [1].
L’involuzione anti-ecclesiale della cultura illuminista, che legittima, sia pure solo parzialmente, il rigetto cattolico delle libertà moderne consumato dal Sillabo, e l’assenza di preoccupazioni costituzionalistiche esplicite nel legislatore canonico, spiegano perché il CIC del 1917 non si sia posto o comunque non abbia affrontato il problema dei diritti dei fedeli negli stessi termini delle costituzioni statuali, ma lo abbia risolto senza uscire dall’impianto giuridico del diritto civile privato e di quello procedurale, congeniale alle codificazioni europee.
Nato come rampollo ecclesiastico del processo culturale e giuridico laico delle codificazioni del diritto privato moderno, il CIC del 1917 [2], pur contenendo dal profilo materiale molte norme di carattere costituzionale, ha potuto procedere alla formulazione di certi diritti-doveri del fedele senza ricorrere alla tecnica propria al diritto pubblico costituzionale.
Ciò è stato possibile non da ultimo grazie al fatto che anche i codici civili, attraverso i quali si è espressa la società liberale-borghese con la propria tavola di valori proposta a tutti come universalmente valida, hanno assolto, pur non assumendone gli strumenti giuridici, un ruolo costituzionale parallelo o complementare rispetto a quello delle costituzioni vere e proprie [3].
Anzi, più dei codici civili, quello canonico, proprio per l’assenza di una carta costituzionale formale della Chiesa, ha introdotto, specie quando si trattava di regolare la posizione giuridica delle persone fisiche, norme che nella teoria generale del diritto avevano già assunto una inconfondibile valenza costituzionale e che di conseguenza avrebbero potuto essere enunciate in una prospettiva più consona al carattere generale e assoluto del diritto costituzionale, che al carattere soggettivo e personalistico del diritto privato.
L’istanza costituzionalistica, comunque soggiacente al CIC, ha permesso alla canonistica tedesca, più sensibile di quella latina all’influsso della dottrina protestante, il cui problema centrale è stato da sempre quello della posizione costituzionale della Chiesa in seno allo Stato, di affrontare il Libro II del CIC, sulle persone, in termini esplicitamente costituzionali.
La dimensione costituzionalistica immanente al CIC del 1917 spiega perché il legislatore canonico, a differenza di quanto ha fatto il legislatore civile, non si è limitato a formulare norme indirizzate più al giudice che al fedele [4], in vista della possibilità di una tutela giudiziaria dei diritti del fedele – come per es. il principio della giustiziabilità di ogni diritto, stabilito dal can. 1667 (secondo cui «quodlibet ius non solum actione munitur… sed etiam exceptione»), oppure il principio «nulla poena sine lege» del can. 2195 § 1, o quello ben più rigido del «nulla poena sine culpa» dello stesso canone – ma ha enunciato in modo programmatico e con intenti giuspubblicistici il principio del can. 87, secondo cui l’uomo con il battesimo acquista non solo la qualifica teologica di membro della Chiesa, ma anche quella giuridica di soggetto capace di diritti e di doveri.
Accanto a questa capacità giuridica generale del fedele, il CIC del 1917 ha evidentemente riconosciuto l’esistenza di altri diritti specifici del cristiano, che, nel diritto pubblico moderno, sarebbero considerati, aldilà della loro formulazione tecnicogiuridica, inconfondibilmente come diritti costituzionali fonda- mentali. Si tratta di diritti non derivati dall’ordinamento giuridico in quanto tale, ma costitutivi dello stesso, come il diritto al matrimonio del can. 1035, quello della libertà nella scelta dello stato, riconosciuto direttamente solo in funzione dello stato clericale e religioso (can. 214 § 1 e 572 § 1 n. 4), e soprattutto il diritto dei laici di ricevere dal clero i sacramenti (can. 682). Anche se attribuito direttamente ai laici, questo diritto costituisce una norma estensibile a tutti i fedeli. Anzi, per una sua natura prelude «in nuce» all’esistenza di altri diritti-doveri aventi la stessa caratteristica costituzionale, tanto più che nel CIC pia- no-benedettino l’idea dell’esistenza della figura del fedele in quanto soggetto giuridico trascendente i tre stati (quello laicale, clericale e religioso) non è totalmente estranea [5], e non potè- va del resto esserlo, anche se non è possibile attribuirle la stessa funzione portante, rispetto a tutto il vecchio sistema del Codice piano-benedettino, che essa ha invece assunto nel nuovo Codice, dove il fedele ha sostituito la gerarchia nella funzione di protagonista dell’ordinamento canonico [6].
II. Elementi di un catalogo nel Vaticano II
La ripresa del dialogo con la cultura secolare instaurato dalla politica di Leone XIII [7], realizzatasi prevalentemente sul terreno epistemologico del diritto naturale, proprio alla dottrina sociale della Chiesa, e sfociata nella recezione teologica delle istanze di fondo della cultura moderna nel Decreto conciliare sulla «Libertà di coscienza» e nella Gaudium et spes, hanno posto la dottrina canonistica di fronte alla necessità di accettare il confronto con uno dei postulati imprescindibili del sistema costituzionalistico moderno, quello del catalogo dei diritti fondamentali del cittadino.
Già il Vaticano II ha avuto coscienza di questo problema, anche se non l’ha affrontato in modo organico, come invece ha fatto per i diritti dell’uomo, sia pure più succintamente che nelle encicliche sociali [8]. L’elemento ecclesiologico che ha fatto lievitare nei vari testi del Concilio questa urgenza, fino a permettergli di esprimersi con indicazioni dottrinali precise, anche se giuridicamente non sempre elaborate, è stato senza dubbio l’approccio della Chiesa attraverso l’immagine teologica del «Popolo di Dio». Questo approccio si è dichiarato a livello costituzionale nella identificazione del fedele come figura sacramentale-giuridica comune a tutti i tre stati (quello laicale, quello clericale e quello degli Istituti di vita consacrata), in cui si realizza e diversifica concretamente la posizione costituzionale di ogni singolo fedele. Ciò ha postulato inevitabilmente l’enunciazione del principio della fondamentale eguaglianza nella dignità e nell’azione di tutti i membri della Chiesa. Da tempo immemorabile, considerata dalla dottrina come «società* inae- qualis», la Chiesa si rivela invece essere simultaneamente una «societas aequalis et inaequalis».
Malgrado l’uguaglianza fondamentale, la disuguaglianza dei suoi membri ha infatti carattere solo funzionale, ma costituzionale, essendo radicata nel sacramento o nel carisma [9].
Tenendo conto della promozione globale del fedele, che il Concilio ha operato investendolo di una responsabilità irrinunciabile nella edificazione del Regno di Dio, nella Chiesa e nel mondo, sulla base della sua partecipazione ai tre uffici di Cristo (di insegnare, santificare e governare), l’analisi dei singoli documenti conciliari permette di ricavare un catalogo, anche se non esauriente, di diritti-doveri propri a tutti i fedeli. Il fatto che alcune di queste disposizioni siano concretamente enunciate come diritti-doveri appartenenti ai laici in quanto tali, e non a tutti i fedeli, dimostra solo che il Vaticano II non è riuscito fino in fondo a isolare dottrinalmente la figura del fedele dai tre stati di vita ed è caduto in sovrapposizione.
Seguendo l’ordine cronologico dei documenti e prescindendo dai numerosi diritti-doveri naturali dell’uomo, non diretta- mente estesi dal Vaticano II ai membri della Chiesa, possono essere numerate come appartenenti esplicitamente ad un catalogo conciliare dei diritti-doveri del fedele le seguenti fattispecie: 1. Il diritto-dovere di partecipazione attiva alla liturgia (SC 14, 1); 2. Il diritto alla predicazione della parola e alla celebrazione dei sacramenti (LG 37, 1); 3. Il dovere di obbedienza ai pastori (che vale per tutti i fedeli, ad esclusione del papa) (LG 37, 2); 4. Il diritto-dovere di far presente ai pastori le proprie necessità (diritto-dovere che non concerne il papa, se non indirettamente) (LG 37, 1); 5. Il diritto-dovere di esternare pubblicamente la propria opinione anche attraverso eventuali organismi predisposti dall’autorità (LG 37, 1); 6. Il diritto-dovere ad una spiritualità propria (LG 12, 2 e 41); 7. Il dovere-diritto di contribuire alla edificazione del Corpo Mistico (CD 16, 5); 8. Il dovere-diritto dei laici (estensibile a tutti i fedeli) di svolgere un apostolato (AA 3,2 e 25, 1); 9. Il diritto-dovere di seguire il proprio carisma (AA 3, 4); 10. Il diritto-dovere di associazione (attribuito ai laici, ma valido per tutti i fedeli) (AA 19, 4); 11. Il diritto dei laici alla formazione teologica (estensibile a tutti i fedeli) (GS 62, 7); 12. Il diritto alla libertà di ricerca e insegnamento (GS 62, 7) [10].
Si tratta di 12 enunciazioni di principio che possono essere raggruppate attorno a quattro idee di fondo: 1. Il diritto di ricevere dalla Chiesa i mezzi di santificazione; 2. Il dovere-diritto di partecipazione responsabile alla vita della Chiesa (che si articola in fattispecie diverse: partecipazione alla liturgia, all’edificazione del Corpo Mistico, all’apostolato, nella manifestazione privata e pubblica della propria opinione, alla vita associata); 3. Il diritto ad alcune libertà personali (articolate dal Concilio come diritto alla spiritualità, alla formazione teologica, alla libertà di insegnamento, alla realizzazione dei propri carismi); 4. Il dovere di obbedienza ai pastori (potenzialmente suscettibile di assumere fattispecie distinte).
Conformemente agli intendimenti generali del Vaticano II, i settori più nuovi, anche se non segnano una vera e propria soluzione di continuità con la tradizione precedente, sono quello della partecipazione responsabile alla vita della Chiesa, in cui emerge la novità dell’ispirazione ecclesiologica della teologia contemporanea al Concilio stesso, e quello delle libertà personali, in cui è più sensibile l’influsso della cultura laica moderna.
Per scoraggiare qualsiasi giudizio affrettato, soprattutto riguardo al diritto di partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa, basterebbe non dimenticare, per esempio, che già nel CIC del 1917, malgrado il blocco creato dalla riforma protestante, la predicazione dei laici era ammessa, anche se esclusa dalle chiese (can. 1327 § 2 e 1342 § 2). La differenza tra questa ed altre eventuali fattispecie, già contenute nel vecchio codice, e quelle elaborate nei testi conciliari, sta nel fatto che nel CIC esse non erano dottrinalmente giustificate in base al principio della partecipazione di tutti i fedeli ai tre uffici di Cristo e tanto meno giuridicamente qualificate come abilitazioni generali o diritti soggettivi ad eventuale carattere «collettivo». Esse emergevano neH’ordinamento canonico, solo congiuntamente a norme disciplinari dirette pragmatisticamente, secondo la tecnica specifica del diritto civile, più a stabilire ambiti di competenze o interdizioni per le singole persone che a formulare principii universali.
III. Il catalogo nello Schema «De Populo Dei» del 1977 e nella «LEX ECCLESIAE FUNDAMENTALIS» del 1979
Un notevole contributo alla formalizzazione giuridica della fattispecie di molti diritti-doveri del fedele è stato dato dalla canonistica post-conciliare, grazie all’allestimento di alcuni cataloghi modello dei diritti-doveri dei fedeli, che spesso sono andati oltre il perimetro dei contenuti previsti dal Vaticano II [11].
Più che per il loro influsso diretto sui lavori della Commissione di Revisione del CIC, sensibile soprattutto nel catalogo dello Schema del «De Populo Dei» del 1977, queste proposte della dottrina sono state importanti per rivelare i nodi teorici soggiacenti alla questione della struttura di un catalogo generale dei diritti-doveri del fedele nell’ordinamento canonico. In particolare il problema della possibilità di rendere esigibili all’interno della Chiesa i diritti naturali dell’uomo [12] e quello dell’eventuale fondamentalità dei diritti-doveri specifici del fedele nella costituzione della Chiesa [13].
L’analisi dei contenuti e dei presupposti ecclesiologici e canonistici di questi modelli esigerebbe un esame particolare anche se è già stato compiuto da altri [14]. In questa sede può bastare un breve studio dei cataloghi contenuti negli ultimi progetti dello Schema del «De Populo Dei» del 1977 (SCH) e della «Lex Ecclesiae Fundamentalis» del 1979 (LEF).
A dire il vero anche questi progetti sono stati sottoposti ad una minuziosa verifica, in particolare al IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico di Friburgo nel 1980. Ci sembra tuttavia di poter individuare uno spazio che permette di aggiungere qualche considerazione alle molte che sono già state proposte, prima di passare all’esame del catalogo del CIC.
E stato osservato che il catalogo dello SCH del 1977 si caratterizza per essere stato paradossalmente redatto con una preoccupazione più costituzionalistica rispetto al progetto della LEF del 1979. Nello SCH i doveri-diritti del fedele sono stati formulati con una preoccupazione di concretezza che tiene conto del problema della loro giustiziabilità. Nel testo della LEF, invece, più dipendente nei profili linguistici dagli enunciati del Concilio, le fattispecie risultano più astratte nel contenuto e perciò più vaghe nel significato [15].
Potrebbe perciò apparire paradossale anche il fatto che il legislatore invece del catalogo dello SCH del 1977 abbia incorporato nel CIC il catalogo della LEF del 1979.
Se si prescinde dalla definizione del fedele contenuta nel can. 16 dello SCH e passata nel can. 204 del CIC, bisogna costatare che tutte le fattispecie enunciate dalla LEF nei can. 9-24 ricorrono nella loro sostanza materiale anche nel catalogo dello SCH (can. 17-38), ad eccezione: 1. del dovere di tendere alla santità (LEF can. 10); 2. di quello di lavorare per la crescita spirituale della Chiesa (LEF can. 10); 3. del diritto di ricevere un’educazione cristiana (LEF can. 17 § 1) (queste tre disposizioni sono passate nel catalogo dei doveri-diritti dei fedeli, rispettivamente nei can. 210,1 e II fr. e 217); 4. del diritto-dovere dei genitori all’educazione dei figli (LEF can. 17 § 2), che nel CIC è stato collocato nell’elenco dei doveri-diritti specifici dei laici (can. 226 § 2).
Per contro il catalogo dello SCH contiene ben 22 fattispecie di doveri-diritti del fedele non contemplate nella LEF, di cui però solo 4 sono state assunte nel CIC. Evidentemente questa valutazione numerica è variabile a partire dal diverso criterio con il quale possono essere definite le singole fattispecie [16].
Le quattro disposizioni recuperate dallo SCH nel CIC sono le seguenti: 1. Il dovere di mantenersi in comunione con la Chiesa (can. 19 § 1: CIC can. 209 § 1); 2. L’obbligo di diligenza nell’esercizio degli uffici ecclesiastici (can. 19 § 2: CIC can. 209 § 2); 3. Il diritto al segreto epistolare e alla protezione della sfera personale (can. 33) (formulato dal CIC in modo più generale – nel can. 220, II fr.); 4. Il dovere di promuovere la giustizia sociale (can. 38; CIC can. 222 § 2).
Le 18 fattispecie dello SCH non incorporate nel CIC sono invece le seguenti: 1. Il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge di tutti i fedeli, senza distinzione di stirpe, nazione, condizione sociale e sesso (can. 17 § 1), che positivizza giuridicamente l’enunciato conciliare teologicamente più vasto dell’eguaglianza nella dignità e azione di tutti i fedeli, e che nello SCH non era applicato esplicitamente a tutte le norme del CIC, ma limitativamente al catalogo dei diritti-doveri del fedele; 2. Il principio della rinunciabilità di certi diritti-doveri (can. 17 § 2), applicato dallo SCH solo in rapporto ai membri degli Istituti di vita consacrata; 3. Il dovere di impegnarsi per la pace tra i cristiani (can. 20, II fr.); 5. Il dovere di impegnarsi per la pace tra tutti gli uomini (can. 20, II fr.); 6. Il dovere di conservare la fede (can. 21,1 fr.); 7. Il dovere-diritto di acquisire una conoscenza della dottrina cristiana proporzionata al proprio stato (recuperato nel CIC come diritto specifico dei laici, can. 229 § 1) (can. 22 § 2); 9. Il diritto-dovere di partecipare attivamente alla liturgia (can. 26); 10. Il diritto di aderire senza coazione alle associazioni (can. 31 § 2); 11. Il diritto di ricorso contro l’abuso di potere (can. 34); 12. Il diritto di difesa nelle cause giudiziarie ed amministrative (can. 36 § 2); 13. Il diritto di conoscere il nome del denunciante nelle stesse cause (can. 36 § 3); 14. Il diritto di conoscere le motivazioni delle sentenze e dei decreti (can. 36 § 4) (i diritti formulati nei §§ 2-4 del can. 36 potrebbero essere considerati come implicitamente compresi nel can. 22 §1-2 della LEF e nel can. 221 § 1-2 del CIC); 15. Il diritto di rispettare e promuovere i diritti della persona umana (can. 37 §1,1 fr.); 16. Il dovere di difendere la libertà della Chiesa (can. 37 § 1, II fr.); 17. L’obbligo di astenersi da tutte le attività che possono ledere la dignità della persona (can. 37 § 2, II fr.); 18. L’obbligo di astenersi da tutte le attività anche associative che possono ledere la missione della Chiesa (can. 37 § 2, II fr.).
IV. I CRITERI DI INCORPORAZIONE DEI CATALOGHI DELLO SCH 1977 E DELLA LEF 1979 NEL CIC
La commissione per la Revisione del CIC, nei lavori dell’ottobre 1979, ha deciso la soppressione di queste fattispecie argomentando con il fatto che esse erano già contenute nel catalogo della LEF o in altri Schemi preparatori del CIC: quello sui sacramenti, sulle procedure, sui beni patrimoniali e il «De Populei Del» stesso. Sei disposizioni salvate dalla Commissione nella stessa occasione non sono invece arrivate fino al CIC: quelle del can. 17 § 1-2 (principio dell’uguaglianza davanti alla legge e della rinunciabilità ai diritti), quelle del can. 20 sul dovere di favorire la pace tra i cristiani e tra gli uomini e quelle del can. 21 (I-II fr.) sul dovere di conservare e di professare pubblicamente la fede. Come già detto la disposizione di acquisire una dottrina cristiana proporzionata al proprio stato formulata dal can. 22 § 1 è stata incorporata nel catalogo del CIC dei diritti-doveri dei laici.
Per contro alcune disposizioni scartate dalla Commissione sono state in seguito recuperate nel CIC, sia pure con formulazioni diverse: il can. 33 sul segreto epistolare (CIC can. 220, II fr.) e il can. 38 sul dovere di promuovere la giustizia sociale (CIC can. 222 § 2).
E facile constatare che nella decisione di sopprimere le disposizioni dello SCH, la Commissione si sia lasciata guidare non solo dal principio di eliminare i doppioni, rispetto alla LEF, ma anche di sopprimere le fattispecie che potevano essere considerate già implicitamente contenute nella LEF stessa [17].
È possibile verificare questa affermazione facendo diretta- mente il confronto tra le norme dello SCH e quelle del testo finale del CIC, dal momento che il catalogo della LEF del 1977 è stato incorporato nel CIC solo con pochissimi ritocchi.
Quasi tutte le 18 fattispecie eliminate possono infatti essere ricomprese in quelle del CIC: 1. Il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge, in quello più generale e dottrinale della uguaglianza nella dignità e nell’azione (can. 208); 2. Il principio della rinunciabilità dei diritti, in quello della libera scelta dello stato (can. 219); 3. Il dovere di riverenza verso i ministri sacri, in quello di obbedienza ai pastori (can. 212 § 1); 4. Il dovere di mantenere la pace tra i cristiani, in quello di mantenere la comunione con la Chiesa (can. 209 § 1); 5. I doveri-diritti di impegnarsi per la pace tra gli uomini, per la dignità umana e di astenersi da tutte le attività contrarie, in quello di impegnarsi per la giustizia sociale (can. 222 § 2); 6. Il dovere di conservare la fede, in quello di tendere alla santità (can. 210, I fr.); 7. Il dovere di professare pubblicamente la fede, in quello di partecipare al suo apostolato (can. 211); 8. Il dovere-diritto di acquisire una conoscenza della dottrina cristiana proporzionata allo stato, in quello di compiere gli uffici con diligenza (can. 209 § 2); 9. Il dovere-diritto di partecipare attivamente alla liturgia, in quello di ricevere la parola e i sacramenti (can. 213); 10. Il dovere-diritto di difendere la libertà della Chiesa e di astenersi dalle attività contrarie, in quello di annunciare la salvezza a tutti gli uomini (can. 211); 11. Tutti i diritti processuali enunciati nei can. 34-36 (SCH) possono essere considerati impliciti nel can. 221 § 1-2.
Evidentemente se si fosse applicato in modo rigoroso questo criterio l’esito finale sarebbe stato quello di vanificare l’idea stessa di un catalogo o di ridurlo a pochissime norme generali. Applicato nei confronti della LEF ciò poteva a rigore essere plausibile; applicato per contro nei confronti del CIC questo modo di procedere solleva «post-factum» alcuni problemi.
Prima di tutto perché il CIC, anche nell’intenzione della Commissione, aveva il compito di articolare i contenuti della LEF in modo più dettagliato, tenendo conto delle esigenze particolari della Chiesa latina [18].
In secondo luogo perché un simile procedimento presupporrebbe l’attribuzione di una funzione più creativa alla «potestas iudicialis» di quanto il CIC non prevede, essendo il sistema canonico un sistema relativamente chiuso, in cui la giurisprudenza non assume lo stesso ruolo rispetto all’evoluzione della interpretazione della norma di quello assunto in alcuni ordinamenti giuridici statuali (can. 16).
In terzo luogo perché si può constatare che è spesso possibile valutare il rapporto implicito-esplicito in senso inverso rispetto a quanto è stato fatto, come dimostrano alcuni esempi. Infatti il dovere di tendere alla santità potrebbe essere ritenuto implicito rispetto a quello di mantenere e professare pubblicamente la fede, e il dovere di promuovere i diritti della persona umana può essere ritenuto più ampio di quello di lavorare per la pace e per la giustizia sociale.
Da ultimo, sarebbe stato possibile compiere una riduzione numerica delle fattispecie del CIC stesso, applicando lo stesso criterio, sia all’interno del catalogo concernente tutti i fedeli, sia prendendo in esame le disposizioni contenute nel catalogo specifico ai laici, estensibili però a tutti i fedeli (come i can. 225 § 1,1 fr.; 229 § 1-3; 231 § 1-2).
Se si tien conto che alcune norme della LEF come il can. 3 e il can. 81 § 1, cui la Commissione ha fatto riferimento quando ha sfrondato radicalmente nello SCH il catalogo dei doveri-diritti del fedele, sono scomparse assieme alla LEF stessa [19], si può capire perché l’inserimento dei canoni della LEF nel CIC non sia awenuto, anche nel contesto dei doveri-diritti del fedele, senza problemi.
Comunque sia, sembra evidente che il legislatore posto di fronte alla scelta di incorporare nel CIC il catalogo della LEF oppure quello dello SCH si è lasciato pragmatisticamente guidare dall’idea che bisognava ridurre nel limite del possibile il numero delle disposizioni. Ma allora è lecito chiedersi perché non sia stato applicato lo stesso criterio anche nella stesura del catalogo dei doveri-diritti specifici dei laici, dove su 17 fattispecie diverse almeno sei, come si è visto, sono esplicitamente (can. 225 § 1, I fr.) o implicitamente (can. 229 § 1-3; 231 § 1-2) già contenute nel catalogo dei doveri-diritti del fedele o in altre norme del CIC, essendo di per sé estendibili a tutti i fedeli.
Per evitare di ritornare sul problema del rapporto tra il catalogo concernente tutti i fedeli e quello specifico dei laici, si può fare la constatazione che il CIC più che tentare di fissare con rigore dottrinale e giuridico i doveri-diritti esclusivi dei laici, la cui secolarità cambia secondo che essi vivano nel mondo, o in un Istituto religioso o in un Istituto secolare, ha preferito fare una politica promozionale del laicato, utile nel contesto storico attuale, ma contingente dal profilo dottrinale e tecnico-giuridico.
V. Rapporto tra il CIC e il Vaticano II
Un raffronto tra il catalogo del Vaticano II e quello del CIC permette di stabilire che il CIC, pur con le necessarie modificazioni formali o eventuali articolazioni «ad sensum» del loro contenuto, ha recepito tutte le disposizioni enucleate in modo esplicito dal Concilio come doveri-diritti del fedele, ad eccezione di una: quella concernente il diritto dei laici (attribuibile comunque a tutti i fedeli) di esercitare il proprio carisma.
Oltre a queste fattispecie, il CIC ha formalizzato in termini giuridici anche altri elementi dottrinali che possono essere rubricati secondo tre categorie: gli elementi originari propri del tessuto ecclesiologico e spirituale del Concilio; quelli appartenenti da sempre alla coscienza etico-giuridica della Chiesa e quelli recepiti dalla cultura moderna, già attraverso le encicliche sociali. Appartengono alla prima categoria: 1. Il dovere di far crescere interiormente in santità il Corpo Mistico (can. 210, II fr.); 2. Il dovere di obbedienza ai pastori (can. 212 § 1); 3. Il diritto di far presente i propri bisogni ai pastori (can. 212 § 2); 4. Il diritto-dovere di esternare ai pastori e ai fedeli la propria opinione (can. 212 § 3, I e II fr.) – l’indicazione del Concilio (LG 37,1) sulla possibilità di rendere più effettivo l’esercizio di questo diritto di tutti i fedeli con strutture appropriate è stata recepita, a ragion veduta, per i soli laici, nel can. 228 § 2 5. Il diritto di ricevere la parola e i sacramenti (can. 213); 6. Il diritto alla propria spiritualità (can. 214, II fr.); 7. Il diritto d’associazione (can. 215); 8. Il dovere-diritto all’apostolato (can. 216); 9. Il dovere-diritto alla formazione religioso-teologica (can. 217); 10. Il diritto alla libertà di insegnamento (can. 218). Il diritto-dovere di partecipare attivamente alla liturgia non appare nel catalogo codicíale, ma è stato recepito sia pure con formule giuridicamente meno qualificanti, in altre norme del CIC come per esempio nei can. 835 § 4, 937, 840 e 898.
Si potrebbe opinare che il diritto a vivere i propri carismi sia semplicemente già compreso in quello di praticare una propria spiritualità; diritto per altro formulato quasi solo «en passant» e, per di più riduttivamente, solo in connessione con la garanzia del rito, nel can. 214. Ciò non esime comunque dal dover constatare il profondo disagio del CIC di fronte al fenomeno del carisma. Questa constatazione non emerge solo nella discussione avvenuta in seno alla Commissione per la Revisione del CIC a proposito della LEF, nelle sedute del 24-29 settembre del 1979 [20], ma anche nel fatto che il termine «carisma» è stato inesorabilmente stralciato dalle 8 norme (tutte appartenenti al contesto degli «Istituti di vita consacrata») dello SCH del 1982, in cui esso appariva ancora esplicitamente [21].
Questo fenomeno di rigetto è tanto più sorprendente per il fatto che il Vaticano II ha fatto riferimento ai carismi con grande libertà e con grande ricchezza di testi, nei quali non mancano enunciazioni in cui la valenza giuridica dei carismi si profila con estrema chiarezza [22].
Alla seconda categoria, cioè alle disposizioni del CIC, che recepiscono giuridicamente principii o elementi ecclesiologici generali sparsi nei testi conciliari, appartengono: 1. Il dovere di vivere nella comunione ecclesiale (can. 209 § 1), che senza dubbio è uno dei valori centrali dell’ecclesiologia vaticana; 2. Il dovere di tendere alla santità (can. 210), che nel CIC del 1917 era attribuito solo ai religiosi (can. 593); 3. Il dovere di collaborare alla diffusione dell’annuncio cristiano (can. 211; ripetuto per i laici nel can. 225 §1,1 fr.), in cui si enuclea l’orientamento missionario globale dato dal Concilio alla Chiesa; 4. La garanzia del rito (can. 214), che istituzionalizza anche la garanzia del pluralismo dei riti riconosciuta dal Concilio.
In questa serie possono essere rubricate anche quelle fattispecie che tendono a concretizzare istituzionalmente la promozione globale del laicato operata dal Vaticano II, ma che in realtà si rivelano essere doveri-diritti appartenenti a tutti i fedeli, come il diritto di acquisire i gradi accademici (can. 229 § 2) e l’abilitazione fondamentale dei battezzati a ricevere un mandato di insegnamento (can. 229 § 3).
Appartengono alla seconda categoria le disposizioni il cui contenuto ecclesiologico è eticamente scontato, come: 1. Il dovere-diritto all’educazione cristiana (can. 217), presupposto al dovere-diritto di ricevere la parola e i sacramenti; 2. Il dovere di diligenza nell’esercizio degli uffici ecclesiali (can. 209 § 2), sottolineato dal CIC per i laici con il dovere di acquisire una dottrina cristiana proporzionata allo stato (can. 229 § 1) e una formazione specifica ai ministeri (can. 231 § 1); 3. Il dovere di sopperire alle necessità materiali della Chiesa (can. 222 § 1).
Alla terza categoria appartengono quelle disposizioni con le quali il CIC ha istituzionalizzato alcune istanze culturali delle encicliche sociali recepite e sviluppate teologicamente dal Concilio, come quelle sulla dignità della persona umana: 1. Il principio della libertà nella scelta dello stato (can. 219) – peraltro già contenuto nel vecchio CIC 2. La protezione della reputazione e dell’intimità personale (can. 220); 3. I quattro diritti processuali del can. 221 e, da ultimo, il dovere di promuovere la giustizia sociale (can. 222 § 2) e il diritto alla giusta remunerazione (can. 231 § 2).
Concludendo si può affermare che l’ascendenza conciliare, diretta o indiretta, è immanente a tutte queste enunciazioni concernenti i fedeli, siano esse elencate nel catalogo riservato ai fedeli o in quello riservato ai laici. Tuttavia se si dovesse stabilire un confronto più puntuale tra il CIC e il Concilio si deve constatare che soprattutto nel settore in cui l’ecclesiologia vaticana urge irresistibilmente verso concretezze istituzionali, il CIC, a 20 anni di distanza, non ha osato spingere la sua normativa molto oltre i punti goniometrici già scoperti e già segnalati dal Vaticano II, e dallo stesso enucleati in testi giuridicamente quasi perfezionati. Anzi, come abbiamo osservato sopra, il CIC, facendosi scudo del principio secondo cui l’implicito è già contenuto nell’esplicito, ha potuto esimersi dal fare uno sforzo preciso per svolgere e articolare in modo istituzionalmente più dettagliato la potenziale forza espansiva contenuta in molte fattispecie di doveri-diritti del fedele recepite dal Vaticano II.
VI. Il fondamento ontologico dei doveri-diritti del CIC
Un altro criterio di approccio delle disposizioni contenute nel catalogo dei doveri-diritti dei fedeli, rilevante soprattutto in vista della interpretazione delle due clausole generali del can. 223 § 1 concernenti le limitazioni intrinseche ed estrinseche all’esercizio dei doveri-diritti dei fedeli, è l’esame della natura ontologica delle singole fattispecie. In che misura i doveri-diritti del fedele sono postulati dal diritto divino (positivo) e in che misura invece affondano le loro radici nel diritto (divino) naturale? A questo riguardo è possibile raggruppare le disposizioni secondo tre categorie diverse.
Nell’ipotesi che sia possibile fissare a 31 il numero delle disposizioni dei doveri-diritti di tutti i fedeli, contenute nei due cataloghi, e prescindendo nel loro computo sia dal principio generale del can. 208 che dalle due clausole del can. 223, si può constatare che un terzo (11) di esse sono inconfondibilmente connesse con la partecipazione battesimale ai tre uffici di Cristo. Devono essere di conseguenza considerate come enunciazioni derivanti dal diritto divino.
Hanno questo carattere: a) Il dovere di vivere in comunione con la Chiesa (can. 209 § 1); b) Il dovere di tendere alla santità e di far crescere in essa la Chiesa (can. 210,1 e II fr.); c) Il dovere-diritto di collaborare alla diffusione del messaggio evangelico (can. 211), ripetuto nel catalogo dei laici (can. 225 §1,1 fr.) con la specificazione (superflua se si tien conto del can. 215) che ciò può avvenire in modo associato; d) Il dovere-diritto alla parola e ai sacramenti (can. 213); e) Il diritto al rito e alla propria spiritualità (can. 214, I II fr.); f) Il dovere-diritto all’apostolato (can. 216); g) Il dovere-diritto all’educazione cristiana (can. 217).
Per un altro terzo (11) si tratta di doveri-diritti la cui struttura esiste di per sé anche nell’ambito del diritto naturale. Tuttavia per il fatto di essere chiamati a regolare un rapporto non di diritto naturale, ma di natura ecclesiologica, devono essere considerati di diritto divino. Essi sono: a) Il dovere di diligenza nello svolgimento degli uffici ecclesiali (can. 209 § 2) precisato per i laici come dovere di acquisire una dottrina cristiana e una formazione proporzionata allo stato e all’ufficio (can. 229 § 1 e 231 § 1); b) Il dovere di obbedienza all’autorità ecclesiale (can. 212 § 1); D II diritto di manifestare ai pastori le proprie necessità e di esternare ad essi e ai fedeli le proprie opinioni (can. 212 § 2 e 3,1 e II fr.); d) Il diritto di associazione per fini ecclesiali (can. 215); e) Da ultimo si devono annoverare le disposizioni sul diritto di accesso ai gradi accademici (can. 229 § 2) e sull’abilitazione a ricevere un mandato di insegnamento (can. 229 § 3) che, pur essendo positivizzazioni di diritto umano, hanno il loro fondamento nel battesimo.
L’ultimo terzo (9) è rappresentato da fattispecie di diritto naturale vero e proprio, oppure di doveri-diritti appartenenti ai principii generali del diritto. In forza del battesimo essi sono però funzionalizzati alla protezione di valori di diritto divino e non di diritto naturale, per cui subiscono le limitazioni o le estensioni che la priorità immanente ai valori soprannaturali può loro imporre.
Rivelano questa struttura: a) Il diritto alla libertà di ricerca e insegnamento (can. 218), dipendente strutturalmente dalle esigenze della metodologia teologica; b) Il diritto alla libertà nella scelta del proprio stato di vita (can. 219), rafforzato dall’irrevocabilità della vocazione cristiana; c) Il diritto alla protezione della reputazione e dell’intimità personale (can. 220,1 e II fr.), rafforzato dalle esigenze della comunione; d) 14 diritti processuali del can. 221, derivanti, forse più che dal diritto naturale, dalla coscienza giuridica democratica moderna. Si tratta perciò di diritti che non possono essere estesi «ad absurdum», dal momento che il sistema processuale canonico, per l’esigenza dottrinale intrinseca al principio della comunione, riconosce la priorità del principio della certezza materiale su quella formale [23]; e) Il dovere di provvedere alla giustizia sociale (can. 222 §2), rafforzato dalle esigenze della carità soprannaturale; f) II diritto alla giusta remunerazione (231 § 2), in cui il principio della reciprocità proporzionale tra prestazione e controprestazione deve cedere il passo al fatto che l’ufficio ecclesiale ha come presupposto una vocazione ecclesiale.
Sulla base di queste considerazioni devono essere valutate le clausole di riserva poste all’esercizio dei diritti del fedele dal canone 223. Il principio dell’autolimitazione (§ 1) si struttura come proibizione di ogni violazione, eticamente o giuridicamente illegittima, di tre sfere giuridiche protette: quella del bene comune, quella dei diritti acquisiti da terzi e quella dei propri doveri nei confronti di terzi. Esso si conforma perciò come obbligo generale di valutazione dei diritti di ogni soggetto giuridico, fedele o persona morale, in rapporto ai propri doveri. Si tratta evidentemente di un obbligo che acquista un’urgenza particolare in nome della comunione ecclesiale.
La seconda clausola, quella per cui l’autorità competente può «moderare» l’esercizio dei diritti di tutti i fedeli (§2), può sorprendere per essere stata formulata senza le auspicabili precisazioni, anche se si deve riconoscere che la versione definitiva del CIC ha indebolito, rispetto ai progetti precedenti, le capacità espansive dell’enunciato [24]. Infatti la clausola non può apparire come un assegno in bianco nelle mani del superiore. Rischia di compromettere la credibilità dei cataloghi sui doveridiritti del fedele e del laico e di svuotare il contenuto dei singoli dispositivi dei due cataloghi [25].
Il principio del bene comune, non definito da criteri oggettivi di valutazione, resta così vago da prestare adito alle più svariate opinioni. La clausola infatti non determina con quali strumenti legislativi o amministrativi l’autorità è autorizzata ad intervenire [26]. Il problema si porrebbe in termini apparentemente ben più imperativi se questi diritti dei fedeli avessero carattere costituzionale formale, perché sarebbero investiti estrinsecamente da un rango formale superiore a qualsiasi altra norma legislativa o disposizione amministrativa, cui non fosse concesso un potere derogativo dalla costituzione stessa [27].
Trattandosi di una codificazione e non di una costituzione, il problema non si pone in termini formalmente diversi, poiché non si applica il principio della costituzionalità della legge, pur valendo, almeno in linea di principio, quello della legalità dell’attività amministrativa, garantito dal can. 33 § 1.
Tuttavia si deve tener conto del fatto che nel sistema canonico il diritto divino e, subordinatamente, quello naturale godono di una gerarchia materiale, superiore a tutte le altre norme, più forte di quella attribuibile a qualsiasi disposizione per il semplice fatto formale di appartenere ad una costituzione.
Da ciò risulta l’importanza di determinare, con la massima precisione possibile, la struttura ontologica di ogni singolo dovere-diritto dei fedeli, poiché nella loro interpretazione e nella loro tutela giuridica si deve imprescindibilmente tener conto del fatto che, da una parte, la sostanza del diritto divino positivo deve essere sempre salvata; dall’altra, che le specificazioni dello stesso in forza del diritto umano non possono essere abrogate o derogate se non in nome di una migliore interpretazione del diritto divino stesso; da ultimo, che i diritti naturali hanno una valenza provvisoria e interlocutoria, più che sussidiaria, in attesa che sia possibile conoscere con maggior sicurezza eventuali altri contenuti alternativi proposti dal diritto divino [28].
In effetti non si deve dimenticare che i valori tutelati dai doveri-diritti del fedele, radicati direttamente o indirettamente nel diritto divino positivo, non sono valori etici naturali riconducibili ai dieci comandamenti o alle quattro virtù cardinali di estrazione culturale stoica, ma valori correlazionali alle tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, in cui si configura il bene comune della Chiesa [29].
La correlazione tra diritti naturali e valori che essi sono chiamati a proteggere [30] in mancanza di altri strumenti più chiaramente ispirati nel diritto divino positivo, non si esprime solo come eventuale limitazione della loro forza imperativa, ma può anche trasformarsi come urgenza per una loro realizzazione più radicale.
La dignità della persona, redenta dal battesimo, impone perciò una oculatezza legislativa, amministrativa e giudiziaria più grande, espressa da sempre nel principio della «aequitas canonica.» («quod est Deus») [31], di cui oggi si può considerare estrinsecazione ulteriore, ecclesiologicamente più attuale, il principio della «communio». La stessa dignità della persona può però esigere dal fedele anche una capacità di rinuncia alle proprie prerogative naturali in nome dell’obbedienza alla comunione.
Il dovere naturale di lavorare per la giustizia sociale – per fare un secondo esempio – si rivela molto più vincolante se concepito come realizzazione irrinunciabile della «caritas christiana» che, contrariamente a quanto spesso si pensa, non esprime un livello di valore superfluo o non necessario rispetto alla giustizia naturale, ma un valore di rango più alto.
VII. La struttura della reciprocità dovere-diritto all’interno della comunità ecclesiale
Nei titoli posti «in capite» ai quattro cataloghi dei doveridiritti – dei fedeli, dei laici, dei chierici e dei membri degli Istituti di vita consacrata, il CIC ha costantemente privilegiato il concetto di dovere su quello di diritto.
L’analisi quantitativa delle disposizioni del catalogo sui doveri-diritti del fedele, contenute nei due cataloghi, quello dei fedeli e quello dei laici, potrebbe far credere che l’enunciazione programmatica contenuta nel titolo non sia giustificata. In effetti delle 31 fattispecie solo 11 sono formulate esclusivamente o primariamente come doveri, 20 invece (cioè 2/3) sono enunciate come diritti.
Tuttavia, se si prescinde dagli 8 diritti che garantiscono le libertà personali dei fedeli, enucleati nei can. 218, 219, 220 e 221 (libertà di ricerca, libertà di scelta dello stato, protezione della sfera personale, diritti processuali), bisogna constatare che quasi la metà delle altre fattispecie enunciate esplicitamente come diritti risultano essere in realtà solo la dimensione speculare di un dovere. Il dovere generale, emergente dai testi del Concilio, di tutti i fedeli di partecipare responsabilmente alla edificazione della Chiesa, formulato giuridicamente dai can. 211 e 225 § 1,1 fr. come dovere-diritto di lavorare alla diffusione dell’annuncio cristiano nel mondo, può essere considerato come il presupposto diretto o indiretto di una serie di diritti che tendono a garantirne l’attuazione; come il diritto di esternare i propri bisogni ecclesiali e la propria opinione ai pastori e ai fedeli (can. 212); quello di associazione (can. 215); quello di acquisire la dottrina e la formazione corrispondente allo stato e all’ufficio (can. 217; ribadito per laici nel can. 229 § 1) – con il quale si connette ultimamente il diritto ai gradi accademici, l’abilitazione aU’insegnamento delle scienze sacre (can. 229 § 2-3) – e il diritto alla giusta rimunerazione (231 § 1).
Dal dovere di tendere alla santità (can. 210), invece, deriva il diritto alla parola e ai sacramenti (can. 213) e quello di seguire una propria spiritualità (can. 214, II fr.), appaiato forse non felicemente dal CIC alla garanzia del rito, dal momento che quest’ultimo non ha carattere solo personale ma collettivo e può essere attribuito anche alle persone morali, come le Chiese particolari.
Il rapporto di reciprocità esistente tra il dovere e il diritto è diverso quando l’istituto emerge dal diritto naturale e quando invece emerge dal diritto divino.
Nel caso degli 8 diritti già menzionati, di provenienza giusnaturalistica (o appartenenti alla categoria dei principii generali del diritto) e la cui funzione è quella di proteggere l’autonomia personale del fedele, il dovere da essi postulato non investe il titolare stesso del diritto, ma altri fedeli o Pastori. Il diritto impone ai terzi il dovere di non violare la sfera giuridica del suo titolare.
Tutte le altre disposizioni del catalogo dei fedeli hanno il loro fondamento, immediato o meno, nel diritto divino, sia che si configurino primariamente come dovere (can. 209, 210, 212, 222) sia che si configurino primariamente come diritto. Quando assumono la configurazione propria di un diritto, ciò avviene solo in ordine alla attuazione di un dovere. A differenza però di quanto avviene per i diritti di provenienza giusnaturalistica, in cui il titolare del dovere cambia rispetto a quello del diritto, nel caso degli istituti di diritto divino il titolare del diritto non cambia rispetto a quello del dovere.
Mentre i diritti naturali sono strutturati come diritti opponibili direttamente a terzi e all’autorità, i doveri radicati nello «ius divinum» creano una opponibilità solo indiretta nei confronti di terzi e dell’autorità, nella misura in cui enunciano il diritto di ottenere l’attuazione del dovere cui sono correlati.
Si deve perciò concludere che, almeno secondo il CIC, il rapporto giuridico base che regola la posizione del fedele nella Chiesa è quello del dovere e che la opponibilità all’autorità è solo indiretta. Non è il dovere di vivere nella comunione che fonda il diritto dell’autorità a intervenire disciplinarmente o penalmente, poiché il diritto dell’autorità è autonomo. Per contro, è il dovere del fedele di vivere nella Comunione che si declina in diritto opponibile ai pastori di ricevere i sacramenti anche se l’opponibilità non è assoluta.
Questa priorità logica e ontologica del dovere sul diritto, nell’ordinamento canonico, non può essere resa plausibile solo filosoficamente affermando, come è stato fatto da alcuni, che mentre il modello sociale laico dà la priorità al diritto sul dovere, perché è fondato sul diritto naturale, quello ecclesiastico privilegia il dovere, perché fondato su una concezione culturale religioso-sacrale [32]. Una simile argomentazione dimentica che anche una concezione sacrale può essere derivata dal diritto naturale. Dal profilo filosofico la differenza tra il primo e il secondo modello deve essere individuata invece nella differenza esistente tra l’opzione intellettualista o razionalista, cui è legato il diritto naturale moderno, e l’opzione nominalista e volontarista originariamente più religiosa, cui è legato il positivismo giuridico moderno.
Bisogna ammettere che rinclinazione nominalista-volontarista luterana, da cui non è possibile sopprimere l’istanza filoso- fico-religiosa della scuola francescana, ha esercitato un influsso determinante sulla concezione del diritto come dovere, creando una delle molteplici ascendenze culturali del problema dei diritti dell’uomo e di quelli fondamentali [33].
È stato Hegel, infatti, nella scia di Samuel Pufendorf e di Christian Wolff (che aveva affermato: «Si nulla esset obligatio, nec ius allum foret»), a considerare, positivisticamente, come più alto dovere dell’individuo, quello di essere membro dello Stato, titolare del supremo diritto contro i singoli [34].
La soluzione volontaristica, lungi dall’eliminare la conflittualità tra la persona e la collettività – e, nell’eventualità, tra il fedele e l’autorità della Chiesa – la fa esplodere in tutta la sua potenziale violenza. In effetti la lotta per il riconoscimento costituzionale dei diritti fondamentali è sfociata nella sostituzione rivoluzionaria dello Stato assolutistico, fondato sul dovere, con quello democratico, fondato sul diritto.
Il problema non può perciò essere affrontato in termini filosofici ma deve essere risolto in termini teologici ed ecclesiologici. L’opzione ontologica propria al realismo tomista può venire in aiuto per facilitare una posizione epistemologica che parta dalla struttura intrinseca alla natura delle cose, sola a garantire l’equidistanza tra gli estremi, quello idealistico e razionalista di reminiscenza platonica e quello nominalista-volontarista moderno.
La priorità del dovere sul diritto nasce dallo stesso riferimento di tutti i fedeli, e perciò anche dei Pastori, a Cristo che redime e chiama a vivere nella comunione con il Padre [35]. La «communio cum Deo» determina l’esistenza e la natura della «communio cum hominibus». I fedeli devono vivere la comunione tra di loro perché con il battesimo, che li rende partecipi all’unico sacerdozio di Cristo, sia pure con una modalità diversa nell’essenza, sono inseriti ontologicamente nella struttura comunionale trinitaria.
A ragion veduta il CIC ha enunciato come primissimo elemento della posizione etico-giuridica del fedele quella di vivere nella comunione con la Chiesa (can. 209 § 1). Da questo dovere derivano ultimamente tutti gli altri principali doveri-diritti, come il dovere alla santità, il diritto ai sacramenti, il dovere di obbedienza, il dovere-diritto alla missionarietà, il diritto all’apostolato.
Il dovere di mantenere la comunione, che non postula per i fedeli e i pastori solo un’adesione interiore, ma anche esteriore («sua quoque ipsorum ratione agendi»), elimina strutturalmente la competitività tra il fedele e l’autorità; competitività ineliminabile nel rapporto persona-Stato, malgrado tutte le misure protettive che dovessero essere prese.
Ciò non significa naturalmente che nella Chiesa non emerga la conflittualità, come la vita quotidiana insegna, ma significa che la conflittualità insorge solo nel momento in cui il fedele o i pastori non entrano in rapporto tra loro secondo tutta la strin- genza, giuridicamente vincolante, della comunione. La conflittualità è un dato di fatto, per sua natura relazionale e contingente, poiché non nasce «ex sese, sed posito alio».
La non-competitività strutturale tra dovere e diritto e tra diritto e dovere è determinata dal profilo istituzionale anche dal fatto che a differenza del modello sociale statuale, quello ecclesiale non è fondato sul rapporto persona-istituzione, in cui l’istituzione, in quanto potere pubblico organizzato, sovrasta il diritto privato e l’individuo, bensì sul rapporto istituzione-istituzione, che coincide con il rapporto persona-persona, poiché tutti i fedeli appartengono all’istituzione della Chiesa e tutti la rappresentano, sia pure in modo diverso.
L’istituzione si costituisce secondo due poli sacramentali, il battesimo e l’ordine sacro; il sacerdozio comune e quello ministeriale. Essendo due forme di partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo non sono competitivi o alternativi, bensì correlativi per loro natura e coessenziali l’uno all’altro. Il sacerdozio comune sussiste anche in quello ministeriale e ciò dà la garanzia che i Pastori non possono esimersi dai doveri comuni a tutti i fedeli; il sacerdozio ministeriale esiste solo in forza del rapporto ontologico di servizio che lo orienta verso il sacerdozio comune [36].
L’unico elemento non istituzionale della costituzione della Chiesa è il carisma. Essendo però concesso dallo Spirito Santo all’uno e all’altro polo dell’istituzione, esso acquisisce rilevanza giuridica ed è questa la ragione per cui il C1C non avrebbe dovuto emarginarlo.
Concludendo si può constatare che nella costituzione della Chiesa, conoscibile solo per fede essendo di origine divino-po- sitiva e non naturale, esiste un fenomeno ricorrente di immanenza reciproca tra i diversi livelli della sua struttura: immanenza del diritto nel dovere e del dovere nel diritto, del sacerdozio comune in quello ministeriale e di quello ministeriale in quello comune; a livello antropologico, immanenza della persona battezzata nel Corpo Mistico e del Corpo Mistico, che è la Chiesa, nel fedele, la cui identità nuova è determinata dal fatto che tutti gli altri fedeli appartengono come elementi costitutivi della sua persona; a livello ecclesiologico, immanenza della Chiesa universale in quella particolare e di quelle particolari in quella universale, espressa dalla formula conciliare «in quibus et ex quibus una ecclesia catholica exsistit» (LG 23, l) [37].
Questa formula ecclesiologica offre di fatto il migliore modello ermeneutico per capire la natura stessa della «communio». Si tratta infatti di un concetto che potendo assumere diversi significati (psicologici, etici, affettivi, mistici e pastorali) è usato nel linguaggio post-conciliare come «passe-par-tout» per trovare una risposta ad ogni sorta di problemi.
In realtà il principio della «communio» ha valore primariamente strutturale o ontologico. Esso consiste nel fatto che la Chiesa si realizza solo dove c’è immanenza dell’universale nel particolare e del particolare nell’universale [38].
Applicato al problema della reciprocità tra dovere e diritto, ciò significa che il dovere, in quanto determina il rapporto universale comune a tutti i fedeli nei confronti di Cristo, si realizza come rapporto di comunione ecclesiale, solo nella misura in cui ad ogni singolo fedele è garantito l’esercizio dei suoi diritti.
VIII. La non-fondamentalità dei dove-diritti del fedele
Contrariamente alla LEF, il CIC non qualifica come fondamentali i doveri-diritti dei fedeli – dei laici, dei chierici e dei membri degli Istituti di vita consacrata.
La ragione della rinuncia alla nozione di fondamentalità non dipende solo dal fatto formale che il CIC non ha lo stesso carattere di fondamentalità della LEF, anche se dal profilo materiale quasi la metà delle norme della LEF sono state recepite nel CIC e molte altre norme dello stesso hanno chiara valenza costituzionale. Anche nella LEF i doveri-diritti del fedele, malgrado il titolo con cui erano rubricati, non avevano la qualifica della fondamentalità.
Il concetto della fondamentalità è correlativo alla funzione che i diritti del cittadino assumono all’interno dell’ordinamento giuridico globale di uno Stato. Esso significa originariamente due cose: preesistenza della persona, come soggetto giuridico, rispetto allo Stato e garanzia di uno spazio di autonomia per l’individuo.
Evidentemente la nozione originaria dei diritti fondamentali è evoluta fino al punto da trasformare la stessa nozione originaria del moderno Stato di diritto. Dallo Stato, chiamato a garantire l’applicazione del diritto, si è passati allo Stato sociale, chiamato a programmare e promuovere il benessere materiale, per giungere al modello dello Stato culturale, chiamato a promuovere anche l’attività spirituale del cittadino.
La struttura originaria di bipolarità concorrenziale tra cittadino e Stato è tuttavia rimasta sostanzialmente intatta. In tutte e tre le forme di evoluzione del modello statale occidentale, il cittadino continua a rivendicare uno spazio di autonomia individuale e lo Stato continua a limitare l’uso del proprio potere, anche se è chiamato a moltiplicare i suoi interventi in favore del cittadino, ben al di là delle previsioni immanenti al modello originale dello Stato di diritto [39].
La tensione non si risolve eliminando la bipolarità strutturale, bensì regolandola secondo il principio pragmatico del «check and balance». Anzi, la competitività si è aggravata, perché è insorta non solo nei confronti dello Stato, ma all’interno dei diritti fondamentali stessi con l’apparire dei primi diritti sociali dell’uomo nelle costituzioni, che per loro natura sono antagonisti delle libertà individuali [40].
I diritti dell’uomo, personali e sociali, si sono trasformati concettualmente in diritti fondamentali facendo il loro ingresso nelle costituzioni moderne, dove grazie alla loro forza di espansione hanno provocato una trasformazione globale dell’assetto giuridico dello Stato. Il principio democratico, la separazione dei poteri, il principio della costituzionalità e della legalità, quello della socialità e il federalismo sono determinazioni più o meno lineari dei diritti fondamentali che hanno determinato il passaggio dallo Stato assolutista allo Stato di diritto democratico, la cui funzione primaria è diventata quella di garantire la realizzazione sia dal profilo formale che materiale dei diritti fondamentali del cittadino [41].
La struttura costituzionale della Chiesa e il suo ordinamento giuridico non hanno invece come «telos» quello di garantire la realizzazione dei doveri-diritti del fedele, ma hanno come scopo primario quello di dare la garanzia che la parola e il sacramento, celebrati oggi dalla Chiesa, siano ancora la stessa parola e lo stesso sacramento istituiti da Cristo [42]. Infatti i doveri-diritti specifici dei fedeli non sono preesistenti alla Chiesa, come i diritti dell’uomo allo Stato, ma conferiti alla persona, mediante la mediazione della Chiesa, dal sacramento, cui è legata inscindibilmente anche la parola. Parola e sacramento sono gli elementi che costituiscono la Chiesa come istituzione [43].
Ne consegue che neppure il concetto di autonomia della persona, legato a quello della fondamentalità, non è applicabile all’interno dell’ordinamento giuridico della Chiesa, almeno nella concezione che la Chiesa cattolica ha di se stessa. Ciò evidentemente non significa che il fedele non goda di una propria autonomia [44], ma solo che i presupposti teorici e le implicazioni giuridiche legate al concetto moderno di autonomia o di libertà non sono applicabili, secondo la stessa valenza culturale, alla costituzione della Chiesa, poiché si rivelano essere in contrapposizione con la sua struttura che è quella della comunione.
Non bisogna dimenticare che una delle ramificazioni genealogiche del problema dell’autonomia dell’uomo, così come è intesa dalla cultura moderna, è stata l’idea luterana della giustificazione. Concepita come una non «imputatici peccati», ha creato un rapporto di libertà «coram Deo» che sottrae l’uomo ad ogni mediazione umana [45].
Questo modo di concepire la «libertas christiana» luterana svincola l’uomo da ogni legame storico istituzionale: dallo Stato e dalla Chiesa. Il rapporto con la socialità cessa di essere strutturalmente intrinseco ed è regolato estrinsecamente solo dall’amore verso il prossimo, che a sua volta è il frutto della libera azione di Dio nell’uomo.
Tale concetto di autonomia, anche se fosse in grado di cancellare la mediazione istituzionale dello Stato nei confronti della coscienza umana, non riesce a cancellare la mediazione istituzionale della Chiesa. Ciò significa, fra le altre cose, che anche i diritti del fedele non possono essere in alcun modo configurati alla stregua di diritti fondamentali, come i diritti dell’uomo nella struttura costituzionale dello Stato.
Il riconoscimento dei doveri-diritti del fedele non ha cambiato la struttura costituzionale della Chiesa, anche a prescindere dal fatto formale che essi sono contenuti solo in un Codice.
Evidentemente, se non è possibile contrapporre la persona del fedele all’istituzione, spesso identificata indebitamente con l’autorità (dal momento che anche il fedele appartiene alla istituzione) non è possibile neppure contrapporre l’autorità al fedele. Questa è una delle implicazioni nuove dell’«aequitas canonica», istituto che da sempre determina i nessi strutturali di tutto l’ordinamento giuridico della Chiesa.
In questa ottica devono essere lette e interpretate non solo le due clausole garantistiche del can. 233, ma anche tutte le altre disseminate senza parsimonia lungo tutto il catalogo dei doveri-diritti del fedele che, globalmente prese, risultano eccessive rispetto al bisogno di sicurezza giuridica [46].
IX. La tutela giuridica dei diritti
Il problema della tutela giuridica esigerebbe per la sua complessità una trattazione a parte. In questa sede è sufficiente far alcune brevi osservazioni.
Contrariamente al can. 22 § 1 della LEF e al can. 35 dello SCH, il can. 221 § 1, ribadendo il principio della tutela giuridica dei diritti del fedele, oblitera la menzione esplicita della via giudiziaria e della via amministrativa. Si limita a fare un generico rinvio alle norme processuali e amministrative («ad normam iuris»), potenzialmente limitatrici, le cui disposizioni sono il can. 1491 per la via giudiziaria e il can. 1400 per la via amministrativa. I riferimenti per quest’ultima sono i can. 1732-1739 (la «petitio» e il ricorso gerarchico) e il can. 1445 § 2 (la «sectio altera» della Segnatura Apostolica).
a) Per quanto riguarda la tutela giuridica è importante che la dottrina e la giurisprudenza sappiano individuare, nella nuova normativa del CIC, l’esatta configurazione sia dei titolari dei diritti e dei doveri corrispondenti, sia il tipo di azione o di ricorso cui dà luogo la loro violazione.
Una sommaria ricognizione delle disposizioni del CIC consente di constatare che la nomenclatura adottata dal CIC non vede come soggetto solo i fedeli in astratto – in alcuni casi, come abbiamo già avuto luogo di constatare, addirittura «sub- introducti» ancora con la veste dei laici -, ma anche i fedeli considerati in concreto, cioè nella veste della posizione giuridica particolare connessa alla loro funzione o attività personale, per esempio di «sacri Pastores» o di «Ecclesiae Pastores», o di coloro «qui disciplinis sacris incumbunt».
Per il differente atteggiarsi delle pretese e degli obblighi che determinano opportunità differenti di tutela dei diritti, un saggio, riferito allo schema della LEF, ma valevole anche per il CIC, è già stato esemplificativamente dato da Mirabelli [47]. I diritti sono espressi talvolta mediante proposizioni che affermano un diritto, enunciato attraverso l’opposta situazione di dovere o di divieto di porre illegittimamente atti lesivi nei confronti di chiunque, o solo dei titolari di «uffici», ed assume la veste di pretesa azionabile per la rimozione della lesione. Altre volte, la garanzia è enunciata direttamente come diritto, con valenza negativa, che può espandersi sino alla pretesa di rimozione degli effetti contrari in un’azione diretta all’accertamento dell’atto viziato. Altre volte ancora, l’interesse protetto esige la partecipazione altrui ed è tutelabile con azioni indirette, per ottenere la prestazione di un comportamento doveroso. Da ultimo, disposizioni permissive che consentono un «facere» del titolare ed esigono l’astensione dal porre in essere di atti ostativi, e dove l’azionabilità si afferma solo nei confronti di interventi che impediscono, o rendono difficoltoso, l’esercizio del diritto.
b) Anche per quanto riguarda la via amministrativa il problema è analogo. Si tratta di approfondire l’analisi della struttura propria alle singole fattispecie in cui si configura la violazione della legge, l’errore «sive in decernendo sive in procedendo», l’abuso di potere o l’indebito uso dello stesso, oppure di individuare le fattispecie dei diritti soggettivi ed eventualmente degli interessi legittimi, passibili di protezione.
Si tratta di un lavoro scientifico in atto da oltre un decennio [48]. Mentre però la teoria generale concernente la struttura degli strumenti giuridici, che permettono l’azionabilità dei diritti, ha assunto, nella scia del diritto romano e germanico, un livello di universalità che le ha permesso di essere recepita nella sua sostanza anche dall’ordmamento canonico, l’analisi, sia degli interessi protetti, sia degli strumenti di tutela nel contenzioso amministrativo, rivela ancora l’esistenza di accentuazioni culturali e di esperienze giuridiche profondamente diverse. Il contenzioso amministrativo si è sviluppato negli ordinamenti giuridici statuali moderni in epoca molto recente, così da non più beneficiare, come quello civile, dell’esistenza di una matrice giuridica comune. Una recezione nel diritto canonico si rivela così più difficoltosa, sia dal profilo materiale che da quello formale.
E proprio sul terreno del diritto formale che il CIC, con sorpresa di molti, ha segnato una battuta d’arresto rispetto alle aspettative, forse prematuramente avallate, dal Sinodo dei Vescovi del 1967.
Lo stralcio dal CIC dei tribunali amministrativi delle Conferenze episcopali, che il dispositivo di legge per altro non esigeva come necessari, ha fatto riemergere «volens-nolens» la certezza dell’esistenza di nodi dottrinali, che la dottrina non ha
ancora discusso con il necessario rigore ecclesiologico e scientifico. Non si tratta tanto di capire se la messa in atto facoltativa dei tribunali amministrativi da parte delle singole Conferenze dei vescovi avrebbe in concreto leso il principio della uguaglianza di tutti i fedeli di fronte alla legge, principio consacrato almeno implicitamente dal can. 208. Si tratta piuttosto di capire se la tutela dei diritti dei fedeli contro atti lesivi posti dalla (così detta) «potestas administrativa» coincida necessariamente, nell’ordinamento canonico, con l’introduzione generalizzata dei tribunali amministrativi, i cui presupposti dottrinali hanno la loro ascendenza genealogica nello Stato di diritto.
A rigore la stessa domanda potrebbe essere posta anche per la via giudiziaria, poiché non è detto che la «potestas sacra li- gandi et solvendi» del vescovo, così come si esprime emblematicamente nel sacramento della penitenza, debba assumere imprescindibilmente le stesse modalità di funzionamento giuridico della «potestas saecularis», la cui assonanza con la «sacra potestas» è solo verbale.
R. Sohm non ha sbagliato di molto avanzando l’ipotesi che in regime di cristianità la Chiesa ha assunto una nozione formale di diritto e di giurisdizione stranamente somiglianti a quelli secolari [49]. In effetti è sintomatico il fatto che negli anni del postconcilio molte voci hanno reclamato un ritorno ad una prassi amministrativo-pastorale, ritenuta più consona alla specificità del rapporto discrezionale tra pastori-fedeli, fondato sulla «potestas ligandi et solvendi». Fu reclamato infatti proprio per le cause matrimoniali che, essendo di natura sacramentale, toccano la Chiesa nella sua struttura più vitale [50].
Queste stesse voci non hanno però ravvisato nessuna contraddizione nel fatto di reclamare, magari con tono più alto, l’introduzione generalizzata del contenzioso amministrativo [51].
Evidentemente non si tratta di andare contro la storia. Tuttavia una soluzione in via amministrativa di certi casi matrimoniali, in cui non è possibile produrre le prove giudiziali della nullità, sarebbe auspicabile in nome della «aequitas canonica», che ricomprende con un criterio diverso e senza la stessa rigidità il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge. L’applicazione dei principi propri allo Stato di diritto, dove lo Stato è giustamente sottoposto al giudizio del cittadino, non è un fatto assolutamente scontato per l’ordinamento canonico.
Il contenzioso amministrativo esercitato dal potere primazia- le su quello episcopale non pone difficoltà di principio, esistendo un rapporto gerarchico. Essendo invece la «potestas» delle conferenze dei vescovi solo episcopale, i termini del problema cambiano. I vescovi eserciterebbero ultimamente una giurisdizione su se stessi. Ciò non ha nulla in comune con l’istituto dell’autocontrollo del potere. E sintomatico a questo proposito che il nuovo CIC ha rinviato i vescovi al giudizio della Santa Sede non solo per i casi penali ma anche per quelli del contenzioso civile (can. 1405 § 3 n. 1).
Anche questa ultima considerazione non sarebbe decisiva in ordine ad un giudizio finale sul problema, poiché è un fatto che i concili particolari, almeno fino al xn secolo, hanno esercitato una «potestas iudicialis» anche sui vescovi [52]. Il problema deve perciò essere risolto a un livello più profondo.
Solo in un sistema di separazione dei poteri, così come esiste negli ordinamenti giuridici statuali, è possibile che i funzionari siano giudicati da un altro potere che non è gerarchico intrinsecamente, cioè dal profilo materiale, ma solo dal profilo formale. I vescovi non sono funzionari della Chiesa e il loro compito, né primario né esclusivo, sarebbe quello di applicare la legge.
Una procedura amministrativa, come quella prevista dallo SCH del 1982 [53], non solo avrebbe intaccato il vescovo nella coscienza della propria identità, ma avrebbe intaccato nel fedele stesso l’immagine del vescovo, quale capo della Chiesa particolare, al cui potere discrezionale potrebbe essere dovuta ubbidienza anche quando dovesse commettere errore.
Emerge così di nuovo il problema cui abbiamo già accennato in precedenza: il problema che il principio della legalità, appartenente al patrimonio giuridico della cultura moderna più che al diritto naturale, deve rimanere subordinato ai valori ultimi in funzione dei quali sono enunciati tutti i doveri-diritti del fedele, valori che non coincidono con quelli della giustizia naturale [54]. Per non autodissolversi in una esperienza puramente umana, la giustizia di Dio, i cui valori la Chiesa è chiamata a realizzare, sono tutti riconducibili alle tre virtù teologali della fede, speranza e carità.
Per realizzare il principio della legalità e tutelare il fedele non è necessario introdurre un sistema di sindacabilità giudiziaria dell’attività amministrativa del vescovo. Potrebbe bastare un ufficio (o una commissione), chiamato obbligatoriamente in causa dal vescovo o dal fedele nei ricorsi gerarchici, non per pronunciare una sentenza, ma per dare un «parere tecnico» che, per definizione, non vincola il vescovo e permette al fedele di adire l’istanza superiore e il tribunale della Segnatura Apostolica.
L’esperienza fatta sulla base dell’istituto giuridico, introdotto con il can. 1733 § 2, e quelle in atto a livello di certe Chiese particolari a proposito della procedura amministrativa per l’esame della dottrina, potrebbero offrire elementi per uno sviluppo futuro della normativa del CIC in questa direzione.
c) Il problema della tutela giuridica si pone anche nel settore normativo, dal momento che i diritti dei fedeli possono essere lesi anche «ex actu potestatis legislativae».
Assieme alla LEF sono caduti i canoni: 85, che assicurava (in modo ridondante rispetto al can. 87), la prevalenza delle norme della LEF sulle altre leggi, sia universali che particolari; il can. 86, che prevedeva una duplice garanzia giurisdizionale per il rispetto delle norme della LEF da parte degli atti normativi: il controllo diffuso, rimesso alla competenza di ogni tribunale, che si esprime nella disapplicazione giurisdizionale dell’atto normativo viziato, e il controllo accentrato, nelle mani del pontefice, che consentiva di dichiarare invalido l’atto normativo contrastante con la LEF. Da ultimo il can. 87, che stabiliva che la LEF poteva essere abrogata o derogata dalla fonte che l’aveva emanata, il Pontefice, alla sola condizione che ciò fosse esplicitamente dichiarato [55].
Dal momento che la LEF non poteva avere carattere costituzionale, nel senso statuale del termine, né si poneva come se l’avesse, si deve concludere che, pur non essendo stati recepiti dal CIC questi meccanismi legislativi di tutela, il problema della protezione dei diritti dei fedeli contro atti normativi lesivi rimane attuale in un regime di codificazione.
Del resto anche la LEF aveva proposto semplicemente soluzioni tecniche nuove per affrontare un problema giuridico non nuovo. Da sempre infatti è esistito il problema della violazione di disposti legislativi universali da parte della legge particolare, anche se non è mai stato risolto giuridicamente in termini soddisfacenti. Infatti, dopo Trento fino ad oggi, si è ricorsi pragmatisticamente all’istituto del controllo preventivo da parte della S. Congregazione del Concilio, applicato in particolare alle decisioni legislative dei Concili particolari [56].
Il problema rimane oggi attuale anche senza la LEF, poiché i diritti del fedele, nella misura in cui si esprimono come declinazioni esatte dal diritto divino positivo o da quello naturale, costituiscono un vincolo, non solo per la «potestas administrativa», ma anche per quella «legislativa»; «non già sotto il profilo della gerarchia formale delle fonti, bensì sotto l’altro, sostanzialmente più robusto, anche se formalmente più equivoco, della gerarchia materiale». Ciò in forza del fatto che i diritti del fedele, «nella misura in cui sono coessenziali dell’essere persona nell’ordinamento canonico e costituiscono il nucleo inviolabile del patrimonio giuridico del cristiano, come tali, si impongono all’osservanza, oltre che degli altri individui, di ogni autorità» [57].
Malgrado la loro non fondamentalità, come ho cercato di dimostrare in precedenza, i diritti del fedele, nella misura in cui sono fondati nel diritto divino, sono inviolabili da parte di qualsiasi fonte normativa. Di qui l’importanza di riuscire a determinare con sicurezza la loro struttura ontologica, poiché essi hanno una diversa pretesa sostanziale di tutela, a seconda che siano fondati nel diritto divino, in quello naturale o, più semplicemente, nei principii generali del diritto o nel diritto umano.
Ciò che è cambiato, rispetto alla tradizione canonica precedente e al CIC 1917 in particolare, non è il fatto di aver preso coscienza della gerarchia materiale delle fonti, ma il fatto che il fedele è emerso dal CIC come protagonista principale della vita della Chiesa e del suo ordinamento giuridico. In ciò ha sostituito il clero e in particolare la gerarchia, che in forza dello stesso processo di personificazione con il quale la filosofia illuminista aveva identificato lo Stato con la società, era stata anch’es- sa spesso identificata con la Chiesa. Il giudizio pronunciato da U. Stutz nel 1918, malgrado i diversi tentativi di replica, appare sempre più vero: il CIC del 1917 era «ein fast ausnahmslos Geistlichkeitsrecht» [58].
Il problema si ripropone oggi con una maggiore urgenza poiché, grazie al principio della uguaglianza «in dignitate et actione», i diritti dei fedeli risultano essere, con maggior evidenza di prima, non meno forti dei diritti dei Pastori anche senza che per questo cambi la struttura gerarchica della Chiesa.
Il fatto che la scoperta della figura del fedele avvenga contemporaneamente alla vigorosa affermazione, da parte del magistero, della dignità della persona umana, rende solo più sensibile la nostra coscienza. Permette di capire con più chiarezza che le disposizioni concernenti i diritti dei fedeli non si pongono solo come norme di garanzia negativa rivolte a impedire atti lesivi, ma attribuiscono ad essi una funzione di garanzia anche positiva, cioè programmatica, che impegna, gli altri soggetti e il potere, a un «facere», non solo nel momento esecutivo e giudiziario, ma anche in quello legislativo. Il «facere» potrebbe consistere nel riprendere, senza i condizionamenti in cui si era imbrigliata la LEF, il problema della tutela dei diritti dei fedeli contro atti normativi lesivi, sottordinati rispetto alla legislazione della Chiesa universale [59].
[1] Cfr. R. Zippelius, Grundrechte, II: Grundsätzliches, in: EvStLex, Stuttgart-Berlin 1975, 925-926.
[2] Cfr. E. Corecco, Presupposti culturali ed ecclesiologici del nuovo «Codex», in: Il nuovo codice di diritto canonico, a cura di S. Ferrari, Bologna 1983, 37-68.
[3] Cfr. N. Irti, L’età della decodificazione, Milano 1979, 3-39.
[4] Su tutto il problema cfr. P. Hinder, Grundrechte in der Kirche: eine Untersuchung zur Begründung der Grundrechte in der Kirche, Freiburg-Schweiz 1977, 81-99.
[5] Oltre al can. 87 valgano come riferimento generale i Tit. XVIII e XIX del II Libro: De fidelibus consociationibus in genere… et in specie (can. 684-725), dove la distinzione tra fedeli e laici emerge abbastanza nitidamente.
[6] Cfr. E. Corecco, Presupposti culturali…, cit., 49-52.
[7] Cfr. R. Astorri, La Conferenza episcopale svizzera. Analisi storica e canonica, Fri- bourg 1983 (Ricerca finanziata dal Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica, spec. cap. II, in pubblicazione).
[8] Cfr. per esempio, P. de Laubier, La pensée sociale de l’Église catholique, Paris 1979; così pure la sintesi di F. Biffi, I diritti umani da Leone XIII a Giovanni Paolo II, in: I Diritti umani: dottrina e prassi, a cura di G. Concetti, Roma 1982, 199-243.
[9] Se avesse carattere solo funzionale lo «status» delle persone cambierebbe cambiando la funzione. Allora avrebbe ragione il Rahner (Über das Laienapostolat, in: Schriften zur Theologie, II, Einsiedeln-Zürich-Köln 1964, 331-373; Id., Pastorale Dienste und Gemeindeleitung, «Stimmen der Zeit» 195 [1977], 733-743), secondo cui un laico che assume un impegno stabile nella Chiesa perde il suo statuto laicale per entrare a far parte di quello clericale. Sulla questione, cfr. E. Corecco, La “sacra potestas” e i laici, «Studi parmensi» 28 (1980), 3-36.
[10] Questo catalogo è ripreso da Hinder, op. rit., 98-101. Cfr. anche J. Bernhard, Les droits fondamentaux dans la perspective de la «Lex fundamentals» et de la révision du code de droit canonique, in: I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella Società. Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico (Friburgo-Svizzera, 6-11 ottobre 1980), a cura di E. Corecco-N. Herzog-A. Scola, Fribourg Suisse-Frei- burg i.Br.-Milano 1981, 378.
[11] Per una bibliografia antecedente al IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico di Friburgo del 1980 cfr. H. Schnizer, Individuelle und gemeinschaftliche Verwirklichung der Grundrechte, in: I diritti fondamentali del cristiano, cit., 420, n. 3.
[12] Su questo problema cfr. A. Rouco Varela, Fundamentos eclesiológicos de una teoría general de los derechos fundamentales del cristiano en la Iglesia, in: I diritti fonda- mentali del cristiano, cit., 53-78; W. Aymans, Munus undSacra potestas, in: ibidem, 185- 202; Id., Kirchliche Grundrechte und Menschenrechte, AfkKR 149 (1980), 389-409.
[13] Cfr. E. CORECCO, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella Società: aspetti metodologici della questione, in: I diritti fonda- mentali del cristiano, cit., 1219-1222.
[14] L’analisi di questi problemi discussi dalla dottrina è stata fatta da Hinder, op. cit., 102-167. Sulla fondazione dei diritti dell’uomo, cfr. A. Scola, L’alba della dignità umana, Milano 1982, spec. 165-185.
[15] Cfr. Schnizer, op. cit., 423-424.
[16] La comparazione dei due cataloghi, quella dello SCH del 1977 e quello della LEF del 1979, è stata fatta da Schnizer, op. cit., 424-426. Ci scostiamo dall’analisi dell’A. solo per il diverso modo di determinare le singole fattispecie.
[17] Cfr. «Communicationes» 12 (1980), 37-44; 77-91.
[18] Cfr. ibidem, 49.
[19] Cfr. ibidem, 90.
[20] Cfr. ibidem, 43-44.
[21] Can. 580, 590 § 3, 631 § 1, 708, 716 § 1, 717 § 3, 722 § 1 e 2.
[22] Per esempio LG 12, 2, in cui si asserisce che il giudizio sulla genuinità e l’ordinato uso dei carismi spetta all’autorità ecclesiastica, alla quale soprattutto incombe il dovere di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono. Cfr. anche LG 4, 1; 7, 3; 30, 1; 50, 1; AA 3, 4; 30, 6; AdG 4, 1; 23, 1; 28, 1; PO 4, 2.
[23] Cfr. E. Coeecco, Valore dell’atto «contra legem», in: Actas del III Congreso Internacional de Derecho Canònico (Pamplona, 10-15 de octubre 1976), Pamplona 1979, I, 845-850.
[24] Cfr. Schnizer, op. cit., 430-434.
[25] Cfr. Communicationes 12 (1980), 43.
[26] Cfr. il testo alternativo proposto da Bernhard, op. cit., 393.
[27] Cfr. C. Mirabelli, La protezione giuridica dei diritti fondamentali, in: I diritti fondamentali del cristiano, cit., 410-418.
[28] Cfr. E. CORECCO, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali, cit.
[29] Cfr. R. Sobanski, Die methodologische Lage des kanonischen Rechtes, AfkKR 147 (1978), 369-372.
[30] Sul problema cfr. A. Hollerbach, Grundwerte und Grundrechte in der Gesellschaft und im Staat, in: I diritti fondamentali del cristiano, cit., 811-833; A. DE Fuen- MAYOR, Derechos fundamentales y familia cristiana, in: ibidem, 910-912.
[31] Cfr. P. Fedele, Lo spirito del diritto canonico, Padova 1962, 231-293.
[32] Per esempio da P. Bellini, Libertà e Dogma: autonomia della persona e verità della fede, Bologna 1984, 117-195. Lo stesso testo in: EphlurCan 34 (1978), 211-246. Alle stesse conclusioni, ma con una impostazione meno ideologica perviene anche S. Lariccia, Considerazioni sull’elemento personale dell’ordinamento canonico, Milano 1971, 60-62.
[33] Cfr. U. SCHEUNER, Les droits de l’homme à l’interieur des Eglises protestantes, RevHistPhilRel (1976), 37,9-397.
[34] Cfr. A. Verdross, Abendländische Rechtsphilosophie, Wien 19632, 128-163.
[35] È lo stesso rapporto che secondo S. Tommaso esiste tra le norme e la coercizione nella nozione formale di diritto, cfr. De ventate, q. 23, art. 4, ad 1.
[36] Cfr. E. Corecco, Riflessione giuridico-istituzionale su sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, in: Popolo di Dio e sacerdozio, Atti del IX Congresso Nazionale dell’ATI (Cascia, 14-18 settembre 1981), Padova 1983, 80-129.
[37] Cfr. W. Aymans, Das synodale Element der Kirchenverfassung, München 1970, 318-366.
[38] Cfr. H. U. von Balthasar, Das Ganze im Fragment: Aspekte der Geschichtstheologie, Einsiedeln 1963.
[39] Cfr. A. Hollerbach, op. eit., 815-920.
[40] Cfr. R. Zippelius, op. eit., 926-927.
[41] Cfr. E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali, cit., 1219-
1222.
[42] Cfr. A. Rouco Varela, op. dt., 73-77.
[43] Cfr. K. Mörsdorf, Wort und Sakrament als Bauelemente der Kirchenverfassung, AfkKR 134 (1965), 72-79.
[44] Cfr. G. Feliciani, Le basi del diritto canonico dopo il codice del 1983, Bologna 1984, 121-123.
[45] Cfr. T. Rendtorff, Das Verfassungsprinzip der Neuzeit, in: Handbuch der christlichen Etik, hrsg. von A. Hertz-V. Korff-T. Rendtorff-H. Ringelin, Freiburg i.Br.- Basel-Wien, II, 1978, 226-230.
[46] A. Metz (Droits de l’homme ou droits du chrétien dans le projet de la «Lex Fun- damentalis»? Quelques réflections, in: Festschrift Panzram, Freiburg i.Br. 1972, 85) parla a questo proposito di un «reflex de défense».
[47] Op. dt., 408-409.
[48] Cfr. per esempio, I. Gordon, De iustitia administrativa ecclesiastica tum transado tempore tum hodierno, PRMCL 61 (1972), 251-378; R. Coppola, Intorno al concetto di anormalità nell’atto amministrativo canonico, Napoli 1975; Z. Grocholewski, La “Sectio Altera’’ della Segnatura Apostolica, con particolare riferimento alla procedura in essa eseguita, «Apollinaris» 54 (1981), 65-110.
[49] Das altkatholische Kirchenrecht und das Dekret Gratians, München-Leipzig 1918, spec. 597-614.
[50] Per esempio, P. Huizing, Die Funktion kirchlicher Entscheidung: zur theologischen Bewertung von Ehegerichten, «Concilium» 9 (1973), 466-473.
[51] Per esempio, P. Huizing, Das Problem der Trennung von Obrigkeitsfunktionen in der Kirche, «Concilium» 7 (1971), 202-203; J.A. Coriden, Die Menschenrechte in der Kirche: eine Frage der Glaubwürdigkeit und Autentizität, «Concilium» 15 (1979), 234-239.
[52] Cfr. H. Schmitz, Apellatio extraiudicialis, Mùnchen 1970.
[53] Per una critica alla soppressione nel nuovo CIC della procedura amministrativa cfr. R. Bertolino, La tutela dei diritti nella Chiesa: dal vecchio al nuovo codice di diritto canonico, Torino 1983, 150-157.
[54] Cfr. G. Barberini, Lordinamento della Chiesa e il pluralismo dopo il Valicano II, Perugia 1979, 14-18.
[55] Cfr. C. Mirabelli, op. dt., 412-415.
[56] Con la Bolla Immensa aeterni del 1588 Sisto V ha attribuito alla Congregazione del Concilio il diritto di esame e revisione dei Concilii provinciali; cfr. J F. von Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des Canonischen Rechts von der Mitte des 16. Jahruhnderts bis zur Gegenwart, III/1, Stuttgart 1880, 80.
[57] Cfr. C. Mikabelli, op. dt., 415.
[58] Der Geist des CIC, Stuttgart 1918, 83-89.
[59] Cfr. C. Mirabelli, op. dt., 416-418.