- 1. I presupposti culturali ed ecclesiologici del nuovo «Codex»
- 2. Aspetti della ricezione del Vaticano II nel Codice di Diritto canonico
- 3. Fondamenti ecclesiologici del nuovo Codice di Diritto canonico
1. I presupposti culturali ed ecclesiologici del nuovo «Codex»
1. Il significato della nuova codificazione
1. Anche nell’ipotesi che non sia possibile applicare, senza riserve, a tutti i codici civili europei ed eventualmente extra-europei la qualifica di “diritto residuale” affibbiata da Natalino Irti[1] al codice civile italiano del 1865-1942, la tesi che nelle aree giuridiche di estrazione romanistica e germanica sia iniziata un’era di decodificazione sembra essere plausibile[2].
Iniziando un discorso sul nuovo CIC non è di conseguenza possibile eludere la domanda pregiudiziale: la Chiesa latina ha ripercorso la via della codificazione perché ha disatteso lo sviluppo culturale e giuridico in atto almeno nell’Europa occidentale, dove è nata l’idea della codificazione, oppure ha riscoperto nella natura specifica del proprio ordinamento giuridico la rimotivazione per procedere ad una nuova codificazione?
L’accelerazione della storia, avvenuta tra le due guerre mondiali, che ha trasformato la società europea liberale e borghese – per altro già sfociata nella sua fase terminale in esperimenti di involuzione totalitaria – lasciando nel suo solco l’attuale società della transizione, ha trovato un corrispettivo ecclesiae nella accelerazione impressa dal Vaticano II a tutta la cristianità. Da Chiesa universale, quasi monisticamente strutturata, la cattolicità si e risvegliata con la coscienza di essere una «communio ecclesiarum» in cui la Chiesa universale e quella particolare si compenetrano per realizzare l’unica Chiesa di Cristo, la sola ad essere una, santa, cattolica ed apostolica.
La crisi culturale, politica e sociale che ha travagliato l’Europa (punto di riferimento connaturale della Chiesa latina) ha investito tutte le istituzioni sollevando problemi di identità e di dimensioni imprevedibili. È nata una società pluralista – risultante dalla coesistenza di ideologie, gruppi sociali, spinte culturali e politiche eterogenee – che non si riconosce più nel modello della società borghese e nella tavola di valori da essa proposta universalmente. Alla sicurezza, alla stabilità, al duraturo succede una faticosa e profonda mutazione delle istituzioni giuridiche, nel tentativo di assimilare la sterminata emersione di bisogni e problemi dei nuovi gruppi sociali. Molti istituti giuridici dei codici ottocenteschi non sono più in grado di ricomprendere le nuove fattispecie.
Non avendo il coraggio di sacrificare i codici – anche laddove la rottura con l’esperienza democratica è stata profonda e radicale – gli Stati li aggirano promulgando leggi speciali e edificando in tutta Europa, accanto alle solenni architetture dei codici, un altro diritto più mutevole ed effimero. Non solo fanno la loro apparizione nuove leggi che regolano i nuovi settori della vita sociale, ma anche nuovi tipi di leggi e di norme. Le prime fondate spesso più su un carattere contrattuale che sulla imperatività dello Stato, destinate perciò a perire, quando l’accordo tra le forze sociali, che le hanno prodotte, viene a mancare; le seconde rivelano a loro volta una nuova identità dello Stato, perché sono norme di scopo, incentive, mirano a far fare, suggeriscono e scoraggiano l’attività dei singoli, assegnano allo Stato fini da perseguire.
Lo Stato di diritto cede il passo a quello sociale e addirittura a quello assistenziale. Non sta più a guardare come arbitro, facendosi garante che gli individui rispettino le regole del gioco sociale, ma interviene nell’economia, limita i poteri negoziali dei privati, seleziona i fini al posto dell’individuo, si trasforma in imprenditore ed assume in proprio carichi imprevisti, sostituendosi al soggetto, che fino allora aveva protagonizzato la classe dirigente uscita vittoriosa dalla rivoluzione del secolo dei lumi. Nel rovesciamento della funzione dello Stato i codici cessano di essere diritto comune e perdono il carattere della centralità.
In questa società pluralistica in cui i popoli non riescono più ad esprimersi secondo un’unica identità sociale e culturale ma solo secondo esigenze politiche più effimere e cangianti, è prevedibile che l’epoca delle grandi codificazioni, in parte oltretutto già sostituite – da micro sistemi legislativi, sia terminata[3].
2. Quali possono essere state allora le motivazioni della Chiesa latina a ripercorrere l’esperienza della codificazione?[4]
Il problema non è quello di reperire con certezza motivazioni esplicite emerse da un confronto culturale con l’evoluzione giuridica e legislativa in atto nella società contemporanea europea, dal momento che questo non sembra essere avvenuto; ma è quello di capire quali possano essere stati gli elementi oggettivamente soggiacenti alla coscienza della Chiesa cattolica, che in modo magari più inconscio che consapevole hanno fornito una legittimazione alla codificazione.
Non si può trascurare il fatto, magari da molti giudicato banale, ma comunque ben presente nella coscienza della Chiesa, che il vecchio codice è stato uno strumento giuridico e politico di incalcolabile valore. Non solo ha permesso una profonda unificazione della disciplina canonica – unica nel corso della sua storia – senza bloccare il nascere di quei fermenti (rischio incombente ad ogni processo unificatorio) sfociati nell’insopprimibile esigenza di rinnovamento alla quale Giovanni XXIII ha dato risonanza universale, ma ha impresso un impulso straordinario anche alla scienza canonistica.
Da quest’ultimo punto di vista i sessantacinque anni che corrono tra il primo e il secondo codice rappresentano forse il periodo più fecondo di tutta la storia della scienza del diritto canonico. Basti pensare che, già prima del Concilio, all’interno dell’alveo segnato dal CIC è nata la quarta fase metodologica della canonistica, quella teologica, ultima della serie iniziata da quella a carattere prevalentemente sapienziale del primo millennio, seguita da quella più scientifica del Medioevo, collaterale alla riscoperta del diritto romano privato, e da quella giusnaturalistica ed apologetica del «Ius Publicum Ecclesiasticum», ispiratosi alla scienza del diritto pubblico dell’era moderna. Ad essa fanno capo quasi tutte le scuole che hanno raggiunto un alto grado di elaborazione scientifica com’è il caso della scuola canonistica laica italiana[5].
Potrebbe essere stata questa fiducia suscitata dal vecchio codice che ha spinto la Chiesa gerarchica, ma anche la stragrande maggioranza dei rappresentanti della scienza canonistica a risceglierlo come strumento tecnico per dare alla Chiesa latina l’atteso, nuovo assetto giuridico. Strumento rivelatosi agli occhi di molti ancor più necessario, quando il progetto della «Lex Ecclesiae Fundamentalis» è stato ritirato dopo essere stato duramente colpito dalla critica[6]. Infatti, come è vero che i codici civili ottocenteschi hanno svolto anche una funzione costituzionale[7] perché hanno custodito e protetto molti dei valori fondamentali della società borghese, così è vero che il nuovo CIC esplica a sua volta una funzione costituzionale. Non tanto perché, a differenza dei codici civili esso veicola molte norme che agli occhi del diritto pubblico moderno potrebbero apparire come costituzionali (e non solo quelle riprese dall’ultimo progetto della LEF), ma piuttosto perché bene o male (e non ha importanza definire da subito se più bene che male) recepisce molti di quei principi (anche se non tutti) e di quei valori costituzionali o fondamentali che il Vaticano II ha espresso.
In effetti bisogna riconoscere che non è stato il fallimento della LEF a suggerire l’idea della codificazione ma, viceversa, la codificazione a suggerire la LEF. Il fallimento di quest’ultima però ha dato, magari a torto, ma di fatto, una nuova urgenza e una nuova attendibilità alla codificazione.
L’evento che ha fatto apparire come necessaria una vera e propria codificazione, che ha superato di gran lunga il progetto giovanneo di aggiornamento, è stato la ristrutturazione costituzionale provocata dal Vaticano II, che ha spostato il centro di gravità, formalmente collocato nella Chiesa universale, verso un punto capace di comprendere anche la Chiesa particolare. Una Chiesa che si autodefinisce come «corpus Ecclesiarum» o come «communio Ecclesiarum» (concetti che non appaiono nel CIC) ha bisogno di un impianto normativo costituzionale e, in mancanza di esso, di un «corpus» legislativo che ne faccia in qualche modo le veci. Con una simile ristrutturazione del rapporto Chiesa universale-particolare i termini del problema cambiano. Non si tratta più solo di unificare la disciplina della Chiesa universale applicando il principio medioevale dell’«unum imperium, unum ius» ma quello di garantire la cattolicità della Chiesa di Cristo, assicurando la coesione tra la dimensione universale e particolare della stessa, ossia la possibilità di immanenza reciproca tra le due dimensioni della stessa realtà. Reciprocità di immanenza che altro non è se non l’espressione strutturale della «communio».
Il codice del 1983 non adempie più la stessa funzione ecclesiale di quello pio-benedettino, perché non ha più solo preoccupazioni universalistiche ma prima di tutto costituzionali. In questa prospettiva sarebbe stato pensabile di ridurre il volume delle norme del 30, come è stato fatto, o forse addirittura del 50%. Questa nuova funzione, sulla cui realizzazione non voglio esprimere ora un giudizio qualitativo, ha permesso al nuovo codice di conservare, in altra veste, il carattere della centralità, pur trovandosi coinvolto nel processo di decentralizzazione ecclesiale in atto dopo il Concilio.
Un’altra prova di questo giudizio mi sembra (e ancora una volta mi limito intenzionalmente al criterio quantitativo) il fatto che il rinvio alla legislazione particolare non sembra più essere nel nuovo CIC solo una contingenza sulla quale il legislatore decide volta per volta, come aveva fatto nel vecchio codice, bensì un principio coessenziale allo spirito del nuovo ordinamento canonico.
In un momento storico in cui la legislazione statuale aumenta il volume a dismisura, provocando l’asfissia del diritto comune codificato, la legislazione della Chiesa universale subisce invece una decompressione rapida e vistosa, marcando una linea di tendenza irreversibile. È cresciuta enormemente di volume invece la legislazione delle Chiese particolari, che ha prodotto un positivismo giuridico che, a dire il vero, mal coesiste con il proclamato antigiuridismo professato dalla periferia contro il centro, cioè contro Roma. Una Chiesa che decomprime il volume del diritto comune, liberando, per la prima volta dopo un millennio, spazi reali alla legislazione particolare, salva la possibilità di una codificazione senza dover smantellare precipitosamente alcuni capisaldi conquistati con la centralizzazione precedente[8].
I nostalgici della LEF pensano che essa avrebbe permesso altre codificazioni nell’area attualmente occupata dalla Chiesa latina. Comunque solo la Chiese in America latina sembra, dopo Medellìn e Puebla, essere in grado di compiere, in un futuro per altro ancora difficilmente prevedibile, quella compenetrazione culturale dell’ambiente, previa ad ogni vera codificazione. Per evitare di usare due pesi e due misure bisognerebbe però saper valutare in che misura una codificazione possa veramente corrispondere ancora alla sensibilità ecclesiale ed ecumenica moderna di queste altre aree ecclesiali. La natura e il significato giuridico della codificazione, infatti, non cambiano esportandola in altri ambiti ecclesiali, dove questa operazione, di chiara impronta illuministica europea, potrebbe eventualmente risultare, oggi, più che mai, estranea dal profilo culturale.
3. Quest’ultima considerazione impone di andare al fondo della questione sulla natura della codificazione, in quanto tale.
È noto che le radici delle codificazioni europee si nutrono, da una parte alle istanze universalistiche del giusnaturalismo del XVII secolo (che ha prodotto vari modelli di precodificazioni, pubbliche e private, tra cui il manuale del Lancelotti); dall’altra all’irresistibile istanza di penetrazione di tutto il reale (sistema legislativo compreso) con la forza ordinatrice della ragione: istanza espressa dal secolo dei lumi; da ultimo, alla scelta di dare un apporto decisivo ai processi di unificazione nazionali degli Stati assolutistici moderni attraverso l’unificazione del diritto[9].
Il CIC del 1917 è nato come rampollo ecclesiastico di questo processo culturale laico realizzando quasi tutti i requisiti formali fondamentali della codificazione, elaborati dalla teoria generale del diritto: impianto rigorosamente giuridico che scavalca la sistematica medioevale delle decretali, germanica nella sua disarticolata concretezza, ma teologica, perché lascia emergere elementi costituzionali e sacramentali inconfondibili («iudex», «clerus», «connubia»); assunzione della tripartizione delle istituzioni romane, inattaccabile nella sua capacita sintetica (paradossalmente è stato proprio il CIC che ha realizzato questa tripartizione nel modo più rigoroso); il principio della legislazione unica del can. 27, che pur salvando teoricamente il principio della quasi parità tra legge e consuetudine dà in concreto un durissimo colpo a quest’ultima; il principio della compiutezza del can. 20; il principio della esclusività che ammette solo due eccezioni: quella dello «ius liturgicum» (can. 2) e quella dello «ius concordatarium» (can. 3); il principio che l’interpretazione autentica compete al legislatore per cui la giurisprudenza «facit ius (tantum) inter partes» (can. 17).
Un codice quello del 1917 che, al pari dei codici civili, riesce ad esprimere l’identità di un modello teologico e sociale ben preciso, quello di una Chiesa definita (anche se non ufficialmente dal codice stesso) come «societas perfecta», composta da persone ineguali e gerarchicamente strutturata. Il soggetto che protagonizza la vita ecclesiale non è come nei codici civili l’individuo, detentore di ogni iniziativa, ma l’autorità, la gerarchia, identificata con la Chiesa stessa grazie allo stesso processo di personificazione con il quale la filosofia illuministica aveva identificato la società con lo Stato.
Nel contesto sociale del 1917 i fedeli sono rilevanti per la vita della Chiesa nella misura in cui usano, per la salvezza della loro anima, gli strumenti loro offerti dalla gerarchia e si conformano con obbedienza e disciplina alle iniziative della stessa.
Anche il modello associativo, apparentemente più vicino alla base popolare, rispetta questa visuale. Il can. 684 recita infatti «Fideles laude digni sunt, si sua dent nomina associationibus ab Ecclesia erectis vel saltem commendatis». Il verdetto pronunciato da U. Stutz fu inappellabile, malgrado i vari tentativi di replica: «ein fast ausnahmlos Geistlichkeitsrecht»[10].
Si è trattato inoltre della codificazione di un diritto preesistente ed antico, formulato senza procedere ad una vera e propria revisione generale dei contenuti; dettata, forse primariamente, da una esigenza pratica: quella di eliminare la «legum et constitutionum farrago» e di garantire una più sicura ed agevole conoscenza del diritto vigente[11]; ma anche da una scelta politica e ideologica: quella di recepire in un assetto costituzionale definitivo le prerogative giurisdizionali papali, ormai sottratte ad ogni possibilità di discussione pratica dal Vaticano I e quella di rivendicare sulla scena politica europea (e mondiale), sia l’autonomia scientifica, sia l’alterità sostanziale dell’ordinamento canonico rispetto agli altri ordinamenti giuridici. Con la codificazione la Chiesa ha infatti opportunamente riaffermato il principio del pluralismo giuridico in un’epoca dominata dalla ideologia hegeliana per cui lo Stato è unica ed esclusiva fonte del diritto. Seguendo la tesi di fondo del libro di Paolo Prodi[12] si può pensare che anche la codificazione è stata uno dei contributi (datato e solo di appoggio) dato dalla Chiesa, se non al formarsi, al consolidarsi del modello dello Stato moderno europeo; contributo preparato ormai senza la mediazione dello Stato pontificio.
4. Anche nell’ipotesi che dovesse esistere unanimità di consensi sull’utilità dell’operazione legislativa del 1917, non sarebbe ancora sufficiente appoggiarvisi per giustificare la sua ripetizione. E ciò a soli 65 anni di distanza, anche se tale periodo ha segnato un’accelerazione storica ed ecclesiale incomparabilmente più densa di avvenimenti dei quattro secoli trascorsi dopo il Concilio di Trento.
Molteplici sono infatti le ragioni che avrebbero potuto sconsigliare di procedere ad una nuova codificazione.
a) Il venir meno delle ragioni di ordine pratico, che avevano avuto grande peso sulla codificazione del 1917, in seguito all’uso ormai invalso, ovunque nell’ambito statuale, ma già anche in qualche diocesi, di garantire la reperibilità e la rapida consultazione delle norme legislative con Raccolte di Leggi a schede sostituibili.
b) La ormai non più stringente motivazione ideologica di dare al diritto canonico un assetto formale scientifico capace di sostenere il confronto con le codificazioni statuali, essendo la prova già stata fornita nel 1917 ed essendo ormai l’ideologia della codificazione a sua volta diventata obsoleta. Infatti il positivismo giuridico, che l’ha espressa, è tecnicamente naufragato sullo scoglio della complessità dei nessi sociali e la sociologia del diritto ha apparentemente spogliato la legge della sua antichissima funzione pedagogica di trasmettere con le norme anche i valori.
c) Il rischio di codificare per un periodo di tempo illimitato un diritto recentissimo, non ancora sufficientemente decantato dall’esperienza e non ancora purgato dai residui preconciliari; rischio non corso nel 1917.
d) Un modello di Chiesa ancora incerto nei suoi profili. Troppe sono le questioni fondamentali ancora aperte, e troppi sono stati gli spostamenti di rapporto e di priorità all’interno del «nexus mysteriorum», per permettere a un codice di esprimere un’identità inconfondibilmente precisa della Chiesa. Infatti, qual è l’incidenza della pneumatologia sull’ecclesiologia? In che senso il carisma appartiene all’assetto costituzionale della Chiesa pur non essendo di per sé istituzione, anche se l’istituzione può essere in possesso del carisma? Hanno i consigli evangelici carattere costituzionale pur non appartenendo alla struttura gerarchica della Chiesa, come afferma il can. 207 § 2? Bisogna riconoscere un primato sistematico al papa o al collegio episcopale? Il nuovo canone 330 è molto importante per l’economia generale della II parte del II libro, ma non risolve il problema. Esiste un primato della Chiesa universale su quella particolare, oppure sarebbe più corretto dal profilo sistematico e sostanziale prendere le mosse dalla Chiesa particolare? Quali sono i diritti che competono esclusivamente ai laici? I cann. 224-231 procedono infatti «ex abundantia cordis». Più che individuare sul piano rigorosamente giuridico i diritti e i doveri specifici esclusivi del laicato ne enfatizzano genericamente la funzione ecclesiale. Infatti della ventina di diritti e doveri formulati in questi canoni probabilmente solo pochissimi sono attribuibili ai laici, ad esclusione degli altri fedeli. La così detta definizione tipologica del laico – quella circa la sua indole secolare di cui il codice per altro non fa menzione – veicola un elemento teologico, essenziale dell’identità costituzionale del laico, oppure solo un elemento sociologico?[13]
È possibile produrre un codice che onori ancora la definizione culturale e giuridica che gli e propria, quando le sue norme non si reggono più solo sulla forza della loro imperatività intrinseca, ma ultimamente su una verità teologica che sta altrove: un codice cioè che è retto e dominato da una storia di «super-ego»: il Concilio Vaticano II? In proposito l’immagine del triangolo usata da papa Giovanni Paolo II nel discorso di presentazione del CIC il 3 febbraio, con la Scrittura in alto, da un lato gli Atti del Vaticano II e, dall’altro, il nuovo Codice di diritto canonico è estremamente significativa.
5. Malgrado queste ed altre controindicazioni la codificazione è avvenuta e quindi si è data delle ragioni. Evidentemente è possibile continuare a pensare, anche dopo la promulgazione, che la codificazione non sia stata opportuna, in attesa che l’esperienza dei prossimi anni dia indicazioni risolutive in merito. Quello che importa però, oggi, è capire le motivazioni oggettive sulle quali si regge il codice in quanto tale, senza scadere al livello delle illazioni politiche o a quello del processo alle intenzioni del legislatore. Le motivazioni principali mi sembrano essere due.
Da una parte quella di riproporre l’operazione di sistemazione giuridica, che nel 1917 era stata mutuata dalle codificazioni statuali, sostituendo però al principio epistemologico e ermeneutico della ragione filosofica e giuridica quello della fede. Infatti ciò che è cambiato rispetto al 1917, per dirlo in termini di filosofia scolastica, è l’oggetto formale «quo».
La nuova codificazione non è più condotta nel segno della penetrazione razionale dell’ordinamento canonico, ma nel segno dello svolgimento istituzionale e giuridico dei contenuti della fede. Non prevale più il principio giuridico (almeno nella parte più nuova del codice), ma quello teologico.
La sostanza giuridica del CIC del 1917, legata alla teoria generale del diritto, è sopravvissuta, malgrado una ampia rielaborazione, nelle «Normae generales», nel diritto processuale e per alcuni aspetti fondamentali anche nel «De bonis Ecclesiae temporalibus». Il resto ha ricevuto un assetto teologico che rompe con la tradizione giuridica romana e germanica.
La sostituzione del principio ordinatore giuridico con quello teologico, nei tre libri centrali del Codice, è irreversibile, anche se la fragilità teologica del modulo conciliare del «tria munera» è palese[14]. La mancanza di un libro sul «De munere regendi» nel CIC denuncia infatti questa inconsistenza teorica. L’elemento decisivo non è comunque quello della qualità teologica o ecclesiologica del prodotto finale, ma il cambiamento del principio epistemologico. È di questo che la scienza canonistica dovrà tener conto per la riformulazione della sua metodologia. Dovrà imparare a elaborare una teoria generale del diritto canonico tenendo conto della coessenzialità del principio teologico[15].
Non è detto che questa evoluzione – preparata e sancita da alcuni lucidi interventi sulla teologicità del diritto canonico di papa Paolo VI[16] – non sarebbe avvenuta se invece del CIC fossero state promulgate solo leggi separate o settoriali, ma si può pensare che senza il codice la necessità di questa rigenerazione metodologica non sarebbe apparsa con la stessa palmare evidenza e, soprattutto, con la stessa pretesa di globalità. All’interno del codice, infatti, essa investe anche quei libri, come il I il V e il VII, che, separati, avrebbero potuto invece sfuggire alla globalità della impostazione. Tutto il sistema canonico in quanto tale è investito da questa evoluzione teologica e metodologica proprio in forza del fatto che un codice per definizione postula omogeneità al suo interno.
La seconda motivazione che, almeno «post factum», giustifica la codificazione (quasi totale) del sistema è il cambiamento di identità del soggetto protagonista del codice. Al clero è stato sostituito il fedele. Anche questo cambiamento è così centrale da investire tutto l’ordinamento, perché emerge (anche qui non importa sapere da subito se più bene che male) in tutte le norme portanti del codice.
Il principio dell’autorità, attorno al quale, come abbiamo visto, è stato organizzato tutto il codice del 1917 (benché emerga ancora spesso disorganicamente, soprattutto nel contesto della dottrina sulla Chiesa universale) non può più essere considerato come il criterio monopolizzante. L’autorità è considerata, sulla falsariga del testo della LG 23 (inspiegabilmente non ripreso dal codice), più come «principium et fundamentum “unitatis” Ecclesiae» (di quella universale e particolare) che come principio e fondamento della Chiesa «tout court». L’autorità è in funzione dell’“unità” dei fedeli, diventati al suo posto i veri protagonisti della Chiesa. La figura teologica e giuridica polivalente del fedele trascende sia la figura del laico, sia quella del chierico, sia quella del “religioso”, senza mai identificarsi con nessuno del tre stati. Essa impedisce alla codificazione di erigere uno dei tre stati a soggetto egemone di tutto il sistema.
Al “principio dell’autorità” del vecchio codice è stato sostituito il principio della diversa distribuzione dei ruoli. In questo senso si può affermare che il nuovo codice è diventato un «ordo Ecclesiae». In ogni caso che questo possa essere l’esito futuro ancora più chiaro della legislazione canonica lo fa presentire anche il carattere sempre meno apodittico delle norme, soprattutto di quelle dei tre libri centrali del CIC.
Il principio epistemologico della fede e i contenuti materiali di una grande parte della nuova normativa, bene o male ricavati dal Vaticano II, hanno svolto la funzione di un nuovo gene che, innestato sul tronco comune alle codificazioni ottocentesche e al codice canonico del 1917, ha cambiato nella sua specie la codificazione stessa. Anche il fedele che, almeno tendenzialmente, ha sostituito la gerarchia come protagonista del nuovo ordinamento canonico, non ha più nulla in comune con l’uomo della società borghese, individualisticamente proteso a realizzare se stesso avvalendosi del principio della libera concorrenza e della legge del più forte. È piuttosto il soggetto di cui il can. 209, § 1 fissa come primo dovere, non solo morale ma anche giuridico, quello di vivere nel suo comportamento esteriore e interiore la comunione con tutta la Chiesa, cioè con tutti gli altri fedeli[17].
Già Suarez aveva individuato nel fatto di poter esigere dai sudditi un atteggiamento anche interiore l’elemento di differenziazione tra il legislatore canonico e quello secolare[18]. Con il can. 209, § 1 il principio della interiorità della norma canonica – nel solco della tradizione veterotestamentaria enucleatasi nel IX e X comandamento – cessa di essere marginale, per diventare strutturale[19]. Il principio della comunione, che ha “valenza costituzionale” quando determina il rapporto, vuoi tra le diverse Chiese, cattolica, separate e comunità ecclesiali, in seno all’unica Chiesa di Cristo, vuoi tra la Chiesa universale e particolare («in quibus et ex quibus unica ecclesia Christi exsistit» can. 368), vuoi tra il capo del collegio, il papa, e i membri del collegio episcopale (can. 333, § 2 e can. 336), vuoi tra vescovo e gli altri membri del presbiterio (cann. 369 e 384); oppure quando determina la posizione di tutti i fedeli nella Chiesa universale e particolare (can. 209) e la loro partecipazione alle strutture sinodali (per esempio can. 512, § 1), assume una valenza anche “antropologica”: diventa il criterio di appartenenza alla Chiesa cattolica di tutti i fedeli (can. 205), così come di appartenenza alla struttura gerarchica della stessa dei ministri ordinati (cann. 336, 375, § 2 e can. 757)[20]. Queste considerazioni convergono nella conclusione che il nuovo codice, per lo meno nel suo nocciolo centrale, più che un codice che impone una normativa fondata su una imperatività giuridica di natura volontaristica, è un «ordo» che regola la funzione e l’esercizio dei ruoli all’interno della Chiesa sulla base di una oggettività intrinseca alla natura costituzionale della Chiesa.
2. I presupposti culturali del Codex Juris Canonici
1. Alcune parti o interi libri dello stesso, per contro, sono rimasti fondamentalmente determinati dalla concezione culturale e giuridica perenta della codificazione precedente. In effetti in tutto il libro I, ma occasionalmente anche in altri libri[21], il soggetto cristiano operante nella Chiesa non e definito come «fidelis», cioè a partire dalla sua identità ecclesiologica, bensì con la categoria giuridica di «persona physica», il cui sapore romanistico è inconfondibile. È sintomatico il fatto che il termine «fidelis» ricorre nelle «Normae generales» in pochi canoni[22] di cui alcuni hanno carattere spiccatamente teologico[23]. Il principio giuridico è prevalso senza necessità su quello teologico, in nome di una tradizione culturale propria più della cristianità che della Chiesa.
Se è vero che con il battesimo un uomo diventa «persona in Ecclesia», in quanto diventa soggetto di diritti e di doveri, è altrettanto vero che questa persona è il fedele. Il termine di “persona fisica” è privo di quella valenza teologica che il termine “fedele” assume nei confronti dei tre stati: laicale, sacerdotale e dei consigli evangelici.
2. Una seconda impostazione culturale perenta è quella che emerge negli enunciati fondamentali del libro V sui beni temporali. L’asse portante di tutto il sistema è il canone 1254 che proclama il diritto della Chiesa di possedere, indipendentemente dal potere civile, i beni patrimoniali necessari al raggiungimento dei suoi fini, elencati nel can. 1245, § 2. Da questo diritto primario deriva l’enunciato del can. 1260 in cui si riconosce alla Chiesa il diritto di esigere dai fedeli i contributi necessari al raggiungimento dei propri fini. É vero che il codice attuale esplicita anche il dovere fondamentale dei fedeli (solo implicitamente contenuto nel vecchio codice) di contribuire alla realizzazione dei fini della Chiesa[24], tuttavia questa modifica non corregge in profondità l’impianto soggiacente all’ordinamento.
Quest’ultimo non è costruito a partire dal principio della comunione, che i fedeli sono tenuti a praticare, almeno in una certa misura, anche a livello di beni materiali, ma a partire da un obbligo che, non essendo dal nuovo CIC fondato esplicitamente dal profilo dottrinale, appare come meramente funzionale e quasi estrinseco alla dinamica ecclesiae. In effetti, il soggetto patrimoniale attivo del codice, più che i fedeli in quanto tali, è la Chiesa, intesa ipostaticamente come persona giuridica pubblica. I parametri giusnaturalistici statuali, filtrati attraverso l’ideologia dello «ius publicum ecclesiasticum» sono ancora evidenti. La Chiesa è vista implicitamente come società perfetta e necessaria in cui esiste un’organizzazione del potere incaricata di realizzare in proprio compiti che i fedeli devono sostenere senza esserne i protagonisti.
Questa immagine di Chiesa come «societas perfecta» induce a concepire il rapporto Chiesa-fedeli con gli stessi parametri fiscali del rapporto Stato-cittadini, che la filosofia politica del contratto sociale ha regolato mediante la teoria dell’equivalenza (secondo cui le imposte non sarebbero altro che la contro-prestazione di servizi pubblici) e la filosofia neoscolastica, rifacendosi a quella greca, ha regolato partendo dall’idea che la Chiesa è una «societas necessaria» in cui i fedeli sono membri obbligati; La Chiesa, parallelamente allo Stato, è legittimata ad esigere contributi, ed eventualmente vere e proprie imposte, in forza del fatto che per sua stessa definizione deve realizzare compiti comuni.
In realtà il soggetto di questi compiti non è la Gerarchia in quanto tale, ma sono tutti i fedeli, cioè il Popolo di Dio, cui appartiene anche la Gerarchia. Evitando l’identificazione tra Gerarchia e Chiesa, sarebbe stato possibile far emergere meglio l’idea che i fedeli non hanno l’obbligo di versare contributi, come i cittadini in uno Stato, per permettere ad un soggetto giuridico, diverso da loro (anche se li rappresenta), di realizzare compiti che apparentemente superano la possibilità dei singoli, ma hanno piuttosto l’obbligo di concepire in modo diverso l’uso della proprietà privata.
Tutta la dottrina del rapporto patrimoniale poteva essere elaborata globalmente a partire dal principio della comunione. Il canone 1259, in cui si afferma che la Chiesa può acquistare beni patrimoniali avvalendosi, non solo di tutti i mezzi giusti, del diritto naturale e del diritto positivo, ma addirittura di tutti quelli «quibus aliis licet», lascia invece intravvedere una posizione prevalentemente apologetica ultimamente acritica, oltre tutto, nei confronti dei sistemi economici e finanziari del neocapitalismo liberale o di quello di Stato[25].
3. Anche i cann. 1400 e 1401 tradiscono il fatto che l’impostazione culturale di fondo del Libro VII è stata ripresa dal vecchio CIC, senza tener conto del nuovo contesto culturale ed ecclesiologico in cui vive la Chiesa di oggi.
L’estrazione romanistica del can. 1400, § 1, n. 1, in cui, seguendo le «Normae generales», si definisce il soggetto – che secondo il can. 11 dovrebbe essere il «baptizatus catholicus» – come persona fisica, è evidente. Affermare che l’oggetto della giurisdizione ecclesiastica sono le persone fisiche, significa ricollocare il diritto canonico dentro la scia culturale del regime di cristianità, nel quale la Chiesa ha potuto legittimamente porsi come legislatore e giudice di tutti gli uomini. Ciò vale anche malgrado le riserve interpretative di natura strettamente giuridica, di cui bisogna tener conto nella lettura del testo, e derivanti dal fatto che il codice è solo il codice della Chiesa latina.
È vero che la Chiesa è competente, sia per annunciare il Vangelo a tutti gli uomini, che per formulare principi morali di ordine sociale, oltre che per «ferre iudicium de quibuslibet rebus humanis quatenus personae humanae iura fundamentalia et animarum salus id exigat», come recita il can. 747, § 2, tuttavia, non è detto che da queste competenze essa possa derivare un potere, fosse pure solo indiretto, giuridicamente vincolante anche sui non credenti[26].
4. Lo stesso discorso vale per il numero 1 del can. 1401 in cui si ribadisce il diritto proprio ed esclusivo della Chiesa di giudicare le cause «quae respiciunt res spirituales et spiritualibus adnexas». Le categorie «res spitituales et spiritualibus adnexae» sono state riprese dal codice del 1917 (il can. 727, § 1 ne definiva il significato: sacramenti, «potestas», indulgenze da una parte, e benefici dall’altra) senza tener conto che esse sono scomparse dal nuovo codice grazie ad una precisa scelta teologica e legislativa, in forza della quale i sacramenti non sono più definiti come «res spirituales» e i benefici sono stati praticamente eliminati dal diritto universale. Le categorie del vecchio codice finiscono così per assumere nel nuovo CIC una valenza filosofica e un significato giuridico più vago e nello stesso tempo più ampio. Esse sembrano quasi insinuare che la Chiesa rivendichi una competenza per giudicare su tutte le «res spirituales» perciò anche su quelle che dal profilo della filosofia del diritto potrebbero essere appartenenti ad altre religioni[27].
5. Concludendo questa parte del discorso sui presupposti culturali si può ancora notare che l’ideologia dell’IPE, di estrazione giusnaturalistica[28], emerge in parecchi altri canoni del nuovo CIC, soprattutto laddove ricorre la formula «nativum est ius Ecclesiae». Mi limito ad un solo esempio, quello del can. 1311, dove si afferma «Nativum et proprium est ius Ecclesiae delinquentes poenalibus sanctionibus coercere». Ci si può chiedere a chi sia rivolta questa rivendicazione in una situazione culturale in cui il principio della libertà di coscienza è universalmente riconosciuto come fondamento storico e istituzionale del processo di secolarizzazione dello Stato. Situazione in cui, di fatto, la giurisdizione ecclesiastica è già stata praticamente abolita da tutti gli ordinamenti giuridici di natura non teocratica[29] e, dove ancora non lo fosse è destinata a scomparire, senza che la Chiesa possa impedirlo.
Nella situazione culturale moderna, il rapporto tra Chiesa e Stato, più che a partire dai due vertici istituzionali, deve essere impostato dal diritto dell’uomo alla libertà di coscienza. La «libertas Ecclesiae» deve trovare in esso, più che nella affermazione di poteri istituzionali della Chiesa, paralleli a quelli dello Stato, il suo punto genetico, come del resto ha invitato a fare la «Gaudium et Spes»[30].
3. I presupposti ecclesiologici del Codex Juris Canonici
Il discorso sulla ecclesiologia sottesa al CIC sarebbe molto vasto. In questa sede ci si limiterà a toccare solo alcuni problemi, guardando il codice attraverso due lenti diverse, quella del Vaticano II e quella dell’ecclesiologia più recente, nel tentativo di scoprirne pregi e difetti, lasciando però al lettore di indovinare di volta in volta da quale lente l’immagine sia ingrandita.
1. Nel codice si possono facilmente identificare i tre livelli conciliari fondamentali della comunione[31], la «communio fidelium» che emerge con straordinaria lucidità nell’obbligo primario del fedele di vivere nella comunione con la Chiesa (can. 209) cui è già stato fatto cenno; la «communio hierarchica», e la «communio ecclesiarum».
L’eliminazione dal can. 205 dell’inciso «Spiritum Christi habentes» («Lumen Gentium» 14,2) come quarto criterio di appartenenza alla «plena communio» oppure anche solo come modalità salvifica di appartenenza alla Chiesa è in un certo senso sorprendente[32]. Lo è sia perché l’inciso in quanto tale è parte integrante del testo conciliare, e perciò punto di riferimento interpretativo, sia perché anche nell’ipotesi che il legislatore abbia voluto dare (ma non sembra il caso) una interpretazione autentica della LG (14,2), la rilevanza giuridica della Grazia in ordine alla «plena communio», riemerge con tutta la forza dell’evidenza nel can. 915 dello stesso codice, in cui si esclude dalla comunione eucaristica «qui in manifesto gravi peccato obstinate perseverant» e ancora nel can. 916, in cui si fa obbligo al fedele di astenersi dalla celebrazione eucaristica o dalla comunione quando fosse conscio di essere in una situazione di peccato grave e di non avere una ragione grave di accedervi senza aver avuto l’opportunità di confessarsi. In tutti e due i casi è evidente che il non possesso della Grazia («Spiritum Christi habentes») incide sull’esercizio dei diritti del cristiano, esercizio che, secondo il can. 96 (che ha ripreso non senza titubanze il vecchio can. 87)[33], sta in rapporto di dipendenza diretta con il fatto di essere o non essere nella pienezza della comunione della Chiesa di Cristo.
Questa riduzione dei criteri di appartenenza dei fedeli alla «communio plena» della Chiesa ai tre elementi classici della tradizione bellarminiana («vincula fidei, sacramentorum et ecclesiastici regiminis»), tradisce la presenza di un’anima positivista, sopravvissuta nel CIC accanto a quella più conciliare di squisita impronta teologica, anche in altri settori come quello della normativa sul potere ecclesiastico, dove è avvenuta addirittura una certa regressione rispetto al CIC 1917[34].
È evidente che i «tria vincula » offrono un criterio giuridico più sicuro per giudicare in foro esterno sulla appartenenza alla a communio ecclesiastica, ma dal momento che il non possesso della Grazia può invocare nell’ordinamento canonico – in opposizione al principio romanistico «de internis non iudicat praetor»,[35] – una limitazione dell’esercizio dei diritti soggettivi, la conservazione dell’inciso «Spiritum Christi habentes» sarebbe stato un segno di coraggiosa coerenza con una ecclesiologia che non può più appoggiarsi solo sul modello meramente istituzionale della «societas perfecta».
Per quanto riguarda la «communio Ecclesiarum» si deve constatare l’assenza di un discorso «in recto» sulla Chiesa universale e di conseguenza il collocamento del papato e del collegio episcopale fuori dal loro contesto ecclesiologico connaturale. A differenza di quanto è avvenuto per i vescovi e i parroci, di cui il codice tratta dopo aver definito la Chiesa particolare e la parrocchia, l’ufficio papale e quello del collegio dei vescovi sono affrontati, seguendo l’ottica del codice 1917 in una prospettiva non costituzionale ma personale.
2. Oltre che nelle difficoltà dottrinali e psicologiche del passato questa carenza ha origine nel fatto che l’ecclesiologia non è ancora riuscita ad elaborare una chiara articolazione tra l’unica Chiesa di Cristo (che pure assume un ruolo determinante nel codice in riferimento alla normativa ecumenica) da una parte, e la Chiesa universale e particolare, dall’altra.
Avviene inoltre, nel Concilio come nel codice, una identificazione quasi costante fra la Chiesa cattolica (romana) e la Chiesa universale. Probabilmente si tratta di una «impasse» teoretica di cui la prova è anche il fatto che la formula ecclesiologica più importante del Concilio, quella del «in quibus et ex quibus» della LG 23,1 è stata usata dal codice nel contesto della Chiesa particolare, mentre il Concilio l’aveva usata in un contesto comprensivo anche della Chiesa universale.
La radice del problema sta nell’assenza di una risposta conseguente: l’universale ed il particolare connotano l’esistenza di due realtà materiali ecclesiali diverse che si compenetrano – la Chiesa universale che si realizza nelle e dalle Chiese particolari – (soluzione posta coscientemente o incoscientemente dal Concilio), oppure devono essere considerate più propriamente come due dimensioni, per altro necessarie, dell’unica Chiesa di Cristo?[36]
Sia l’unilateralità dell’ecclesiologia della Chiesa universale sia quella della Chiesa particolare hanno largamente mostrato i loro limiti[37]. Dal profilo teorico esiste probabilmente un solo approccio ecclesiologico corretto: quello dell’ecclesiologia che ha come punto genetico unitario l’unica Chiesa di Cristo, che si realizza secondo la prospettiva dialettica universale-particolare e, dal profilo ecumenico (ma non solo), secondo diversi gradi di comunione. L’unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica in forza del fatto che in essa, per definizione se non sempre storicamente, l’immanenza tra l’universale e il particolare è così perfetta da realizzare la «communio plena». In questa prospettiva la tesi di chi ha sostenuto che il discorso sulla Chiesa universale, a differenza di quello sulla Chiesa particolare, non appartiene al codice, ma ad una eventuale LEF, risulta speciosa.
3. Un altro elemento da sottolineare è la mancanza di una chiara trattazione, dal profilo sistematico, della bipolarità sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, anche se bisogna riconoscere che la presenza dei termini generali di tale dottrina ha permesso, comunque, come abbiamo già notato, di fare emergere globalmente la figura giuridica del fedele come soggetto, almeno tendenzialmente principale, di tutta la nuova normativa. Una chiara evidenziazione del sacerdozio comune, menzionato invece solo di striscio dal can. 836, avrebbe evitato di collocare ancora troppo spesso i laici in coda alla fila dei fedeli e in posizione di riserva in attesa di assumere le proprie responsabilità ecclesiali. Questa impressione che ricorre in parecchi canoni, vedi il caso del lettorato ed accolitato (can. 230, § 3), quello del ministero della S. Comunione (can. 910, § 2), diventa evidenza nei canoni introduttivi ai libri sul «De Munere sanctificandi» (cann. 835 e 836) ma soprattutto «docendi», dove il can. 750 sorvola sul «sensus fidelium» senza affrontare con maggiore coraggio il problema del suo ruolo “dialettico”, nei confronti del magistero.
Una assunzione piena della dialettica tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, così chiaramente enunciata nella prima frase dall’art. 10 della LG, e di conseguenza anche tra il «sensus fidelium» e il magistero, sarebbe evidentemente sfociata in una diversa elaborazione sistematica di questi e altri settori del codice.
4. Una delle conseguenze di questo mancato affronto dei problemi è stata l’incapacità di rispettare anche formalmente la sistematica conciliare dei «tria munera». Anche in questo settore la ragione profonda va ben oltre quella delle difficoltà tecnico-sistematiche. È come se analogamente a quanto è avvenuto per il sacerdozio comune e il «sensus fidelium», anche la partecipazione al «munus regendi» del fedele non fosse stata totalmente valutata nella sua essenzialità ecclesiologica; in ogni caso, meno di quanto sia avvenuto per i «munera docendi et sanctificandi».
Il «munus regendi» dei laici assume a tratti, più che una valenza coessenziale a quella del sacerdozio ministeriale, una funzione estrinseca: quella di definirsi come collaborazione all’esercizio delle responsabilità proprie della gerarchia.
Non mancano certo istituti e norme che lasciano trasparire una vera e propria coessenzialità, tuttavia la smarginatura verso la non essenzialità può essere intravista come sintomo per es. nella non obbligatorietà dei consigli pastorali diocesani e parrocchiali, che pure rappresentano l’ambito più accessibile e concreto per un esercizio generalizzato ed efficace del «munus regendi» dei laici. La loro obbligatorietà non è postulata solo dalla necessità di creare, con totale coerenza giuridica, strumenti adeguati per la realizzazione dei diritti formulati dai cann. 216 e 228 (coerenza che può essere sacrificata – come è avvenuto – in nome di ragioni più o meno valide di politica legislativa generale), ma soprattutto dall’imperativo di riconoscere senza tergiversazioni al «munus regendi» dei laici la stessa importanza teologica e costituzionale concreta degli altri due «munera»[38].
Anche la rinuncia a inserire nel codice un libro sul «De munere regendi» tradisce l’imbarazzo di dover riconoscere allo stesso una concretizzazione istituzionale pari a quella concessa agli altri due «munera». La conseguenza è per esempio il fatto che manca nel CIC un canone che ribadisca contestualmente (non solo in modo programmaticamente dottrinale come nel can. 204, § 1), finalizzandolo ad una normativa specifica, il principio della partecipazione dei laici al «munus regendi», come avviene per gli altri «munera». La mancanza di un canone dove la coessenzialità del «munus regendi» dei laici rispetto a quello dei ministri ordinati venga espressa con la stessa determinazione riscontrabile nei can. 759 (per il «munus docendi») e nel can. 835,§ 4 (per il «munus sanctificandi») non sembra essere solo casuale. Il fatto che la normativa sul «munus regendi», sia praticamente sequestrata dalla II parte del II libo provoca una sottile «reductio ad unum» in favore dei ministri ordinati, cioè dei vescovi (can. 375, § 1) e dei parroci (can. 519), gli unici di cui il «munus regendi» è menzionato esplicitamente[39].
Due ultimi punti nodali dell’ecclesiologia del CIC sembrano particolarmente delicati.
5. Anzitutto il sostanziale non riconoscimento del carisma come terzo elemento fondamentale (accanto alla Parola e al Sacramento) del tessuto costituzionale della Chiesa[40]. Il termine «carisma» è stato inesorabilmente stralciato dal progetto 1982 dove ricorreva ancora 7 volte; troppe se si considera che esso era sorprendentemente usato solo a proposito degli Istituti di vita consacrata[41]. Anche se è vero che il concetto ricorre con termini equivalenti, come quello di «dona» e «donationes Spiritus Sancti», (per esempio can. 605) l’imbarazzo del codice di fronte alla realtà del carisma è evidente.
Il Vaticano II ha usato con grande ricchezza e libertà il concetto «carisma» , in una ventina di contesti diversi, ma, contrariamente al progetto del CIC, senza mai riferirsi ai “religiosi” in quanto tali. Benché non abbia di per sé valenza istituzionale, ma sia dono gratuito (anche se costante) concesso dallo Spirito ai due poli fondamentali della istituzione, il sacerdozio comune e quello ministeriale, il carisma è un elemento essenziale della costituzione della Chiesa[42].
La possibilità di distinguere tra istituzione e costituzione mostra che il termine “costituzione” non può essere usato in modo univoco nell’ordinamento canonico e in quelli statuali, dove la costituzione non e scindibile dalla istituzione. Malgrado la sua natura non istituzionale il carisma ha tuttavia una precisa valenza giuridica. Basterebbero due soli testi del Vaticano II per provarlo: quello della LG 12,2, dove si domanda ai carismi di sottomettersi al giudizio dei pastori e si fa nello stesso tempo obbligo ai pastori di non estinguere i doni dello Spirito; e quello del decreto AdG 28,1 in cui il carisma è individuato come fondamento del dovere-diritto di lavorare alla diffusione del vangelo. Questo testo è particolarmente importante perché è uno dei pochi testi in cui il Concilio menziona i diritti e i doveri dei fedeli in quanto tali[43].
6. Queste osservazioni mostrano che il CIC, malgrado la relativa abbondanza di testi in cui si tiene conto della missione dello Spirito Santo, manca di una vera e propria pneumatologia, dimensione da cui anche l’ecclesiologia di impronta istituzionale non può più prescindere.
Attenua questo giudizio il fatto che gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, in cui si struttura giuridicamente lo stato dei consigli evangelici, non siano più stati relegati tra le semplici associazioni, come era avvenuto fino al progetto del 1980 e come avrebbe potuto ancora indurre a fare il dettato dottrinale dell’attuale can. 298, dettato che a rigore avrebbe dovuto essere corretto dopo lo spostamento sistematico avvenuto nel progetto CIC 1982[44]. Questa accentuazione del carattere costituzionale dello stato dei consigli evangelici rispetto a quello associativo è avvenuta in omaggio al Vaticano II (ripreso nel can. 207, § 2) che, pur avendo evitato di risolvere l’annosa «quaestio disputata» circa l’origine dei consigli nel «ius divinum»[45], ha voluto rafforzare lo spessore ecclesiologico dichiarandoli appartenenti alla “vita e alla santità della Chiesa”. In effetti una semplice associazione non crea uno «status vitae» ma al contrario è uno «status vitae», come quello dei consigli evangelici, che postula un’organizzazione giuridica, senza dire che l’esistenza dello «status consiliorum evangelicorum» nella Chiesa non dipende, come invece le associazioni, dalla libera adesione dei fedeli.
Lo scarto esistente tra il diritto delle associazioni e quello di impronta costituzionale degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica e rilevante non solo per il riconoscimento almeno implicito della valenza costituzionale dei carismi, di cui questi Istituti e Società sono una delle espressioni, ma anche perché sottrae il discorso alla dialettica costituzionale bipolare, diventata ormai monotona nella sua esclusività, del rapporto laici-chierici. L’accentuazione costituzionale dei consigli evangelici permette di sviluppare una dialettica triangolare o circolare tra tutti e tre gli stati di vita nella Chiesa, così da espropriare la gerarchia della prerogativa di essere l’unico punto di riferimento per misurare il valore e il peso specifico ecclesiale degli altri stati.
7. Il timore di svuotare l’ordinamento giuridico del suo contenuto specificatamente giuridico, che ha fatto evitare, senza ragioni molto plausibili di cogliere in profondità gli elementi spirituali soggiacenti con l’istituzione, non è emerso solo a proposito dei carismi e dei criteri di appartenenza alla Chiesa, ma anche a proposito della valenza sistematica e sostanziale data alla Parola e al Sacramento. L’esame di quest’ultima questione permette di andare fino alla radice dei presupposti ecclesiologici soggiacenti al nuovo CIC.
Il codice ha senza dubbio recepito due degli elementi fondamentali dell’ecclesiologia del Vaticano II: quello della collegialità e quello della Chiesa particolare. La critica fatta agli ispiratori di questo tipo di ecclesiologia, a Karl Rahner in particolare e perciò al Vaticano II, vale anche per il nuovo CIC: è quella di essere una ecclesiologia che pecca di eccessiva sistematicità a scapito della storicità, e di pragmatismo[46]. Mentre si può ritenere che la sistematicità sia un requisito irrinunciabile della normativa giuridica, per la quale la dimensione storica non è imprescindibilmente esigibile anche se essa emerge nei criteri stabiliti da ogni codice per l’uso del diritto precedente[47], la critica di pragmatismo non può essere trascurata.
Pragmatismo perché si tratta di una ecclesiologia che, sulla scia della riflessione teologica latina e in particolare di quella posteriore al Tridentino, si concentra con predilezione sull’organizzazione istituzionale della Chiesa, lasciando implicito il fatto che all’origine della stessa esistono elementi di natura costituzionale previ, come il carisma, la Parola e il Sacramento.
Si tratta di un modello ecclesiologico che dà la priorità al problema tradizionalmente dominante del rapporto Papa-Collegio dei Vescovi-Chiesa universale e, derivatamente a quello vescovo-clero-Chiesa particolare. Questi elementi trovano la loro ulteriore articolazione, da una parte negli istituti del Concilio ecumenico, del Collegio dei Cardinali, del Sinodo dei Vescovi e, dall’altra, dei Metropoliti, dei Concili particolari, delle Conferenze Episcopali, dei Parroci, del Sinodo diocesano, del Consiglio presbiterale e dei Consigli pastorali diocesani e parrocchiali.
È un affronto dottrinale che privilegia gli elementi derivati a scapito di quelli primariamente costitutivi e che non dà le ragioni ultime delle strutture giuridiche.
Il limite di una simile impostazione è già stato messo in evidenza prima mediante l’analisi della dottrina sul carisma.
Per quanto riguarda la Parola e il Sacramento la verifica di questo scompenso potrebbe essere fatta ipotizzando di sostituire i titoli del III e IV libro del CIC («De munere docendi» e «De munere sanctificandi») rispettivamente con il titolo «De Verbo Dei» e «De Sacramentis». La disarmonia risulterebbe allora in tutta la sua evidenza anche dal profilo sistematico. Infatti la Parola e il Sacramento, che (assieme al carisma anche se con valore teologico e giuridico diverso) sono gli elementi costitutivi su cui si ancora la costituzione della Chiesa, apparirebbero nel nuovo CIC in modo disarmante, come elementi derivati e non genetici del «De populo Dei» (II libro) in cui il contenuto il nocciolo della costituzione della Chiesa, così come il nuovo CIC l’ha prospettata[48].
Bisogna prendere atto comunque del fatto che, a volte, i Sacramenti sono collocati dal CIC in un contesto sistematico che mette in luce la loro funzione genetica, cioè come elementi fondanti una normativa specifica: così il battesimo nel can. 96, prima del discorso sulle persone fisiche, e nel can. 204 prima del discorso sui fedeli (dove manca però ogni accenno alla cresima). Il discorso sullo stato del chierico invece é è avulso dal contesto sacramentale dell’ordine sacro e quello sulla Chiesa universale e particolare è senza nesso immediato con l’Eucarestia; anche la famiglia non appare contestualmente come esito del Sacramento del matrimonio.
È vero anche che i canoni introduttivi sull’Eucarestia e sulla Penitenza sono ricchi di rilevanza ecclesiologica esplicita, tuttavia è sintomatico che un testo così dinamico come quello della LG 26,1 in cui si afferma che: “In tutte le comunità che partecipano all’altare… sebbene spesso piccole, povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa, una santa cattolica e apostolica…”, non sia stato recepito dal codice, in cui la comunità eucaristica è come sopraffatta da quella teologicamente non necessaria, ma amministrativamente più funzionale, della parrocchia.
Era troppo domandare tutto questo dal nuovo codice? Forse. Sarebbe stato senza dubbio troppo se l’immagine del codice fosse rimasta immutata rispetto a quella del 1917 e non fosse già stata in parte sostituita da quella, propria a un «Ordo Ecclesiae», comunque vincente in prospettiva futura.
[1] L’età della decodificazione, Milano 1979.
[2] Contro la tesi di Irti, condivisa da P. Schlesinger, F. Piga e F. Giorgianni, polemizza R. Sacco, La codification, forme dépassée de législation? in Rapports nationaux italiens au XIè Congrès National de Droit Comparé, Caracas 1982, Milano 1982, pp. 65-81.Il fatto che dal 1948 al 1981 siano stati promulgati in tutto il mondo ben 37 (o 40) nuovi codici ed altri 7 siano in preparazione, contro il centinaio apparsi prima della seconda guerra mondiale, potrebbe apparire come una prova schiacciante dell’attualità delle codificazioni. Bisogna però tener conto del fatto che dei 47 codici promulgati (o in via di eventuale promulgazione) 38, cioè i 2/3, appartengono alle aree giuridiche dell’Unione Sovietica (16), degli altri paesi socialisti (13) e del mondo arabo-mussulmano (9). Degli altri 9 esempi, di cui 4 vengono dall’America Latina e 1 dalla Louisiana, solo le codificazioni in Grecia, in Portogallo e quelle in preparazione nei Paesi Bassi e nel Quebec sembrano essere particolarmente omogenee al mondo culturale europeo, cui Irti fa primariamente riferimento. Comunque si voglia valutare il fenomeno, la sola possibilità perché la discussione in corso possa approdare a risultati oggettivamente validi dipenderà dalla capacità degli interlocutori di identificare uno «status quaestionis» comune.
[3] Per l’analisi di questa crisi e le sue conseguenze sulla codificazione italiana in particolare cfr. N. Irti, op. cit., specialmente le pp. 3-13.
[4] A rigore, più che di Chiesa latina bisognerebbe parlare di Chiesa cattolica non solo perché è in atto un secondo tentativo di codificazione del diritto orientale, ma forse soprattutto perché la spinta in favore della codificazione non è mancata neppure da parte di quelle Chiese particolari, non escluse quelle dell’America Latina, che, pur conservando il rito romano, sempre meno possono essere identificate con le Chiese particolari dell’area latina tradizionale.
[5] Cfr. E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società. Aspetti metodologici della questione. Si tratta della relazione conclusiva ai lavori del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico tenuto a Friburgo del 6 all’11 ottobre 1980, in Atti, a cura di E. Corecco, N. Herzog, A. Scola, Milano, 1981, specialmente le pp. 1208-1213.
[6] Cfr. per esempio Legge e Vangelo. Discussione su una legge fondamentale per la Chiesa, Brescia, 1972.
[7] Cfr. N. Irti, op. cit., pp. 13-16.
[8] Per esempio la nomina dei vescovi da parte della S. Sede (can. 377 § 1).
[9] Cfr. V. Piano Mortari, Codice. I: Premessa storica, in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1958 ss., vol. VII, pp. 228-236.
[10] Der Geist des CIC, Stuttgart, 1918, pp. 83-89.
[11] L’idea di codificare il diritto canonico era già stata ventilata al Vaticano I: cfr. G. Feliciani, Le basi del Diritto Canonico, Bologna, 1979, pp. 14-16; W. Aymans, Die Quellen des Kanonischen Rechtes in der Kodification von 1917, in Actas del III Congreso Internacional de Derecho Canonico, Pamplona, 10-15 de octubre de 1976, Pamplona, 1979, vol. I, p. 488; U. Stutz, op. cit., pp. 3-35.
[12] Il Sovrano Pontefice, Bologna, 1982.
[13] Cfr. K. Mörsdorf, Die Zusammenarbeit von Priestern und Laien in ekklesiologisch-kanonistischer Sicht, in Grundfragen der Zusammenarbeit von Priestern und Laien, Karlsruhe, 1968, pp. 13-17. Cfr. anche F. Daneels, De subiecto oficii ecclesiastici attenta doctrina Concilii Vaticani II. Sunt-ne laici oficii ecclesiastici capaces?, Roma, 1973, pp. 19-45.
[14] Cfr. K. Mörsdorf, Munus regendi et potestas iurisdictionis, in Acta Conventus Internationalis Canonistarum Romae diebus 20-25 maii 1968 celebrati, Typis Polyglottis Vaticanis, 1970, pp. 199-211.
[15] E. Corecco, Valore dell’atto contra legem, in Actas del III Congreso Internacional de Derecho Canonico, cit., vol. I, pp. 839-859.
[16] Cfr. per es. il discorso ai partecipanti al II Congresso Internazionale di Diritto Canonico del 1973 a Milano in persona e ordinamento nella Chiesa. Atti del II Congresso Internazionale di Diritto Canonico Milano, 10-16 settembre 1973, Milano, 1975, pp. 579-588.
[17] Cfr. anche il can. 210 che estende l’obbligo a tutti i fedeli (e non solo ai religiosi come il can. 593 del CIC 1917) di tendere verso la santità della vita.
[18] Tractatus de legibus ac de Deo legislatore, Napoli, 1972, libro IV, cap. XII.
[19] Cfr. A. Stiegler, Der kirchlicher Rechtsbegriff. Elemente und Phasen seiner Erkenntnisgeschichte, München-Zürich, 1956, pp. 39-50.
[20] Il CIC fa 7 riferimenti al presbiterio, ma purtroppo non affronta mai «in recto» il soggetto. Ciò spiega perché il testo della PO 7,1 in cui appare che gli elementi qualificanti per la qualità di membro del presbiterio sono la consacrazione sacerdotale e la «communio hierarchica» con il vescovo (parallelamente a quanto si dice per il Collegio dei Vescovi nel can. 336) non è stato utilizzato.
[21] Per es. nei cann. 1226; 1400, § 1; 1405, § 3, n. 3; 1427, §3.
[22] Per es. nei cann. 23; 87, § 1; 95, § 1; 129, § 2; 199, § 7.
[25] Su tutto il problema cfr. E. Corecco, La sortie de l’Eglise puor raison fiscale. Le problème canonique, in Austritt aus der Kirche. Sortie de l’Eglise, Freiburg, i.Br., 1982, pp. 11-67.
[26] Anche volendo prescindere dal fatto che nessuno può essere costretto ad abbracciare la fede cattolica contro coscienza (can. 748, § 2), si può ritenere che né l’obbligo di cercare la verità su Dio e sulla Chiesa, né quello di abbracciare la fede (can. 748, § 1) – dal momento che quest’ultimo nasce solo dopo averla conosciuta – offrono ancora basi sufficienti per l’esercizio della «potestas iurisdictionis» nei confronti di tutte le persone fisiche, neppure facendo ricorso alla teoria della «potestas vicaria» le cui basi dottrinali sono datate.
[27] Evidentemente anche in questo caso, come per il can. 1400, § 1 sono d’obbligo riserve a livello di interpretazione rigorosamente giuridica. Esse sono imposte sia dal fatto che il CIC vale solo per la Chiesa latina, sia da quello che esso deve essere letto tenendo conto anche del «ius vetus» (can. 6, § 2). In questo contesto, comunque, il discorso interpretativo non è posto a livello tecnico-giuridico, bensì culturale.
[28] Cfr. A. De la Hera, Ch. Munier, Le droit publique ecclésiastique à travers ses définitions, in Revue de droit canonique, 14 (1964), pp. 32-63, A. De la Hera, Introducción a la ciencia del derecho canonico, Madrid, 1967; J. Listl, Kirche und Staat in der neuren katholischen Kirchenrechtsgeschichte, Berlin, 1978, pp. 4-45.
[29] Per quest’ultimi cfr. per es. S. A. Aldeeb Abu-Sahlieh, L’impact de la religion sur l’ordre iuridique: cas de l’Egipte. Non-mussulmans en pays d’Islam, Fribourg, 1979.
[30] Cfr. R. La Valle, La vita della comunità politica, in La Chiesa nel mondo di oggi, Firenze, 1966, pp. 474-502.
[31] Cfr. W. Aymans, Einführung in das neue Gesetzbuch der lateinischen Kirche, Bonn, 1983.
[32] Sulla disputa intorno alla interpretazione dell’inciso conciliare «Spiritum Christi habentes» cfr. per esempio W. Aymans, Die kanonistische Lehre der Kirchengliedschaft im Lichte des II. Vatikanischen Konzils, in Archiv für Katholisches Kirchenrecht, 142, (1973, pp. 397-417); F. Coccopalmerio, Quid significent verba “Spiritum Christi habentes” Lumen Gentium 14,2, in Periodica de re morali canonica liturgica, 68 (1979), pp. 253-276; V. De Paolis, Communio et excommunicatio, in Periodica de re morali canonica liturgica, 70 (1981), pp. 271-302; H. Müller, Zugehörigkeit zur Kirche als Problem der Neukodification des kanonische Kirchenrechts, in «Österreichisches Archiv für Kirchenrecht», 28, (1977), pp. 81-98.
[33] In effetti la rinuncia fatta dal legislatore al concetto di «obex» ha provocato nel can. 96 una distinzione non adeguata tra il fatto di non essere nella comunione ecclesiastica e l’essere colpito da una sanzione.
[34] L’accentuazione positivistica emerge nella massiccia normativa concernente la «potestas regiminis seu iurisdictionis» (cann. 129-144) dove il termine «potestas» è usato anche per le funzioni legislativa, amministrativa e giudiziaria oltre che per quella interpretativa della giurisdizione, dando così adito, in nome di un pragmatismo terminologico, all’opinione che si tratti di veri e propri poteri diversi. Il nuovo CIC non ha neppure intrapreso lo sforzo di tenere unita la «potestas ordinis» con quella «regiminis», che in definitiva sono un unico e stesso potere, tanto da rinunciare alla nozione conciliare di «sacra potestas» che aveva posto le premesse per un passo avanti nella conoscenza della natura del problema ecclesiastico, in nessun modo mutabile da quella statuale. Sul problema cfr. E. Corecco, La “sacra potestas” e i laici in «Studi Parmensi», 28 (1980) pp. 3-36, traduzione tedesca, Die “sacra potestas” und die laien, in «FZThPh», 27 (1980), pp. 120-154; cfr. anche P. Kräme, Dienst und Vollmacht in der Kirche. Eine rechtstheologische Untersuchung zur Sacra Potestas-Lehre des II Vatikanischen Konzils, Trier, 1972.
[35] Il principio è usato in questo contesto in senso più ampio di quello processuale. È tuttavia evidente che esso non è applicabile in senso assoluto neppure nel diritto processuale canonico, dal momento che il giudice penale, prima di pronunciare la sentenza deve appurare se il reo abbia commesso una colpa moralmente grave (can. 1312).
[36] Anche se il problema non è affrontato da questo particolare punto di vista il rapporto Chiesa universale-particolare è colto con penetrante lucidità ecumenica nell’articolo di J. Ratzinger, Probleme und Hoffnungen des anglikanisch-katholischen Dialogs, in «IKZ Communio», 12 (1983), pp. 244-259.
[37] Cfr. ibidem, pp. 250-252; G. Colombo, La teologia della Chiesa particolare, in La Chiesa locale, a cura di A. Tessarolo, Bologna, 1970, pp. 17-38.
[38] Se si prescinde dal can. 204, § 1, chiaro nella sua valenza dottrinale, l’istituto che forse meglio esprime l’intenzione di tradurre a livello istituzionale la volontà del legislatore di riconoscere a tutti i fedeli la possibilità di rendere operativo il loro «munus regendi» è quello dell’ufficio ecclesiastico (can. 145), definito in modo da comprendere non solo gli uffici che presuppongono il possesso della «potestas ordinis», ma, a ugual titolo, anche quelli accessibili ai fedeli non ordinati. Evidentemente l’istituto dell’ufficio ecclesiastico non esaurisce tutte le modalità secondo cui può manifestarsi il «munus regendi», sia perché molti uffici, come la maggior parte di quelli previsti nei libri III e IV (catechesi, predicazione, ministeri liturgici ecc., cfr. anche il can 230) presuppongono di per sé solo l’esercizio del «munus docendi» o di quello «sanctificandi», sia perché il «munus regendi» non è attualizzato solo all’assunzione di uffici ecclesiastici. Comunque, anche tenendo conto del fatto che la distinzione tra i «tria munera» non è adeguata, esistono uffici in cui la prevalenza del «munus regendi» è evidente, così quello del cancelliere di curia, del notaio, dell’avvocato, del giudice, dell’amministratore dei beni temporali ecc. Trattandosi dell’esercizio del «munus regendi», tuttavia, a differenza di quanto avviene per altri «munera», la preoccupazione del CIC di esigere dal laico una preparazione etico-tecnica specifica è particolarmente marcata quasi che l’esistenza e l’esercizio di questo «munus» dipendesse più da presupposti estrinseci di idoneità che dalla abilitazione sacramentale conferita dal battesimo (cfr. per esempio can. 212, § 3), e che il problema della idoneità non si ponesse con la stessa urgenza per gli altri «munera». Questa diversità di trattamento del «munus regendi» traspare sottilmente già all’inizio del CIC, nel catalogo dei doveri e dei diritti del laico. Mentre il CIC (can. 228, § 1) riconosce al laico solo una «habilitatio» ad assumere gli uffici ecclesiastici, esso, quando le norme vertono circa gli altri «munera», non esita ad attribuirgli veri e propri diritti. Oltretutto non è esatto affermare che i laici «…qui idonei reperiantur, sunt habiles ut… ad illa officia ecclesiastica assumantur… quibus fungi valent», perché la abilitazione non dipende dalla idoneità («scientia», «prudentia» ed «honestas», cfr. can. 228, § 2), ma dal battesimo. Per tutti i «munera» l’abilitazione è conferita dal battesimo. Per principio essa implica anche il dovere e il diritto di concretizzarla operativamente come partecipazione alla vita della Chiesa. Trattandosi di uffici ecclesiastici in senso tecnico questo diritto non assume però, come invece in altri casi, il profilo del diritto soggettivo, dal momento che nessun fedele può autoconferirsi un ufficio ecclesiastico.
[39] Il «munus regendi» dei ministri ordinati è menzionato anche nei cann. 255 e 1008.
[40] Cfr. G. Colombo, l.c. 30-32. Sulla necessità di riconoscere una rilevanza giuridica al carisma cfr. J. Komonchack, Die Stellung der Glaübigen im neuen Kirchenrecht, in «Concilium», 17 (1981), pp. 563-566.
[41] Progetto 1982 cann. 508; 590, § 3; 631, § 1; 708; 716; 717, § 3; 722.
[42].Cfr. E. Corecco, Profili istituzionali dei Movimenti nella Chiesa, in I Movimenti nella Chiesa negli anni ‘80, Milano, 1982, pp. 203-234.
[43] Cfr. G. Feliciani, I diritti fondamentali dei cristiani e l’esercizio dei «munera docendi et regendi», in Diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società, Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, cit., 224.
[44] Lo stesso fenomeno si è verificato nel can 207, § 1, dove malgrado lo spostamento sistematico avvenuto nel testo del progetto del 1982, in forza del quale il titolo sui doveri e diritti dei laici è stato anteposto a quello riguardante i doveri e i diritti dei chierici, il tenore del canone in questione non è stato cambiato.
[45] Cfr. H.U. von Balthasar, Christlicher Stand, Einsiedeln, 1977, pp. 225-279.
[46] Cfr. G. Colombo, l.c. 26-30.
[47] CIC 1917 can. 6, n. 2-4; CIC can. 6, § 2.
[48] Ne risulta perciò una ecclesiologia la cui opzione di base non è il principio «Ecclesia a sacramentis» ma il principio «sacramenta ab Ecclesia».
2. Aspetti della ricezione del Vaticano II nel codice di diritto canonico
L’accoglienza riservata dai commentatori al nuovo CIC, nel primo biennio, dopo la promulgazione, è stata prevalentemente positiva[1]. L’indicazione proveniente da questa constatazione rimane tuttavia ambigua, sia a motivo della diversità dei criteri di valutazione utilizzati, sia perché nei singoli autori i giudizi positivi e negativi si sovrappongono spesso senza alcuna gerarchia di valore, compensandosi reciprocamente. Alla prova dei fatti, il diffuso consenso potrebbe quindi rivelarsi non molto dissimile dalla singolare soddisfazione provata da chi crede di essere scampato a un grave pericolo.
Per quanto riguarda la questione particolare della ricezione del concilio, si deve tener conto prima di tutto del fatto che il giudizio sul CIC è legato alla interpretazione del concilio e al significato, in molti casi diverso, riconosciuto ai suoi testi. Da quest’ultimo punto di vista è fondamentale evitare ogni lettura statica dei documenti conciliari, per cercare invece di cogliere le loro tendenze profonde, prevedibilmente vincenti nel futuro, anche quando il concilio non le avesse esplicitate con tutta la chiarezza desiderabile.
Un punto di riferimento in questo tentativo, non esente da rischi, è il confronto con quanto è già avvenuto in sede di interpretazione e sviluppo dottrinale, sia ad opera del magistero universale e particolare, sia ad opera della teologia, cui la canonistica deve guardare pur avendo un potere epistemologico proprio. Per il magistero basterebbe pensare all’importanza di documenti come l’«Ecclesiam suam», la «Evangelii nuntiandi», quelli di Medellìn e Puebla, oppure alla legislazione delle chiese particolari, specialmente quella sinodale, ma il breve spazio a disposizione permette di tenerne conto solo occasionalmente in questa sede.
Anche per l’esame della ricezione del concilio nel CIC sono possibili molteplici livelli di valutazione. Ci limiteremo a due: quello epistemologico e quello della ripresa di alcuni tra i contenuti più significativi, giudicandoli dal profilo della loro ricezione sia materiale che formale[2].
1. L’Impianto epistemologico del CIC
1) Il concilio (nell’OT 16,4) ha stabilito come criterio di insegnamento del diritto canonico il riferimento al mistero della chiesa. La logica stessa del principio esige che esso venga applicato in primo luogo alla produzione della norma canonica. Di conseguenza avrebbe dovuto essere utilizzata con tutta la sua stringenza anche per la riforma del CIC.
In questo principio sono rifluite, in modo apparentemente marginale, ma con la forza universale propria ad ogni principio metodologico, le molteplici sfaccettature dell’istanza conciliare di degiuridizzazione della vita della chiesa; istanza emersa come reazione contro l’“egemonia istituzionale” in cui ha vissuto la chiesa in regime di cristianità[3] e al cui consolidamento ha contribuito in modo eminente la codificazione del 1917.
La scelta dello strumento della codificazione risulta perciò «a priori» problematica, se non addirittura inadeguata. Benché il concetto di codificazione abbia assunto storicamente forme di realizzazione diverse[4], non si può certo ignorare il fatto che esso fa metodologicamente riferimento ad una esperienza gnoseologica, quella illuminista, postasi come alternativa puramente razionale alla cultura cristiana, fondata sulla imprescindibilità del mistero per la conoscenza globale del reale e di conseguenza sulla priorità della fede rispetto alla ragione.
Lo strumento giuridico della codificazione, elaborato dalla teoria generale per conferire la qualifica della razionalità al diritto, risulta perciò più atto ad esprimere un’immagine istituzionale societaria di chiesa, su cui incombe ancora l’ombra giusnaturalistica della «societas perfecta», che ad esprimere la chiesa quale mistero sacramentale. Il problema nasce ultimamente dal fatto che la nozione filosofica di diritto, sottesa all’idea e all’esperienza codificatoria moderna, non è applicabile al diritto canonico, la cui definizione formale non può prescindere dalla sua dimensione teologica[5]. Se si accetta tutta l’imperatività immanente ad un principio metodologico, bisogna ammettere che non esiste sostanziale differenza, in ordine al rischio di stravolgere l’essenza dell’esperienza ecclesiale, tra l’applicazione del metodo dell’analisi marxista e quello del metodo dell’autonomia della ragione, propria al razionalismo liberale moderno.
Pur non avvertendone tutta la capacità espansiva, la Commissione, optando per la ricodificazione, non ha ovviamente potuto prescindere dall’indicazione metodologica dell’OT. Il risultato è stato il compromesso che riproduce nel CIC, amplificandone la divaricazione, il duplice approccio ecclesiologico già presente nel concilio: quello della «societas» e quello della «communio»[6]. Sia la nozione di diritto soggiacente al CIC, come ha fatto osservare acutamente il Sobánski[7], sia la sistematica generale, rispecchiano infatti, con palmare evidenza, il riprodursi di questo dualismo.
La ricezione nei tre libri centrali del CIC del modulo conciliare del popolo di Dio che partecipa ai tre uffici di Cristo, pur avendo rotto in modo irreversibile l’unità del principio epistemologico razionale soggiacente all’impianto sistematico romanistico del vecchio CIC, non è stato comunque in grado di provocare un affronto epistemologico di tutta la materia a partire dalla fede. Ciò è vero anche se bisogna nello stesso tempo riconoscere che con lo schema dei «tria munera» non sarebbe comunque stato possibile organizzare unitariamente, dal profilo sistematico, tutta la materia legislativa. E ciò, contrariamente a quanto si tende a far credere, non in primo luogo a causa delle comprensibili difficoltà tecniche, bensì a causa della fragilità teorica dello schema, e soprattutto del fatto che la commissione non ha dato una valutazione sufficientemente rigorosa alla coessenzialità teologica della partecipazione di tutti i fedeli al «munus regendi» rispetto agli altri due «munera».
Se la commissione non ha saputo liberarsi totalmente dallo schema giuridico precedente, è perché ha trovato nel concilio stesso lo spunto che gli permetteva di avallare un approccio della Chiesa come società e una giustificazione giusnaturalista dell’esistenza del diritto canonico. Da questo punto di vista l’equivoco si annida soprattutto nella interpretazione data a LG 8,1. L’essenza del discorso non tende ad affermare il carattere societario della chiesa (ripreso anche nel contesto, redazionalmente confuso di LG 14,2), ma piuttosto, a definire, per analogia con il mistero della incarnazione, il principio della unità indissolubile tra la dimensione invisibile e quella visibile della chiesa[8]. Che la chiesa sia anche società è dato come un presupposto, sul cui significato teologico esatto il Concilio non ha inteso prendere posizione.
L’interpretazione errata del significato profondo di LG 8,1, da tempo ormai individuata dalla dottrina[9], e l’aver disatteso l’indicazione metodologica fondamentale dell’OT, hanno avuto come conseguenza il fatto che la maggior parte dei libri del nuovo CIC non sono stati progettati all’interno di una epistemologia teologica.
2) In effetti l’adozione della tecnica delle “norme generali”, espressione più tipica del metodo della codificazione astratta, ha indotto il legislatore ad affrontare i contenuti del libro I con un criterio rigorosamente giuridico.
a) Il soggetto principale dell’ordinamento canonico, cioè il fedele, non è definito nel libro I (come nel libro VII) in base alla sua identità ecclesiologica, ma con la categoria romanistica di «persona physica», non solo insignificante dal profilo teologico, ma fuorviante, sia in se stessa, sia in ordine alla comprensione della «persona iuridica».
In se stessa, simile categoria è inadeguata perché potrebbe far credere che anche nell’ordinamento canonico la persona fisica sia preesistente alla chiesa, come la persona umana allo stato. Questo equivoco emerge, non solo ogniqualvolta nel CIC il diritto naturale sembra prevalere ancora su quello divino positivo come fonte dell’ordinamento canonico[10], ma trova ramificazioni anche quando il nuovo CIC, per definire la situazione giuridica del fedele, adotta, nella linea del codice precedente, la categoria della “competenza” invece di ricorrere a quella più conciliare della “partecipazione”[11]. Le frequenti clausole limitative presenti nei cataloghi dei doveri e diritti dei fedeli[12], più che da una semplice preoccupazione garantistica estrinseca, sembrano in effetti essere dettate dall’utilizzo, almeno sotterraneo, della categoria giuridica della “competenza”. Comunque questo approccio non sembra essere così generalizzabile, come è stato affermato[13], sia perché in alcune norme portanti l’idea di partecipazione è prevalente, sia perché nei cataloghi dei doveri-diritti dei fedeli, il CIC, contrariamente alla LEF, ha privilegiato in modo evidente il “dovere” sul “diritto”[14]. In effetti la partecipazione alla vita della chiesa è qualificabile prima di tutto come dovere, dal momento che il fedele in quanto tale non preesiste alla chiesa, ma è chiamato ad essa per vocazione divina.
La seconda difficoltà inerente alla definizione del fedele come persona fisica è l’ambiguità di significato da essa conferita, per riflesso, al concetto correlativo di persona giuridica. L’elemento che nell’ordinamento canonico distingue il fedele dalla persona giuridica, non è quello della fisicità naturale, bensì quello della sua struttura sacramentale. Stando a quanto affermano «Communicationes» (9, 1977, 240), il CIC definisce come persona morale la chiesa cattolica e la sede apostolica (can. 113 § 1) perché la loro esistenza non dipende da un atto di volontà umana, mentre qualifica come persona giuridica pubblica o privata tutte le altre realtà collettive cui l’ordinamento canonico o l’autorità competente conferiscono una soggettività giuridica. Questa distinzione non avrebbe dovuto essere ricavata dal fatto dell’erezione in quanto tale, bensì dalla natura ecclesiologica delle diverse realtà. Infatti, anche le chiese particolari, pur esistendo concretamente solo in seguito ad un atto costitutivo della santa sede (can. 373), preesistono all’ordinamento canonico in quanto realtà ecclesiologica necessaria. Se così non fosse il can. 113 § 1 insinuerebbe che solo la chiesa universale (se il termine «catholica» dovesse significare “universale”) e non quella particolare esiste «ex ordinatione divina». Se, per contro, chiesa cattolica significa chiesa di Cristo, nella sua duplice dimensione universale e particolare, allora anche la chiesa particolare dovrebbe essere definita come persona morale e non semplicemente come persona giuridica, per il solo fatto che per esistere deve essere eretta concretamente. Non è perciò esatto trattare la chiesa particolare alla stregua di tutte le altre persone giuridiche pubbliche, come avviene chiaramente nel can. 1257 § 1 (cfr. però anche il can. 1255), perché lo scarto ecclesiologico esistente tra queste diverse realtà è fondamentale.
L’idea di distinguere terminologicamente queste realtà è suggestiva, ma avrebbe dovuto essere condotta a termine con maggiore rigore ecclesiologico. Il fatto di aver definito il fedele come persona fisica ha impedito di affrontare la materia con più chiarezza, perché non ha permesso di vedere che la soggettività giuridica delle realtà ecclesiologiche necessarie (della chiesa universale e particolare, della santa sede ed eventualmente di altre realtà, come per es. del collegio dei vescovi) deriva dalla natura sacramentale delle stesse (come nel caso del fedele) e non da una costruzione giuridica artificiale come per le altre persone giuridiche pubbliche e private. Evidentemente, ciò non può far dimenticare che la soggettività morale della chiesa cattolica e della santa sede «ex institutione divina» ha un significato solo analogico rispetto alla soggettività giuridica, così come è stata elaborata dalla tradizione giuridica romana.
b) l’altro istituto canonico centrale, che in forza del suo inserimento nel libro delle norme generali subisce più ancora che nel vecchio CIC una profonda riduzione teologica, è quello della «potestas regiminis, seu iurisdictionis».
Avulso da ogni riferimento alla nozione conciliare di «sacra potestas» e lontano dal contesto costituzionale che gli sarebbe proprio, il potere di governo è trattato nelle “Norme Generali” come se fosse una realtà essenzialmente diversa rispetto al potere di ordine (can. 129 ss.). Anche in questo dualismo teologico e sistematico, su cui torneremo in seguito, affiora il fatto che il potere di governo (con le norme che ne regolano l’esercizio e la trasmissione per delega) appare ultimamente come derivato dalla struttura societaria della chiesa, per analogia con il potere giuridico statuale. Il can. 129 § 1 sottolinea la sua origine divina, ma sembra lo faccia come se si trattasse di una semplice conseguenza del fatto che la chiesa stessa, in quanto società, è di origine divina.
Disgiunto dal potere di ordine e senza rapporto con la «sacra potestas», il potere di giurisdizione, così. come è trattato nel titolo VIII del libro II, non è in grado di mettere in evidenza il nesso teologico esistente con le tre funzioni attraverso cui esso convenzionalmente si esprime: la funzione della produzione di norme generali (legge e consuetudine), quella amministrativa e quella giudiziaria. Quest’ultima è stata trattata dal profilo normativo addirittura nel contesto totalmente diverso del libro VII. Se il CIC avesse affrontato il potere di giurisdizione con la preoccupazione di evidenziarne la valenza teologica e costituzionale, non avrebbe più potuto collocare la sua normativa (pur trattandola come nel 1917 nelle Norme Generali) dopo quella concernente le leggi e gli atti amministrativi. Avrebbe dovuto semmai collocarla prima, poiché anche le leggi e gli atti amministrativi sono funzioni in cui si esprime il potere di giurisdizione.
c) Il risultato è il fatto che la normativa sulla legge e sulla consuetudine, per prendere questi due soli esempi, conserva nel nuovo CIC la stessa connotazione giuridica e tecnica priva di valenza ecclesiologica, cosi come era già avvenuto nel precedente codice.
In effetti la normativa sulla legge oblitera ogni riferimento al «sensus fidei», in cui si esprime la partecipazione di tutti i fedeli al «munus regendi» di Cristo e della chiesa, e perciò alla Parola. Essa è trattata, sia nei canoni iniziali (can. 7-22) che in quelli concernenti il potere di giurisdizione (can. 135 ss.), come se, in quanto strumento di governo, fosse appannaggio unico della gerarchia e della sua partecipazione specifica al «munus regendi» di Cristo.
Per quanto riguarda la consuetudine, bisogna constatare che il can. 23 riconosce come soggetto della stessa la «communitas fidelium» e che il can. 27, conformemente alla tradizione, non solo canonica, riprende il principio della «consuetudo optima legum interpres». Tuttavia anche in questo contesto il «sensus fidei» dei fedeli non emerge in modo sufficientemente esplicito per chiarire che la partecipazione dei fedeli al costituirsi della consuetudine non è riconducibile e attribuibile allo stesso fenomeno sociale da cui hanno origine tutte le consuetudini del mondo.
Senza dire, che la partecipazione dei fedeli alla funzione legislativa non può essere confinata alla forma indiretta della interpretazione attraverso la consuetudine. Essa è anche diretta; sia in fase di produzione (per es. secondo le modalità sinodali previste dal CIC stesso), sia in ordine alla sua sopravvivenza grazie alla ricezione[15].
d) Anche la visione meramente tecnico-positiva della normativa concernente gli atti giuridici fa dimenticare al CIC il fatto, fondamentale per la elaborazione della nozione stessa del diritto canonico, che tra gli atti giuridici ecclesiali più costituenti (oltre che più frequenti) bisogna annoverare i sacramenti, la forza giuridica vincolante dei quali non ha valenza solo sociale, ma prima di tutto, soteriologica. Ne scaturisce l’assurdo di statuire (nei can. 125 e 126) regole generali di validità o invalidità degli atti giuridici, inapplicabili per principio ai sacramenti.
3) Il tributo pagato dalla codificazione al principio societario e giuridico emerge inconfondibilmente anche nei libri V, sui beni temporali, VI, sulle sanzioni e VII, sui processi.
La valenza imprescindibile della «communio» in rapporto al possesso e all’uso dei beni materiali, dove oltretutto affiora ripetutamente nei testi conciliari, avrebbe dovuto costituire la chiave di volta di tutto il libro V. Esso invece ha recepito nelle sue norme portanti i parametri giusnaturalistici della «societas perfecta», i cui capisaldi sono la perentoria affermazione del diritto della chiesa di possedere beni patrimoniali (can. 1524 § 1) e del suo diritto di esigere dai fedeli i contributi necessari ai propri bisogni finanziari (can. 1260).
Il rapporto patrimoniale tra i fedeli e la chiesa rimane così determinato, non senza modulazioni fiscali, dalla similitudine con il modello statuale, cui si era ispirata la dottrina dello «Ius Publicum Ecclesiasticum». Non è casuale perciò che, proprio in questo libro del CIC, la chiesa appare ancora, e non solo in nome di una funzionalità terminologica, quale realtà ipostatizzata che, come lo stato, si pone in rapporto di alterità rispetto ai sudditi[16].
Questa impalcatura epistemologica globale non viene ultimamente intaccata nei libro V, né dalla definizione delle finalità dei beni ecclesiastici, ripresa, con più consapevolezza rispetto al CIC del 1917, dalla tradizione primitiva della chiesa (in cui il regime patrimoniale era strutturalmente legato alla celebrazione dell’eucaristia), né dalla ricezione di alcuni istituti conciliari, come quelli degli istituti diocesani e interdiocesani del can. 1274, in cui prende corpo, a livello patrimoniale, la struttura di comunione del presbiterio e di tutto il popolo di Dio. Ci si potrebbe chiedere se l’opzione preferenziale per i poveri, formulata magisterialmente dal documento di Puebla, non avrebbe potuto indurre la commissione a riprendere l’idea della chiesa antica, che i poveri non sono solo i beneficiari del patrimonio della chiesa ma addirittura i titolari, se non giuridici almeno morali[17].
4) Anche nel libro VI, sulle sanzioni, la preoccupazione di sviluppare una impalcatura giuridica corrispondente alla teoria generale delle pene prevale sulla coraggiosa riforma dei singoli contenuti. Benché non manchino le imprescindibili norme di riferimento al sacramento della penitenza, un nesso più strutturale con lo stesso sarebbe stato di aiuto a comprendere che la scomunica «latae», ma anche quella «ferende sententiae», pronunciata con la così detta sentenza «irrogatoria», non realizza in se stessa la nozione di pena, propria alla teoria generale del diritto. La scomunica è una situazione di fatto, in cui il fedele si pone in forza del proprio comportamento anti-ecclesiale, che può essere ufficialmente constatata dall’autorità, e di cui l’ordinamento giuridico specifica comunque alcune conseguenze giuridiche. Anche un recente intervento di Giovanni Paolo II conferisce a questa interpretazione[18], che sta diffondendosi, un prezioso appoggio magisteriale[19].
Il carattere non penale della sanzione «princeps» ha tale forza espansiva sulle sanzioni minori, da fare crollare nei suoi fondamenti tutto l’impianto epistemologico del libro VI, rimasto imbrigliato nelle categorie giusnaturalistiche della restituzione della giustizia (cfr. can. 1341) e del potere coercitivo (can. 1311). I1 principio del can. 1314, approvato dal sinodo del 1967, circa la priorità da attribuirsi alla pena «ferendae sententiae», non basta a correggere questa impostazione. Infatti, né il sinodo né la Commissione di Revisione del CIC derivano tale principio dalla logica della comunione, in vista di permettere all’autorità ecclesiale di affrontare la situazione del fedele in difficoltà con criteri pastorali liberi da eventuali pastoie di natura formale-giuridica. La preoccupazione che ha guidato la formulazione di questo principio è piuttosto quella di realizzare nella chiesa un’immagine più coerente della «societas perfecta (sic!)», in cui i problemi della sicurezza giuridica e dell’uguaglianza davanti alla legge rimangono cardini portanti[20].
Il can. 1341 svela la vacuità di questa impostazione[21], ma la forza espansiva dello stesso nei confronti di tutto l’impianto del libro VI è mortificata dalla sua infelice collocazione sistematica. Posto «in capite libri» avrebbe più esplicitamente fatto affiorare il carattere suppletorio di tutto l’apparato penale.
Questo canone, di ispirazione conciliare, così come i principi sulla imputabilità (can. 1321-1330), sull’applicazione delle sanzioni (can. 1354-1363) e, in modo ancora più determinante, la norma “generale” del can. 1399, mostrano come il diritto penale della chiesa sia di fatto già stato svuotato nei suoi contenuti da ogni reale pretesa di realizzare i paradigmi della dottrina penalistica statuale. Tanto valeva allora smantellare la sua impostazione anche formale e concettuale, rispettando così lo spirito conciliare soggiacente alla sostanza delle norme materiali, e rinunciare a comprimere tutta la materia dentro schemi imposti chiaramente da una immagine societaria di chiesa.
5) Anche le norme introduttorie al libro VII processi (can. 1400-1403) rivelano lo stesso approccio culturale ed epistemologico del CIC del 1917.
Se non fosse stata interpretata riduttivamente, come semplice monito morale, ma con tutta la sua forza strutturale, l’indicazione, di inconfondibile ispirazione conciliare, data dal can. 1446 a tutti i fedeli (e in primo luogo ai vescovi) di evitare il ricorso alla procedura giudiziaria per dirimere le liti, sarebbe stato possibile conferire a tutta la normativa processuale un orizzonte ecclesiologico più adeguato.
Ciò avrebbe però richiesto un ripensamento teologico nella natura della «potestas sacra» e della sua funzione giudiziaria, che invece ha registrato in tutto il CIC, come vedremo, una involuzione positivista. Il legislatore si è visto così precludere la possibilità di superare il dualismo latente nella doppia esigenza, diversamente conciliare, di adattare le procedure canoniche alla moderna sensibilità giuridica e di trasmettere una immagine ecclesiologicamente più profonda della natura e della funzione del processo canonico.
La «sacra potestas», in quanto potere di sciogliere e legare in ordine alla salvezza, può in realtà operare, come è avvenuto abbondantemente nel passato, anche senza disporre di procedure giudiziarie. Si tratta di sovrastrutture tecniche, magari sempre più imprescindibili per affrontare con maggiore sicurezza e uguaglianza giuridica le situazioni soggettive dei fedeli all’interno dei nessi sociali diventati complessi anche nella chiesa, ma che non sono costitutive per l’esistenza e l’esercizio della «sacra potestas». Solo all’interno del regime statuale di separazione dei poteri le procedure giudiziarie sono la proiezione giuridica istituzionalmente necessaria e costitutiva dell’esistenza stessa di un potere giudiziario separato e autonomo rispetto al potere legislativo e amministrativo. Nello Stato l’esistenza del potere giudiziario coincide con l’esistenza della procedura attraverso cui si esprime.
Da questo punto di vista l’espunzione del processo di canonizzazione dal CIC e la non incorporazione nello stesso della procedura per l’esame della dottrina, sono sintomatiche. Non perché queste procedure non possano essere regolate con leggi speciali, ma perché, per la loro importanza ecclesiale, essendo dal profilo formale procedure a carattere più amministrativo che giudiziario, sono i documenti chiaramente più rivelatori del fatto che nell’ordinamento canonico non esiste una «potestas iudicialis» diversa e separata rispetto alle altre funzioni (legislativa e amministrativa) del potere di giurisdizione, in cui opera l’unica «sacra potestas», secondo la logica di comunicazione specifica non del Sacramento, ma della Parola.
La funzione giurisdizionale della «sacra potestas» opera in queste due procedure assumendo anche una chiara valenza magisteriale. Ciò spiega perché l’atto conclusivo delle stesse (che è un decreto e non una sentenza) può essere pronunciato solo da chi possiede, nella interezza della sua unicità, la «sacra potestas», cioè dalla suprema autorità della chiesa o, ipoteticamente, dal vescovo.
L’altro sintomo del dualismo denunciato sopra è il fatto che anche il nuovo CIC, in omaggio alle esigenze della tecnica codificatoria, declassa i processi concernenti lo stato costituzionale delle persone (matrimonio, ordinazione, appartenenza alla comunione ecclesiale, o così detto processo penale) al livello di semplici procedure “speciali”. Malgrado il loro carattere fondamentale e imprescindibile per l’ordinamento canonico, esse vengono innestate come semplici appendici sulla procedura contenziosa ordinaria, ritenuta ancora dal CIC chiave di volta ai tutto l’impianto giudiziario canonico. Ciò, malgrado essa sia considerata dal can. 1446 semplice procedura suppletoria, per la sua affinità con il contenzioso civile, il cui scopo è quello di risolvere le liti (cause personali, patrimoniali, beneficiali, ecc.).
Mentre è ipotizzabile che la chiesa possa recepire come contenzioso ordinario, sia pure con eventuali modifiche, i relativi processi civili, con il vantaggio di poterne assumere anche le eventuali connotazioni culturali e giuridiche, non è pensabile invece che essa possa rinunciare alle procedure sullo stato costituzionale dei fedeli, sia perché stanno direttamente in rapporto con la partecipazione all’eucaristia, sia perché esse sono rivelatrici della natura specifica del processo canonico, retto dal principio della prevalenza della verità e della certezza materiale su quella formale, principio estraneo non solo al contenzioso civile, ma anche all’attuale contenzioso ordinario canonico[22].
Non è certo il fatto che nel contenzioso ordinario la sentenza (diversamente di quanto si verifica nei processi sullo «status» delle persone) possa assumere anche carattere definitorio (costitutivo o rescissorio), la prova che in esso operi in modo diretto e costitutivo una «potestas iuridicialis separata» (ma neppure adeguatamente distinta), dalle altre funzioni, della giurisdizione, quella legislativa e quella amministrativa. L’eventuale carattere definitorio di un processo contenzioso è comunque diverso da quello di un processo di canonizzazione o per l’esame della dottrina. È definitorio, non perché determini il contenuto, bensì solo perché l’ordinamento canonico decide di attribuire alla sentenza finale la forza di trasformare l’oggetto in «res iudicata», indipendentemente dal grado di certezza materiale raggiunto nell’esame nella stessa.
Nei processi contenziosi, come in quelli sullo stato delle persone, le cui sentenze sono solo dichiaratorie, la «sacra potestas» (nella sua funzione giurisdizionale) non agisce direttamente nell’atto costitutivo della sentenza, ma solo indirettamente. Essa è operante solo a monte, cioè nell’atto con cui pone in essere le procedure stesse e nomina i giudici.
Nelle procedure contenziose e sullo stato delle persone i giudici non esercitano, di conseguenza, una «potestas iurisdictionalis iudiciaria», che in quanto «iudicialis» non esiste (dal momento che la diversità rispetto alla via legislativa e amministrativa è solo procedurale), ma esplicano solo un compito funzionale-tecnico rispetto alla «sacra potestas» del vescovo. Ne consegue che l’accesso dei laici all’ufficio di giudice non pone nessun problema teologico.
Dopo questa analisi si deve concludere che il can. 1446 avrebbe perlomeno postulato una diversa disposizione sistematica delle procedure. Invece di proporre, come modello paradigmatico, l’attuale contenzioso ordinario, sarebbe stato ecclesiologicamente più significativo se il CIC avesse proposto come forma tipo di processo quello sullo stato costituzionale delle persone (con le rispettive varianti), che, oltretutto, grazie alle cause matrimoniali, è anche la forma processuale di gran lunga più frequente. Alla fine, dopo i processi di canonizzazione e di esame della dottrina, il CIC avrebbe dovuto collocare le norme “speciali” del contenzioso “civile” canonico.
Sarebbe così stato possibile conciliare l’istanza, per altro largamente realizzata, sia di un maggior adeguamento alla moderna sensibilità giuridica, sia di una maggiore attenzione ad altre tradizioni giuridiche di estrazione non romanistica e germanica come quella del «common law», dando così una immagine di chiesa e del suo potere meno simile a quella dello Stato.
6) Queste osservazioni sfociano nella constatazione riassuntiva che l’indicazione metodologica ed epistemologica vincolante dell’OT (16,4) è stata recepita solo nei tre libri centrali del CIC, anche se bisogna riconoscere che il cambiamento epistemologico avvenuto in queste parti del CIC rende irreversibile la rottura dell’ordinamento della chiesa con la tradizione romanistica precedente.
Le ragioni di questo grave scompenso sono evidentemente molteplici. Pur non potendo stabilire in questa sede un elenco esauriente delle stesse, non si può prescindere dal menzionare alcune tra le più significative.
La prima, per altro inevitabilmente collegata con la necessità politica di dimostrare la volontà della Santa Sede di procedere speditamente alle riforme postulate da Giovanni XXIII e dal Vaticano II, sta nell’aver costituito la Commissione per la Revisione del CIC troppo a ridosso del Vaticano II. Mancando la necessaria distanza dall’evento conciliare, la Commissione, invece di procedere a un lavoro di interpretazione globale e comparativa dei testi ha preferito trascriverli selettivamente, con la grave conseguenza di disattenderne una parte.
La seconda, collegata alla prima, sta nella composizione della Commissione con una generazione di canonisti di formazione anteriore al concilio, per la maggioranza dei quali la continuità con la tradizione giuridica precedente appariva irrinunciabile.
Da ultimo, il fatto finora preso raramente in considerazione, ma per molti versi sconcertante, che i criteri per la revisione approvati dal sinodo dei vescovi del 1967, invece di contribuire a chiarire il problema centrale dell’approccio epistemologico e teologico del nuovo diritto canonico, lo hanno offuscato, rafforzando la convinzione, già presente nel concilio ma nel frattempo largamente superata da una parte della dottrina, che l’ordinamento canonico trova la genesi della sua esistenza nel carattere societario della chiesa. Ciò spiega la facilità con la quale il sinodo ha proposto, sia l’applicazione del principio di sussidiarietà[23], importato nella canonistica dalla filosofia del diritto o dalla dottrina sociale della chiesa, sopravvalutando la sua eventuale omogeneità rispetto al principio della comunione, sia l’enfasi con la quale ha propugnato la (necessaria) tutela giudiziaria dei diritti dei fedeli, facendola però coincidere con il modello della giustizia amministrativa statuale[24].
7) Stando così le cose, la domanda che si impone è quella di sapere quali avrebbero potuto essere le soluzioni sistematiche alternative a quella dell’attuale CIC.
Il primo passo, ovviamente sarebbe stato quello di rinunciare allo strumento della codificazione, per optare invece (nell’ipotesi di conservare l’idea della legge unica, che non coincide necessariamente con quella di codificazione) per un «ordo Ecclesiae», che avrebbe avuto il vantaggio di accentuare ulteriormente il carattere costituzionale dell’ordinamento canonico su quello civilistico ancora molto presente nel CIC, rendendo superfluo ogni tentativo di «Lex fundamentalis». L’assunzione della categoria «ordo», privilegiata soprattutto dalla teologia protestante[25], avrebbe permesso una interessante apertura ecumenica, anche in questo settore vitale, senza implicare, contrariamente a quanto è stato sostenuto[26], l’adesione alla concezione antinomica del rapporto «ius divinum – ius humanum», in cui la dottrina protestante è rimasta arenata[27]. Con l’idea della codificazione sarebbe caduta quella delle “norme generali”, in cui prevale strutturalmente il principio epistemologico della ragione filosofica e giuridica su quello teologico. Infatti, l’indicazione, per altro superflua, del sinodo del 1967 di mantenere un carattere giuridico al codice[28], non postula in nessun modo l’assunzione del metodo della codificazione astratta, alla quale del resto il CIC ha già dovuto rinunciare in parte.
Ovviamente le possibilità sistematiche di un «ordo Ecclesiae» sono molteplici. Non essendo possibile elaborare in questo contesto un progetto articolato, vale la pena di enunciare almeno alcuni criteri.
Per sua natura un «ordo» tende a svolgere istituzionalmente la struttura costituzionale della chiesa. Poiché l’essenza della costituzione della chiesa appartiene al contenuto della fede, essa non può essere considerata, alla stregua delle norme solo disciplinari, come elemento puramente funzionale alla fede soggettiva del fedele. Mettendo per sua natura in evidenza gli elementi radicati nello «ius divinum», un «ordo Ecclesiae» svela, sia l’origine sacramentale e non societaria del diritto canonico, sia la dipendenza della norma umana dal diritto divino.
Se si tiene conto del fatto che il modello conciliare dei «tria munera» non solo non è stato integralmente rispettato dal CIC, ma non è neppure diventato la base dell’impianto sistematico dello stesso, restiamo convinti che una sistematica articolata sui sacramenti avrebbe offerto un’alternativa valida[29]. È inesatto del resto affermare, come è stato sbrigativamente fatto[30], che essa non sarebbe di ispirazione conciliare. Al n. II la LG apre il discorso istituzionale sulla chiesa proprio seguendo l’ordine sacramentale. Lo stesso processo è abbozzato anche nella SC 6 e nella LG 10,2 e 25,3. Il problema tecnico più difficile è, evidentemente, quello di trovare uno spazio sistematico alla Parola[31]. Esso deve essere risolto non separando le due realtà, ma rispettando il fatto della loro inseparabilità. In effetti Parola e Sacramento sono solo le due modalità formali diverse, attraverso cui si attualizza la presenza di Cristo nella chiesa[32]. D’altra parte la Parola non gode di un’autonomia strutturale propria, poiché l’esistenza istituzionale della chiesa coincide con il porsi in essere del primo sacramento, il battesimo. Al di fuori della struttura sacramentale non esiste chiesa, ma solo “religione cristiana”. In effetti la Parola è sempre presente in modo proporzionale e secondo progressive manifestazioni (predicazione, catechesi, magistero) in ogni sacramento.
La proposta avanzata recentemente dal Beyer[33] non è priva di interesse, anche a prescindere dalle sovrapposizioni concettuali in essa presenti, ma tende a ridurre tutta la struttura istituzionale della chiesa a elemento puramente funzionale alla fede soggettiva del fedele, propria a un «Directorium pastorale» più che a un «ordo iuridicus».
2. La ricezione di contenuti ecclesiologici
Una valutazione esauriente del fenomeno della ricezione esigerebbe un’analisi dei dati conciliari e codiciali molto più completa dal profilo quantitativo di quanto non sia possibile fare in questa sede. Tuttavia, l’esame a titolo esemplificativo di alcuni contenuti ecclesiologici fondamentali del CIC è sufficiente per rivelare alcuni tratti salienti e mettere a nudo la ambiguità soggiacente agli stessi. Oltre all’inadeguatezza del duplice approccio epistemologico, già constatata nel paragrafo precedente, altri elementi hanno contribuito al medesimo risultato.
Da una parte il fatto che certi contenuti conciliari non sono stati recepiti, o lo sono stati solo in parte; dall’altra il fatto che non tutti i contenuti materialmente accolti nel CIC riproducono con integrità il valore e il vigore formale in essi presenti. Il giudizio sulla ricezione deve perciò valutare in che modo il CIC abbia gestito l’aspetto formale e materiale dei contenuti conciliari. Se è vero, infatti che il contenuto esige una espressione formale adeguata, per rivelarsi con tutto il suo valore, è altrettanto vero che la forma ha sempre una valenza anche materiale. Quando prevale la forma sul contenuto, quest’ultimo assume un significato diverso da quello originale; quando invece il contenuto prevale sulla forma, esso rimane inefficace.
Nella ricezione dei contenuti ecclesiologici del concilio si sono verificati tutti e due questi fenomeni, che per la reciprocità e convertibilità del loro rapporto sono ancora ultimamente riducibili al problema epistemologico.
Prendendo il Vaticano II come punto di riferimento, è possibile individuare nel CIC casi in cui la forma conciliare ha prevalso sui contenuti del CIC e casi in cui i contenuti conciliari non hanno trovato nel CIC una forma adeguata. L’esempio paradigmatico del primo caso è quello del modulo conciliare dei «tria munera», che ha imposto forti limiti a molti contenuti istituzionali dei tre libri centrali del CIC, come per es. ai sacramenti[34]. Un esempio tipico del secondo caso è quello delle nozioni di sacerdozio comune e di «sensus fidei», riprese materialmente dal concilio, senza essere utilizzate dal CIC secondo tutta la potenzialità formale del significato ecclesiologico ad esse immanente.
Per superare questa ambiguità il processo di ricezione avrebbe dovuto tener conto con maggiore libertà del fatto che il Vaticano II, se non ha inteso elaborare una ecclesiologia globale, non ha neppure proposto una articolazione sistematica della dottrina sulla chiesa, con l’intenzione di anticipare a livello istituzionale un modello sistematico valido per la riforma del diritto canonico e, ancor meno, per un’eventuale sua ricodificazione.
1. I fedeli in genere
a) Il fenomeno dell’ambiguità emerge in modo evidente nel modo con il quale il CIC ha affrontato il problema dei fedeli.
Non v’è dubbio che il legislatore ha saputo cogliere nei tre libri centrali del CIC l’essenza della lezione conciliare, così da sostituire il fedele al clero come protagonista principale dell’ordinamento canonico. La centralità di questo fatto investe potenzialmente tutto il CIC, malgrado le incoerenze già riscontrate nei libri I e VII, a proposito della «persona physica».
Anzi, il CIC è andato addirittura oltre i dati materiali reperibili nel concilio. Prima di tutto perché, valorizzando l’istituzione della LG 10 (che lo stesso concilio non ha saputo seguire fino in fondo), il libro II inizia tutta la trattazione della costituzione giuridica del popolo di Dio con un’ampia normativa riguardante lo statuto comune di tutti i fedeli (can. 204-223). In secondo luogo, perché nel can. 204, il CIC definisce il fedele evitando di sovrapporlo alla figura del laico, come era avvenuto invece nella LG 31,1. In terzo luogo, perché anche nel can. 208, contrariamente alla LG 32,3, il CIC chiarifica dal profilo dottrinale il principio della uguaglianza «in dignitate et actione» (che rappresenta una delle conquiste ecclesiologicamente più importanti del Vaticano II), applicandolo non più direttamente ai laici, ma a tutti i fedeli. Da ultimo perché rubricando, in apertura del libro II, quasi tutti i principali doveri-diritti del fedele, disseminati un po’ ovunque nei testi conciliari, ha fatto emergere con vigore il patrimonio giuridico inalienabile del fedele, rompendo, almeno in linea di principio e al di là di eventuali incoerenze, l’egemonia costituzionale da sempre goduta dalla gerarchia nel sistema canonico. Ciò è avvenuto senza introdurre il principio della “fondamentalità” (adottato ancora dalla LEF), applicabile ai diritti della persona nelle costituzioni statuali moderne, ma non ai doveri-diritti del fedele nella costituzione ecclesiale[35]. Così senza aver creato una artificiale gerarchia formale delle norme, propria al principio costituzionale dello stato moderno, il catalogo dei doveri-diritti del fedele, quasi tutti radicati nel diritto divino o in quello naturale, ha evidenziato invece l’esistenza di una gerarchia materiale delle norme, vincolante anche nei confronti della gerarchia[36].
Questa coerente chiarificazione dello statuto del fedele è indiscutibilmente rafforzata dall’accentuazione del carattere costituzionale dello «status» dei consigli evangelici. Il can. 207 § 2, come del resto la LG 44,4, non intende affrontare direttamente l’annosa questione dell’origine nello «ius divinum» dei consigli evangelici[37]. Il CIC però, riprendendo nel can. 575 il testo fondamentale della LG 43,1, in cui i consigli evangelici sono definiti come “dono divino fatto dal Signore alla chiesa”, e separando nella parte III del libro II la normativa sugli Istituti di Vita Consacrata dal contesto giuridico delle associazioni, mette in risalto la valenza ecclesiologica del loro «status», parificandolo istituzionalmente a quello laicale e clericale della I e II parte dello stesso libro[38].
Questa parità costituzionale, riconosciuta ai consigli evangelici, permette di superare il bipolarismo sterile del rapporto chierici-laici, che da sempre ha favorito, sia il prevalere dei primi sui secondi, sia l’identificazione riduttiva dei fedeli con i laici. Il rapporto circolare all’interno di questa nuova trilogia permette di riconoscere a ogni singolo «status» una funzione ecclesiologica specifica, prioritaria su quella degli altri la responsabilità secolare ai laici, quella per l’unità della chiesa ai chierici e quella escatologica ai consigli evangelici, lasciando emergere con più chiarezza l’elemento comune della eguaglianza[39].
b) Fatte queste considerazioni positive, bisogna constatare che i1 CIC ha tuttavia obliterato, o non ha saputo valorizzare in tutto il suo significato formale, alcuni elementi conciliari, irrinunciabili per definire la struttura ontologica e giuridica del fedele.
L’elemento più importante disatteso è quello del carisma[40]. Il fedele non è costituito solo dalla sua struttura sacramentale, grazie alla quale partecipa, sia pure in modo diversificato, ai «tria munera» di Cristo e della chiesa, ma anche dalla possibilità di diventare soggetto titolare di un carisma. Senza questa potenziale dimensione carismatica il fedele (e di conseguenza tutto il popolo di Dio, che è la chiesa) rimane gravemente mortificato nella sua identità ecclesiale e giuridica. Il concilio, che fa abbondantemente riferimento alla presenza dei carismi nella chiesa, non esita a riconoscere tra i diritti principali dei fedeli, quello di esercitare i carismi[41]: diritto totalmente disatteso dal CIC.
Non mancano certo nel CIC accenni opportuni alla presenza dello Spirito santo nella chiesa. Così, nel can. 879 a proposito del sacramento della cresima; nel can. 369 come elemento aggregante della chiesa particolare; nel can. 375 § 1, come elemento costitutivo della successione apostolica dei vescovi, o nel can. 747 § 1 a proposito dell’assistenza al magistero universale della chiesa; così pure nella normativa concernente gli istituti di vita consacrata, dove però l’espressione più anodina di “doni dello Spirito santo” è stata usata per sostituire il termine “carisma”, inesorabilmente stralciato dopo lo schema del 1982[42]. Quest’ultimo fatto ingenera equivocità circa il significato ecclesiologico del carisma. Esso non coincide con la Grazia della presenza dello Spirito santo nei fedeli e non può neppure essere prospettato come dono concesso di preferenza a categorie di fedeli, come quella dei membri degli istituti di vita consacrata, per definizione più facilmente controllabili dal profilo istituzionale e giuridico[43].
Cedendo all’obiezione ricorrente, secondo cui il carisma non sarebbe valutabile dal profilo giuridico, il CIC non ha avuto il coraggio di penetrare fino al cuore della struttura costituzionale della chiesa affrontando in tutti i suoi aspetti l’essenza ontologica stessa del fedele. Se si considera il fatto che il carisma non esiste mai autonomamente, ma è sempre conferito ai due poli della istituzione della chiesa, al sacerdozio comune (che si esprime anche secondo la modalità del «sensus fidei») e al sacerdozio ministeriale, bisogna constatare che anche in questo contesto l’approccio istituzionale è prevalsa su quello misterico della comunione. Infatti, contrariamente a quanto avviene nella struttura statuale moderna, la costituzione della chiesa non coincide con l’istituzione. La presenza del carisma, suscitato liberamente dallo Spirito, relativizza per sua natura la posizione egemonica della gerarchia nella chiesa, perché erige, parallelamente ai doveri-diritti del fedele, un limite imprevalicabile all’esercizio della «sacra potestas» dell’autorità, cui tocca non solo la responsabilità di giudicare l’autenticità del carisma, ma anche e soprattutto quella di non estinguerlo.
c) La sottolineatura della centralità ecclesiologica del fedele, sarebbe stata molto più efficace se il CIC, penetrando ancora una volta fino alle radici più profonde del fatto ecclesiologico, avesse utilizzato come fondamento della propria elaborazione dottrinale e sistematica il sacerdozio comune e il «sensus fidei», conferiti a tutti i fedeli dal battesimo.
Questi due elementi, che nella LG 10 e 12 assumono una valenza di primaria importanza per la comprensione della struttura costituzionale della chiesa, costituiscono il presupposto ontologico su cui si innesta, come derivazione, la dottrina della partecipazione dei fedeli ai «tria munera» di Cristo. Il CIC si limita, invece, a riprenderli materialmente nei rapidi cenni fatti dai can. 836 («De munere sanctificandi») e 750 («De munere docendi»), senza utilizzarli dal profilo formale secondo tutta la valenza ecclesiologica loro propria.
Anche a prescindere dal fatto che il «sensus fidei» è stato recepito dal CIC con una grave mutilazione di significato[44], si deve ammettere che se il CIC, avesse definito il fedele primariamente come soggetto titolare del “sacerdozio comune” e del «sensus fidei», avrebbe messo in luce il nesso strutturale imprescindibile di tutti i fedeli con il Sacramento e la Parola (cfr. LG 35,1): elementi genetici della chiesa stessa, oltre che radice della distinzione tra la funzione di ordine e di giurisdizione della «sacra potestas», in cui si concretizza la partecipazione specifica dei ministri ordinati al mistero di Cristo.
La stessa diversità di essenza (LG 10,2), che distingue il sacerdozio comune da quello ministeriale, sarebbe affiorata, con tutta la sua rilevanza, anche sul versante della partecipazione dei fedeli e dei ministri ordinati alla Parola. Oltre a dare una impostazione sistematica più robusta alla normativa sui fedeli, la ricezione secondo tutto il loro valore formale di questi due elementi avrebbe permesso al CIC di evitare il ricorso alle formule di compromesso, non scevre di ambiguità, della «cooperatio in exercitium potestatis regiminis» (can. 129 § 2) e della «cooperatio in exercitium ministerii verbi»[45] (can. 759) usate per marcare la diversità di partecipazione dei laici e dei ministri ordinati al «munus regendi» e a quello docendi, cioè alla Parola.
d) La dimenticanza del carisma e la non valorizzazione del sacerdozio comune sono all’origine anche dell’ambiguità immanente al modo codiciale di affrontare il fenomeno associativo, fondamentale per la comprensione dello statuto ecclesiologico del fedele. Il suo significato trascende infatti il fenomeno sociale e giuridico in quanto tale, perché oltre ad essere spesso una emergenza del carisma, come dimostra l’esperienza storica, è comunque un segno della comunione dei fedeli e dell’unità della chiesa (AA 18,1)[46].
Il progresso registrato nel nuovo CIC rispetto a quello del 1917, che non riconosceva esplicitamente, come nell’attuale can. 215, il diritto di associazione[47], non può trarre in inganno sul sottile regresso avvenuto invece nei confronti del concilio, malgrado l’impronta giuridica più moderna impressa al nuovo apparato. Mentre il Vaticano II valorizza fino in fondo la varietà e la molteplicità delle forme associative (cfr. spec. AA 18 e 19), il CIC non esita a incapsularle e uniformarle tutte, nella scia del CIC del 1917, dentro il modello corporativistico tradizionale, senza tener conto delle peculiarità delle forme comunitarie di apostolato che pullulano nella chiesa contemporanea, come i movimenti, le società, le comunità di base (riconosciute non solo dai documenti di Medellìn e Puebla, ma anche dalla «Evangelii nuntiandi»)[48] e che rifiutano, in nome della loro identità spirituale, di essere assunte sotto la figura giuridica della associazione o, dovendola accettare, la subiscono come sovrastruttura giuridica formale senza contenuto reale e quindi ultimamente loro estranea.
La distinzione introdotta dal CIC tra le associazioni pubbliche e private (applicata anche alle persone giuridiche, mutuata dal diritto statuale) relega nella sfera privata la stragrande maggioranza delle associazioni, favorendo il nascere di una mentalità ecclesiale distorta. Nell’ambito statuale le associazioni private esistono perché è possibile distinguere tra la società e l’organizzazione del potere dello stato. Nell’ambito ecclesiale, per contro, non è possibile declassare il sacerdozio comune, primo polo insostituibile della istituzione della chiesa, alla sfera della vita privata, dal momento che all’altro polo dell’istituzione, il sacerdozio ministeriale, non è attribuibile la stessa funzione esclusiva di protagonizzare l’istituzione, come avviene invece per l’organizzazione pubblica del potere nella struttura statuale. Poiché il sacerdozio comune sussiste anche in quello ministeriale e quello ministeriale esiste solo in quanto funzionale al sacerdozio comune, che gli è primario, non e possibile divaricare la loro unità e la loro reciprocità strutturale usando i criteri del pubblico e privato.
La preoccupazione di controllare con criteri tipicamente societari e legittimistici il fenomeno associativo affiora anche nel can. 299 § 3, introdotto nel CIC solo nel progetto del 1982. Non essendo corredato da norme in grado di vincolare l’autorità ecclesiale a criteri oggettivi nell’atto di concedere o di rifiutare il riconoscimento giuridico degli statuti sociali, il can. 299 § 3 arrischia di svuotare del suo valore formale il principio della libertà di associazione, proclamato dal Vaticano II (AA 19,4) e recepito materialmente nel can. 215[49]
2. I laici
Dal punto di vista sistematico il CIC ha valorizzato ampiamente la posizione dei laici, sia perché, capovolgendo la prospettiva del CIC del 1917, ha migliorato la sistematica stessa della LG, in cui i laici sono ancora trattati dopo i chierici, sia perché ha formulato, parallelamente ai fedeli, un catalogo dei loro principali doveri-diritti. Non può tuttavia sfuggire il fatto che, nel segno di una politica promozionale per sua natura contingente, questo catalogo tende più a enfatizzare l’importanza dei laici, che a definirne con precisione lo statuto ecclesiologico e giuridico. Infatti, delle 17 fattispecie rubricate nei cann. 225-232, solo II sono rigorosamente attribuibili ai laici, ad esclusione dei chierici[50].
Il confronto con il concilio rivela, comunque, l’esistenza di altre incertezze e ambiguità, su due fronti diversi: quella della partecipazione dei laici al «munus regendi» e quella della loro identità secolare.
Contrariamente a quanto avviene per la partecipazione dei laici ai «munera docendi» e «sanctificandi», ribadita espressamente nei can. 759 (prima fase) e 853 § 4 in ossequio ai nn. 34 e 35 della LG, il CIC non prevede nessun canone specifico che, sulla base dell’insegnamento conciliare (LG 36 e 37), riaffermi esplicitamente la partecipazione dei laici al «munus regendi». Bisogna perciò far ricorso alla norma più generica del can. 204, che, essendo valida per tutti i fedeli indistintamente, comprende in definitiva i laici solo secondo la loro definizione sacramentale, così come è stata formulata dalla LG 31,1. La ragione immediata di questa carenza deve essere ricercata nella rinuncia del CIC a un libro sul De munere regendi. Al di là delle eventuali difficoltà di ordine tecnico, che la possono aver provocata, questa rinuncia denota l’imbarazzo del CIC nell’accettare che la partecipazione dei laici all’ufficio di governo è altrettanto essenziale, dal profilo costituzionale, della partecipazione dei chierici; coessenzialità riconosciuta invece per gli altri due «munera». Nel libro II è avvenuto così un riassorbimento, non solo sistematico, ma, in certa misura, anche sostanziale del «munus regendi» dei laici nel «munus regendi» della gerarchia[51].
Anche il can. 129 § 2, che in questo contesto della «Sacra potestas» è l’unica norma a possedere una certa ambizione dottrinale, non aiuta a comprendere la vera portata del problema. Nella formulazione di compromesso da esso adottata, che comunque non coincide con quella più possibilista di LG 33,3[52] a partecipazione dei laici al «munus regendi» non appare come l’esercizio di un’abilitazione originaria e propria, conferita al laico dal battesimo, bensì come cooperazione estrinseca all’esercizio della «potestas» posseduta da altri, cioè dalla gerarchia.
Dal punto di vista delle soluzioni concrete non si può invece affermare che il CIC sia stato avaro nel riconoscere ai laici l’esercizio di un’ampia responsabilità in tutti i settori dell’attività ecclesiale. Anzi, sommando tutte le norme che presuppongono l’esercizio del «munus regendi», con quelle in cui si inverano i «munera docendi et sanctificandi», si ottiene un’immagine di laico, ormai difficilmente distinguibile da quella del diacono. Tuttavia un fatto rimane sintomatico: mentre da una parte il CIC evita di rendere più vincolante la costituzione dei consigli pastorali, sia diocesani (in cui l’inflessione rispetto a CD 27,5 è evidente)[53], sia parrocchiali, dall’altra rinuncia a promuovere con maggiore determinazione l’attività dei laici proprio all’interno di quegli istituti che, per loro natura, sono atti a far assumere a tutti i fedeli (e quindi anche ai laici) non solo una responsabilità in quanto singole persone particolarmente qualificate, ma una corresponsabilità di governo “sinodale”, molto più incidente nella gestione quotidiana della chiesa di quella prevista all’interno dei concili particolari e dei sinodi diocesani.
Il secondo ambito in cui affiora uno scarto tra il concilio e il CIC è quello della secolarità. Il concilio non ha inteso definire «in recto l’indolis secularis» (LG 31,2) come elemento teologico qualificante lo «status laicalis»[54]. Essa non può però essere interpretata, come fa una parte della dottrina, quale semplice dimensione sociologica. Infatti, da una parte l’impegno secolare dei chierici ha carattere di supplenza e non coincide neppure concettualmente con la nozione della secolarità propria dei laici; dall’altra la netta prevalenza dei testi conciliari sull’indole secolare (LG, AA e AdG), rispetto a quelli in cui il concilio definisce i laici a partire dalla loro struttura sacramentale (LG 31,1), non sembra permettere dubbi in merito[55].
Anche volendo lasciare impregiudicata questa questione, è sorprendente comunque constatare che il concilio, nei nn. 36 e 37 della LG, aveva già colto la modalità secolare, come caratteristica prevalente della partecipazione specifica dei laici al «munus regendi». Ciò spiega l’affermazione fondamentale di LG 37,4 secondo cui “i pastori, aiutati dall’esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità, sia le cose spirituali che temporali”. A questa affermazione corrisponde quella non meno importante per la comprensione della funzione dei laici e dei chierici nella chiesa, di LG 35,2 a proposito dell’ufficio profetico, secondo cui “l’annuncio del Vangelo acquista nei laici una certa nota specifica ed una particolare efficacia per essere realizzato nelle comuni condizioni del secolo”.
Il CIC ignora palesemente queste due ultime affermazioni, chiave di volta per comprendere l’apporto costituzionale specifico della secolarità propria e peculiare dei laici, non solo nell’ambito del loro impegno nel mondo, ma anche nella chiesa. Esse permettono di superare la tentazione dualistica di ritenere che la secolarità, in quanto dimensione ecclesiologica in cui si esprime la funzione prioritaria dello stato laicale, rispetto agli altri due stati, si esprima solo nel loro impegno nel secolo e non in quello interno alla struttura ecclesiale. Il laico garantisce l’unità della missione di tutto il popolo cristiano, nella chiesa e nel mondo (LG 31,1), poiché costituisce il punto di sutura tra la chiesa e il mondo, vale a dire tra l’economia della creazione e l’economia della redenzione. È per questo che il matrimonio, in cui l’elemento creazionale si fonde sacramentalmente con quello soprannaturale (can. 1055), appartiene nella sua essenza profonda allo stato laicale. La secolarità, infatti, non si realizza con la stessa intensità e con la stessa rilevanza ecclesiologica nel laico che vive nel secolo e in quello che vive secondo lo «status» clericale o nei consigli evangelici (istituti religiosi o negli istituti secolari). In questi ultimi la secolarità, spogliata dei propri elementi costitutivi essenziali (proprietà, matrimonio e libertà), viene quasi totalmente assorbita dalla dimensione sacramentale comune a tutti i fedeli.
Il problema perciò non è riducibile a quello di invitare genericamente i laici ad assumere le loro responsabilità nella chiesa e nel mondo, come il CIC si premura di fare ammonendo in proposito i chierici in generale (can. 275 § 2), i vescovi (can. 394 § 2) e i parroci (can. 529 § 2), ma piuttosto quello di accettare che l’«indolis saecularis» pone alcuni limiti entro cui il sacerdozio ministeriale deve svolgere la sua missione. L’indole secolare permette così di determinare con più esattezza non solo la natura ontologica dei laici, ma, per riflesso, anche quella dei ministri ordinati.
Dal momento che il CIC non ha formalmente recepito la nozione di «indolis specularis», non sorprende che la ricca normativa tendente a promuovere la partecipazione dei laici alla gestione della chiesa, nei settori dei «munera docendi et sanctificandi», che hanno come presupposto immediato la definizione sacramentale del laico (LG 31,1), non trovi sufficiente equilibrio nelle poche norme riguardanti quel settore della loro corresponsabilità, che ha come presupposto dottrinale immediato la loro definizione secolare (LG 31,2). Infatti, solo quattro norme (o gruppi di norme) si riferiscono ai laici secondo la loro indole secolare: due contenute nel catalogo generale dei loro doveri-diritti (il dovere di animare con lo spirito evangelico l’ordine temporale, del can. 225 § 2, e il diritto alla libertà necessaria per compiere questa missione, del can. 227); la terza afferma il diritto di associarsi a questo scopo (can. 327); il quarto gruppo concerne i doveri-diritti della famiglia nel settore dell’educazione dei figli (can. 226, 793 796-799). In questo orientamento, non esattamente sincronico con la posizione più fondamentale del concilio, il CIC si è lasciato determinare dalla teologia post-conciliare del laicato, che, trascurando il problema della secolarità (l’unico ad aprire prospettive ecclesiologiche veramente nuove), si è arenata sul problema della attribuzione ai laici di competenze sempre più vicine a quelle del sacerdozio ministeriale, avviando nei loro confronti un sottile, ma, snaturante, processo di clericalizzazione[56]. Il concilio stesso, soprattutto in AA 20 e 24,4, avallando la dottrina, datata, della collaborazione dei laici alla missione della gerarchia attraverso l’istituto, peraltro poco chiaro, del mandato, non ha certo contribuito a risolvere questa ambiguità.
3. La «communio hierarchica»
Quantunque l’espressione tecnica «communio hierarchica» sia stata utilizzata dal Vaticano II solo per qualificare la natura del rapporto, sacramentale e sinodale, che lega reciprocamente i ministri ordinati (ad eccezione dei diaconi), bisogna ammettere che l’elemento gerarchico investe tutti i livelli della «communio»:[57] quello fondamentale della «communio fidelium», quello della «communio Ecclesiarum» (che comprende anche il rapporto tra la chiesa cattolica e le chiese e comunità ecclesiali separate) e quello della «communio ministeriorum». Pur prescindendo perciò dalla questione a sapere se l’espressione «communio hierarchica» in quanto «hierarchica» sia concettualmente atta ad esprimere nella sua complessità la natura di tutti i livelli della «communio»[58], essa può però essere adottata come strumento per valutare, seguendo un minimo di ordine sistematico, la recezione nel CIC di quella ecclesiologia conciliare in cui affiora il principio comunionale, piuttosto che il principio societario.
Nella misura in cui è possibile individuare una linea di demarcazione tra l’aspetto dottrinale e quello istituzionale dei problemi, l’analisi degli stessi sarà condotta separatamente.
1. L’aspetto dottrinale
a) A livello della «communio fidelium» il solo can. 209 § 1 potrebbe essere sufficiente per affermare che il CIC, non solo ha recepito materialmente la sostanza della lezione conciliare, che propone la «communio» come struttura ontologica costitutiva del fedele, ma l’ha saputa impiegare secondo tutta la sua valenza formale, anche al di là di quanto non abbia saputo fare il concilio stesso.
Rubricando come prima fattispecie del catalogo dei doveri-diritti dei fedeli, il dovere di vivere, interiormente ed esteriormente, in comunione con tutta la chiesa (can. 209 § 1), il CIC evidenzia il fatto che la comunione è l’elemento che determinerà il fedele nella sua identità antropologica ed ecclesiale. La primarietà di questo dovere rispetto a tutte le altre fattispecie del catalogo, non deriva dal semplice fatto di trovarsi in testa alla lista dei doveri-diritti comuni a tutti i fedeli (fatto che potrebbe anche essere casuale, data l’assenza di ordine nello stesso), bensì dal fatto che esso è il fondamento ontologico e logico di una serie di doveri-diritti, come quello di tendere alla santità (can. 210), di collaborare alla diffusione del vangelo (211 e 225 § 1) e alle iniziative apostoliche (can. 216), di ricevere i sacramenti (can. 213) e di partecipare alla gestione della vita della chiesa (cann. 212 § 3-4, 228) che, a loro volta, sono il punto di derivanza di quasi tutte le altre fattispecie costitutive del patrimonio giuridico del fedele[59].
La struttura gerarchica della «communio fidelium», emergente nel dovere di obbedienza ai pastori, formulato nel can. 212 § 1 – verso cui convergono altre disposizioni codiciali analoghe (cann. 750-754, 846 § 1, 1311)-, affiora invece con un risvolto negativo nelle numerose clausole precauzionali e garantistiche del catalogo. Singolarmente prese, quest’ultime potrebbero infatti avere una loro giustificazione, ma tutte assieme inquinano l’atmosfera di fiducia e la magnanimità con la quale il concilio ha generalmente affrontato il rapporto fedeli-pastori[60].
b) Anche grazie alla trascrizione della più importante formula ecclesiologica del concilio (LG 23,1), secondo cui la chiesa universale si realizza nelle e dalle chiese particolari, si può ritenere che il CIC ha recepito la sostanza della dottrina conciliare circa la «communio Ecclesiarum»[61]. Da essa possono essere infatti svolti per «modum explicitationis» tutti gli altri elementi costitutivi della stessa. In effetti, la formula «in quibus et ex quibus» definisce il principio della «communio» a partire da un modello ermeneutico, paradigmatico per la sua chiarezza. Pur assumendo tutta una gamma di significati diversamente importanti e corretti, la «communio» consiste, nella sua essenza, in un rapporto di immanenza, ricorrente in tutti gli elementi strutturali della costituzione della chiesa: quello della immanenza della dimensione universale e particolare dell’unica chiesa di Cristo; quello della reciprocità immanente al rapporto fedele-Corpo Mistico; quello della immanenza tra dovere e diritto; tra sacerdozio comune e ministeriale e tra Parola e Sacramento.
Il CIC avrebbe dovuto comunque esplicitare con maggiore chiarezza la doppia modalità di realizzazione della «communio Ecclesiarum». Essa non nasce solo dal rapporto gerarchico e costitutivo delle chiese particolari con la chiesa romana (cann. 331, 349 § 3, 431 § 1) ma anche dal rapporto reciproco esistente tra le singole chiese particolari. Pur essendo derivativo rispetto al primo[62], non è meno essenziale per la comprensione della natura della «communio Ecclesiarum», fondamento ontologico e gnoseologico immediato della “collegialità episcopale”. Il concilio, contrariamente al CIC, ha evidenziato questo aspetto “orizzontale” della «communio Ecclesiarum» a livello della chiesa universale nei testi della UR 14,1 (in cui il rapporto di fraterna comunione nella fede e nella vita sacramentale è definito come rapporto tra chiese “sorelle”) e soprattutto in quello di LG 23,2, in cui si afferma esplicitamente che la chiesa è un «corpus Ecclesiarum». Pur ignorando questi testi, in cui si cristallizzano con particolare efficacia altri spunti dottrinali analoghi del concilio[63], il CIC lascia però intravvedere la stessa dimensione, più che il concilio stesso, a livello delle chiese particolari. Infatti, gli istituti delle province e regioni ecclesiastiche (can. 431 ss.) e dei concili particolari (can. 439), non sono concepiti come risultanti da una convergenza personale dei vescovi, come invece nel caso delle Conferenze episcopali (can. 447), bensì come una emanazione della «communio Ecclesiarum» esistente tra le chiese particolari[64].
L’idea conciliare della «communio Ecclesiarum» è, per contro, chiaramente presente nel CIC nel risvolto che essa assume per il rapporto tra la chiesa cattolica e le chiese e comunità ecclesiali separate; risvolto fondamentale per comprendere la natura della stessa chiesa, in quanto realizzazione dell’unica chiesa di Cristo. Ciò avviene, sia nei cann. 844 § 3-4, 908 e 1124, sia nel can. 204 § 2, che riprende il travagliatissimo testo di LG 8,2 in cui si afferma che l’unica chiesa di Cristo «subsistit» nella chiesa cattolica. Ciò significa che la chiesa cattolica, per il fatto di realizzare la «communio plena», rappresenta l’apice “gerarchico” della graduale autorealizzazione della chiesa di Cristo. La dottrina conciliare dell’unicità della chiesa di Cristo (per es. LG 8,2 e UR 3,2) recepita dal CIC nei cann. 96 e 369 senza sviluppi ulteriori, riprende il filone ecclesiologico anteriore all’esperienza controversistica (sopravvissuto nel can. 87 del vecchio CIC). L’idea della realizzazione per gradi della «communio» ha un risvolto preciso anche all’interno della chiesa cattolica stessa, come lo dimostrano sia la nozione di scomunica, sia l’esclusione dalla comunione eucaristica del fedele in stato di peccato grave (cann. 915e 916), sia la dottrina dei «tria vincula» necessari per la piena appartenenza alla chiesa, ripresa dal can. 205, mutilata però dall’inciso conciliare «Spiritum Christi habentes» (LG 14,2)[65]. Quest’ultimo vistosissimo stralcio è un ulteriore esempio della tenace resistenza opposta dal positivismo giuridico alla ricezione a livello istituzionale di tutta la valenza formale immanente al principio ecclesiologico della communio, che affonda le sue radici nel mistero trinitario.
La «communio plena», che stabilisce il punto di riferimento ultimo della ecclesialità, si realizza nella chiesa cattolica, proprio in forza del fatto che in essa, per definizione anche se non sempre dal profilo storico, e a differenza di quanto avviene nelle chiese e comunità ecclesiali separate, l’immanenza tra la dimensione universale e particolare della chiesa è totale. Solo un’ecclesiologia che prendesse come spunto genetico l’unica chiesa di Cristo è in grado di superare l’impasse, cui sono approdate sia l’ecclesiologia della chiesa universale, sia quella della chiesa particolare. Essa dovrebbe però prendere le distanze dalla concezione (presente anche nel concilio), secondo cui la chiesa universale e quella particolare sono realtà concrete e materiali diverse, per considerarle invece solo come le due dimensioni formali costitutive dell’unica chiesa di Cristo[66]. In effetti la chiesa universale in quanto tale, non esiste materialmente in nessun luogo, diverso da quello in cui è presente la Chiesa di Cristo nella sua dimensione particolare. Da quest’ultimo punto di vista, è sintomatico il fatto che il CIC non ha recepito il testo di LG 26,1, dove si afferma: “In tutte le comunità che partecipano all’altare… sebbene spesso piccole, povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la chiesa, una santa cattolica e apostolica”. Il riferimento all’eucaristia, culmine e fonte della vita cristiana (can. 897), avrebbe potuto comunque insinuare dubbi sulla priorità attribuita alla chiesa universale rispetto a quella particolare, dell’ordine sistematico del libro II del CIC.
c) Anche a proposito della collegialità (o «communio ministeriorum») bisogna constatare che il CIC rimane strettamente avvinghiato alla dottrina del Vaticano II, senza fare nessun tentativo di marcare quei profili, per altro già assenti nel concilio, che avrebbero potuto permettere di intravvedere eventuali limiti strutturali imposti dalla collegialità al primato[67]. Come il Vaticano II utilizza anch’esso (ma come avrebbe in fondo potuto fare altrimenti?) una terminologia che, per la sua valenza giuridica e la sua preconcezione culturale, impedisce di cogliere chiaramente come la collegialità non si realizza solo quando si esprime secondo la modalità giuridico-formale dell’atto collegiale (definito dal can. 119 delle norme generali) , ma anche in altri modi. Astrattamente parlando, il termine di sinodalità equivale a quello di collegialità. Di fatto, però, esso offre la possibilità di conferire alla nozione di collegialità un significato meno riduttivo[68]. D’altra parte l’avverbio «coniunctim» (come del resto i termini «collegium e collegialis»), materialmente ripreso nel can. 447 dal concilio (CD 38,1) a proposito delle conferenze dei vescovi, esime il CIC dal dovere, ormai imprescindibile a vent’anni di distanza dal Vaticano II, di precisare che il principio della collegialità non si realizza solo a livello della chiesa universale, ma anche a quello delle chiese particolari.
Il CIC non è rimasto però completamente sordo allo sviluppo ecclesiologico di questo ventennio. Infatti dal profilo sistematico il legislatore ha collocato le istanze collegiali intermedie (concili particolari, conferenze dei vescovi) non più dopo la chiesa universale, come nel vecchio CIC, ma dopo le chiese particolari, a significare che il potere da esse esercitato non è di origine primaziale, ma episcopale.
Anche il rapporto del collegio dei vescovi con il papa è affrontato dal CIC senza lasciare adito a troppe discussioni. Ciò spiega perché il CIC abbia anche concesso costante priorità sistematica al papa sul collegio. Il concilio per contro, almeno nei testi in cui il problema ecclesiologico non assume prospettive istituzionali eminentemente collegiali per rimanere nell’alveo di una riflessione teologica più ampia, non esita ad attribuire ripetutamente la priorità al collegio degli apostoli su Pietro e al collegio dei vescovi sul papa. La rigorosità con la quale il CIC ha collocato invece il papa prima del collegio (cann. 330 ss., 746, 749, 782)[69] lascia l’impressione che, almeno per quanto lo concerne, abbia preferito ignorare la dottrina dell’unico soggetto del supremo potere della chiesa[70]; dottrina che, a differenza di quella dei due soggetti (inadeguatamente distinti), apre uno spiraglio più grande per intravvedere come nel primato possa emergere, a livello personale, il supremo e pieno potere del collegio stesso nella chiesa universale[71]. L’attribuzione della qualifica “immediata” alla «potestas» del papa non diversifica la sua natura rispetto a quella del collegio, dal momento che il collegio, dove i singoli pastori rappresentano direttamente le loro chiese particolari, ha inevitabilmente una «potestas» immediata sulle stesse[72]. Questa impostazione, dominata dal criterio tipicamente giuridico e non necessariamente ecclesiologico della prevalenza dell’universale sul particolare, si deteriora ulteriormente in senso verticistico per il fatto che il CIC, nel segno della stessa prospettiva civilistica (più che costituzionalista) del CIC del 1917, apre la normativa sul papa senza inserirla nel contesto ecclesiologico della chiesa universale, come ha fatto invece sia per le istanze intermedie, personali e collegiali, sia per i vescovi e i parroci. Il can. 330, introdotto all’ultimo momento, per quanto importante, non riesce a correggere sostanzialmente le linee di questa traiettoria globale.
La «communio hierarchica» regola anche il rapporto tra il vescovo e i sacerdoti all’interno del presbiterio. Bisogna riconoscere che il Vaticano II stesso rivela in proposito molte fluttuazioni terminologiche e incertezze dottrinali[73]. Nella LG 28,2 (in fine)e nel PO 2,2, il presbiterio appare come un collegio universale dei preti, parallelo al collegio universale dei vescovi. Nel PO 2,1 e nel decreto CD 11,1, invece, appare come una comunità di presbiteri in funzione di alterità corporativistica rispetto al vescovo diocesano, simile a quella del capitolo cattedrale. I testi risolutivi della LG 28,2 (all’inizio), della PO 8,1 e del decreto AdG 13,3, in cui il presbiterio risulta essere la comunità dei presbiteri con il vescovo diocesano come loro capo, che di conseguenza è membro del presbiterio, non sono stati recepiti dal CIC. Dal profilo unicamente sintattico, si potrebbe ammettere che l’immagine del presbiterio come collegio di preti con il vescovo diocesano, sia sottesa ai cann. 713 § 3 e 400 § 2, ma in tutti gli altri canoni concernenti il presbiterio (369, 245 § 2, 529 § 2, 754), compreso quello fondamentale (can. 495 § 1) dove si prescrive la costituzione obbligatoria del consiglio presbiterale, domina l’immagine corporativistica. Questa rilevante mancanza di precisione formale deriva dal fatto che il CIC, ultimamente, non ha compreso che la struttura sinodale del presbiterio è una proiezione, analogica, della struttura sinodale della chiesa universale nella chiesa particolare[74]. La chiesa universale caratterizzata per la sua struttura sinodale, non potrebbe realizzarsi nella sua verità ontologica in una chiesa particolare strutturata in modo esclusivamente unipersonale. La radice di questa disattenzione risale al fatto che, tra i numerosi testi del concilio in cui si ribadisce che i presbiteri sono i “cooperatori” del vescovo (o dell’ordine episcopale), recepiti nel can. 245 § 2 e soprattutto nel 384, in cui si statuisce che il vescovo deve ascoltare i suoi presbiteri («audiat»), il CIC trascura quello più significativo, cioè il testo della PO 7,1 in cui i presbiteri non sono definiti solo come «fidi cooperatores», ma come «cooperatores necessarii» del vescovo. Esso contiene «in nuce» la giustificazione ecclesiologica del presbiterio. L’ascolto che i vescovi devono prestare ai presbiteri non è determinato da un semplice obbligo di natura morale, legale o vagamente comunionale, ma dalla struttura ontologica della «communio» stessa, che implica immanenza degli elementi. La qualifica di «necessarii» non definisce infatti solo la natura del ministero presbiterale ma anche quella del ministero episcopale. Il ministero del vescovo senza quello dei presbiteri è strutturalmente monco. Ne consegue che anche il carattere obbligatorio del consiglio presbiterale non ha una giustificazione puramente corporativistica, ma ha la sua ragion d’essere nel fatto che il ministero del vescovo diocesano non è solo personale, ma è essenzialmente sinodale, anche se l’analogia non permette probabilmente di pensare che il presbiterio, come invece il collegio dei vescovi, sia l’unico soggetto della «potestas» nella chiesa particolare.
1. L’aspetto istituzionale
a) Per quanto riguarda il livello della «commutino fidelium» abbiamo già fatto notare in precedenza che il CIC, raccogliendo l’indicazione conciliare, ha aperto molti spazi di partecipazione, sia individuale che collettiva, ai laici, categoria di gran lunga più numerosa dei fedeli, ma anche tradizionalmente piu emarginata. Ciò non è avvenuto, tuttavia, senza preclusioni inutili e senza omissioni significative.
Gli istituti fondamentali di questo riconoscimento, in parte anticipati dal diritto post-conciliare, comune e particolare, sono, nell’ambito della partecipazione individuale, l’ufficio ecclesiastico – definito in modo da comprendere anche i ministeri non ordinati e “collettivi” (can. 145 § 2) -; la possibilità per i laici di accedere all’ufficio di giudice (can. 1421 § 2), di cancelliere (can. 482 § 1), di missionario (can. 784), di responsabile pastorale di una parrocchia (can. 517 § 2), di assistente alla celebrazione di un matrimonio (can. 1112) e a quello di predicare in una chiesa (can. 766). Se l’esclusione della donna dal ministero stabile del lettorato ed accolitato è teologicamente infondata (can. 230 § 1), l’esclusione di tutti laici dalla possibilità di tenere l’omelia può perlomeno avvalersi del fatto che esiste in proposito qualche interrogativo teologico (can. 767 § 1)75 . Sul fronte delle omissioni non si può sottacere che il CIC ha disatteso l’istanza di istituire nuove forme di ministeri laicali, in parte già collaudate dalla prassi di non poche chiese particolari76 .
Anche nell’ambito della partecipazione “collettiva”, le realizzazioni e le omissioni più importanti sono: da una parte le norme che statuiscono la partecipazione facoltativa dei laici ai concili particolari (can. 443 § 4) e obbligatoria ai sinodi diocesani (can. 463 § 1 n. 5), oltre che la non esclusione di principio dal concilio ecumenico (can. 339 § 2); dall’altra l’istituzione solo facoltativa dei consigli pastorali diocesani (can. 551) e parrocchiali (can. 536 § 1). Pur tenendo conto del fatto che a livello diocesano il problema non concerne solo i laici, ma anche i chierici e che il CIC ammette non solo la costituzione del consiglio pastorale diocesano (senza però auspicarla come invece ha fatto il concilio), ma anche del consiglio parrocchiale (non prevista dal concilio), non si può non valutare la mancata istituzione a livello di diritto comune di queste strutture rappresentative quale esplicitazione esigita dal sacerdozio comune come una penalizzazione superflua dei laici, in contrasto con l’abilitazione fondamentale ad assumere uffici sinodali, riconosciuta loro dallo stesso CIC (can. 228 § 2).
Per tradurre istituzionalmente il ruolo diverso svolto dai vescovi, dai presbiteri e dai laici nella celebrazione dell’eucaristia, il CIC, non avendo trovato nel Vaticano II indicazioni precise, ha adottato la soluzione tradizionale, anticipata da «Eccl. Sanct.» 116,2, di distinguere tra voto deliberativo e voto consultivo. La teoria generale conosce altre soluzione tecniche per esprimere la diversità di partecipazione all’esercizio del potere: il voto deliberativo di tutti, abbinato al diritto di veto o alla riserva del consenso di membri qualificati, oppure la concessione «ad nutum» del superiore (su certe materie o in singoli casi) del voto deliberativo a chi di diritto spetta solo voto consultivo. Mentre il diritto di veto, espressione più pesante dell’arbitrio di chi detiene o usurpa il potere (cfr. ONU), è estraneo alla tradizione canonica, la riserva del consenso e la concessione «ad nutum» del voto deliberativo sono istituti che implicano concettualmente la negazione della natura giuridica propria al voto deliberativo. Il fatto che i vescovi, in quanto testimoni, non solo costitutivi ma necessari, della fede apostolica, si esprimano con voto deliberativo non per riconoscimento del diritto umano ma divino, impedisce che la riserva del consenso, spettante al papa nel collegio, declassi il loro voto a semplice voto consultivo. Anche il voto consultivo possiede all’interno dell’ordinamento canonico un proprio carattere di necessarietà, grazie al rapporto di reciprocità immanente esistente tra il sacerdozio comune e quello ministeriale. È definibile come voto consultivo solo perché la testimonianza di fede dei presbiteri e dei laici, pur essendo di per sé costitutiva (grazie al sensus fidei), come quella dei vescovi, non è vincolante allo stesso modo. Ne consegue, perciò, che al di là delle scelte tecniche e terminologiche alternative con le quali è possibile esprimere la partecipazione dei laici alle decisioni ecclesiali, essa non può essere equivocata, come fa per es. l’Acerbi77, come semplice “aiuto” prestato dai laici ai ministri ordinati. La funzione del sacerdozio comune (e del «sensus fidei») non è quella di aiutare il sacerdozio ministeriale, ma di esprimere la propria testimonianza e la propria opinione sulla fede e sulla disciplina ecclesiale.
Il sacerdozio comune è infatti primario rispetto allo stesso sacerdozio ministeriale. Quest’ultimo non può perciò ignorare la testimonianza del primo senza ledere il principio della comunione. Quantunque gli istituti del voto deliberativo e consultivo non riescano a tradurre sul piano giuridico tutta la dinamica ecclesiologica della «communio hierarchica», risultano essere di fatto gli strumenti tecnici più trasparenti e perciò meno inadeguati ad esprimerla78. La loro applicazione può inoltre sempre essere sfumata o rafforzata con accorgimenti tecnici di vario tipo, come ha mostrato di saper fare il diritto particolare post-conciliare.
Per meglio tener conto della diversità di rapporto esistente tra i laici e i vescovi da una parte e tra i laici e i presbiteri dall’altra, il CIC avrebbe potuto per es. prevedere esplicitamente la possibilità di ricorso del consiglio pastorale parrocchiale al vescovo, contro un rifiuto ingiustificato del parroco di aderire al voto consultivo suffragato da una maggioranza qualificata.
b) L’inverarsi istituzionale della «communio Ecclesiarum» può essere valutata prendendo come punto di riferimento la autonomia legislativa, amministrativa e giudiziaria delle chiese particolari.
Nel settore legislativo la riforma del CIC avrebbe evidentemente potuto essere ancora più coraggiosa, grazie ad una comprensione più decisa, di quanto non sia avvenuto, del volume del diritto comune79 . Dal profilo qualitativo due settori disciplinari, particolarmente vitali e reattivi ad ogni impulso innovatore, come ha confermato il travaglio degli anni successivi al concilio, possono essere ritenuti sintomatici di un certo atteggiamento assunto dal legislatore di fronte al problema dell’autonomia: quello degli istituti di vita consacrata e quello della formazione del clero diocesano. Mentre nel primo lo spazio di autonomia legislativa concesso allo «ius proprium» è molto grande, nel secondo è palesemente ridotto. Non da ultimo perché le «Institutionis Sacerdotalis Rationes» delle conferenze episcopali trovano nella Ratio della Santa Sede (can. 242) una barriera che preclude la possibilità di diversificare sufficientemente la formazione del clero diocesano tenendo conto del contesto spirituale, etnico e culturale dei singoli raggruppamenti di chiese particolari. Dal profilo della ricezione materiale del concilio bisogna inoltre constatare che il CIC si è ispirato di preferenza alla OT piuttosto che alla PO80 , con la conseguente proposizione di un modello educativo proteso piu a garantire la conformità di vita dei candidati allo «status clericalis», che la loro preparazione all’esercizio del ministero pastorale. Se è vero che l’esistenza del ministero presbiteriale non è una semplice articolazione funzionale dello «status fidelium», essendo fondato nel sacramento dell’ordine, è altrettanto vero che la finalità pastorale del sacramento è determinante per la preparazione al suo esercizio. D’altronde anche l’esenzione degli Istituti di vita consacrata ha assunto proporzioni molto minori di quanto la discussione conciliare avrebbe potuto lasciare supporre. Di conseguenza l’autonomia legislativa loro concessa si configura di fatto, più che in relazione alle chiese particolari, come spazio di libertà all’interno del rapporto con la Santa Sede, che possiede gli strumenti necessari per controllarla sul piano amministrativo (come dimostrano le norme dei cann. 573-606). Si deve perciò constatare che il risultato finale, anche in questo caso, non differisce molto da quello ottenuto nel settore della formazione del clero diocesano, dove l’autonomia è già preclusa sul piano legislativo.
Fatte queste osservazioni, in certa misura estendibili anche ad altri settori della disciplina, si deve riconoscere che il rinvio alla legislazione particolare non assume piu nel CIC il carattere di contingenza sulla quale il legislatore decide volta per volta, come nel regime del 1917, ma è diventato un principio strutturale del nuovo ordinamento canonico81 . La preoccupazione dominante non sembra più essere quella di garantire l’uniformità della legislazione, sulla base del principio medioevale «unum imperium, unum et ius», come nel vecchio CIC, bensì quello di stabilire un nuovo equilibrio costituzionale tra la dimensione universale e quella particolare della chiesa di Cristo.
Nel settore amministrativo la ricezione del concilio è stata forse più profonda, grazie all’applicazione, nel can. 87, dell’art. 8 a) e b) del decreto CD82 . Il principio rigorosamente giuridico, proprio al regime precedente, secondo cui solo l’autore della legge (o il suo superiore) può dispensare dalla stessa, è stato sostituito con il principio ecclesiologico, secondo cui il vescovo diocesano gode di tutte le facoltà necessarie per provvedere al bene spirituale dei suoi fedeli. Il passaggio dal sistema della concessione a quello della riserva ha provocato così una rivoluzione quasi copernicana all’interno dell’ordinamento canonico. Anche in questo settore, tuttavia, la resistenza più tenace alla decentralizzazione emerge a proposito degli obblighi inerenti allo stato dei consigli evangelici e a quello clericale (cfr. per es. cann. 686, 691 § 2, 700; 291, 1078 § 2, 1079-1080).
Se si prescinde dall’avvenuto snellimento delle procedure, che interessa però anche la chiesa universale, non è registrabile invece nessun progresso, rispetto al CIC del 1917, nel settore della funzione giudiziaria. L’autonomia della giurisprudenza delle chiese particolari riconosciuta dal can. 19 del progetto del 1980, come fonte per colmare le lacune legislative, è stata all’ultimo momento soppressa. Se il problema era quello di garantire, anche nel settore giudiziario, l’uguaglianza di fronte alla legge, messa in discussione da una giurisprudenza locale spesso troppo disinvolta, si sarebbe potuto intervenire con accorgimenti di natura amministrativa, senza mortificare in se stesso il valore della giurisprudenza delle chiese particolari.
c) La ricezione istituzionale della «communio hierarchica ministeriorum» coincide largamente con il problema delle strutture sinodali o collegiali.
Per quanto concerne il rapporto collegio dei vescovi-papa, la letteratura più recente ha dimostrato con sufficiente precisione che il CIC, invece di recepire le formule dottrinali più
possibiliste della LG e più rispettose, non solo dell’esperienza storica dei concili ecumenici del primo millennio, ma anche della prassi stessa del Vaticano II83 ,ha preferito le interpretazioni istituzionali della Nexp., incapsulando il collegio dei vescovi in un rigoroso involucro gerarchico84 . La tendenza a sopravvalutare il primato affiora evidentemente anche in altri contesti, come per es. nell’attribuzione al papa del diritto di amministrazione e di disposizione su tutti i beni ecclesiastici, invece del semplice diritto di controllo (can. 1273).
Se è vero che il CIC, al di là di ogni eventuale intenzionalità politica, ha di fatto accantonato il concilio ecumenico in una posizione sistematica di secondaria importanza, rispetto allo stesso CIC del 19I7, non risulta invece altrettanto plausibile l’appunto di aver attribuito una priorità sostanziale e sistematica al collegio dei vescovi sul concilio85 . Il soggetto della «plena et suprema potestas» non è infatti il concilio in quanto tale, ma il collegio dei vescovi, anche durante la celebrazione del concilio. D’altra parte non v’è dubbio che il concilio debba essere considerato come espressione istituzionale necessaria della forma più vincolante, oltre che più solenne, della collegialità episcopale. Bisognerebbe però evitare l’equivoco di sottintendere che la collegialità, per essere reale, debba assumere la forma della “conciliarità”, se il termine conciliarità dovesse postulare la permanenza del concilio ecumenico86. Dal profilo terminologico la nozione astratta di “collegialità”, introdotta dalla dottrina, aggrava infatti l’ambiguità inerente al termine “collegio” che, pur essendo stato usato dal Vaticano II alternativamente ad altre nozioni giuridicamente meno compromesse («coetus», «ordo»), impedisce di estirpare dalla teologia e dalla canonistica la convinzione che la collegialità, per essere vera e reale, debba necessariamente esprimersi, non solo secondo la tecnica dell’atto collegiale, ma anche secondo la modalità piu vincolante del voto deliberativo. In effetti la realtà eccelsiologica della «communio hierarchica episcoporum» non è riducibile concettualmente alle nozioni giuridiche di collegio e di atto collegiale deliberativo, non tanto a causa della struttura gerarchica del collegio, come lascia intendere la Nexp. (n. 1), ma perché i vescovi sono legati dalla dimensione sinodale anche quando operano al di fuori delle strutture collegiali vere e proprie. Anche prescindendo dal fatto che il voto consultivo può esprimersi, secondo la tecnica giuridica dell’atto giuridico collegiale, come per es. nel sinodo dei vescovi, dove il soggetto operante non sono i singoli vescovi e neppure la maggioranza degli stessi, ma il sinodo in quanto tale, si deve ammettere che il termine “sinodalità”, risulta ultimamente piu atto del termine “collegialità” a trasmettere una comprensione carretta della realtà ecclesiologica. Non essendo viziato da preconcezioni storiche e giuridiche, esso permette di fatto di cogliere tutti i livelli espressivi della responsabilità «in solidum» del collegio dei vescovi87 : dalla concelebrazione che si esprime con atti paralleli, alla sollecitudine dei singoli vescovi per la chiesa universale, al magistero ordinario, che si esprime con atti collettivi, agli atti delle conferenze dei vescovi su oggetti non appartenenti alle proprie competenze in quanto istanza collegiale, agli atti consultivi del sinodo dei vescovi, del collegio dei cardinali, o dei consigli presbiterali e pastorali, ad altre eventuali forme giuridiche non ancora utilizzate, fino agli atti collegiali deliberativi del collegio e del concilio.
Per essere in grado di valutare quali potrebbero essere le esplicitazioni istituzionali, alternative, non solo alle soluzioni adottate dalla Nexp., ma eventualmente nuove anche rispetto alla storia dei rapporti collegio-papa, sarebbe comunque necessario chiarire in sede teorica una serie di altri dati e problemi teologici. Prima di tutto il fatto che la sinodalità, anche quando viene esercitata in funzione consultiva rispetto al primato, non è priva di una profonda valenza ecclesiologica88; essa non tende, infatti, a rafforzare solo il primato, ma anche la posizione dell’episcopato89 . In secondo luogo, il significato ecclesiologico attribuibile al fatto che il concilio ecumenico non ha mai avuto carattere permanente. È possibile allora affermare che il Vaticano II avrebbe espresso una istanza di conciliarità, se è in essa che deve essere ravvisato l’elemento fondamentale in cui potrebbero tradursi istituzionalmente i limiti eventualmente imposti dalla collegialità al primato? Non si può certo teoreticamente escludere che il collegio dei vescovi possa impegnarsi a celebrare il concilio a scadenze fisse. Se si ammette però che il concilio, per essere efficace, presuppone l’emergere di un bisogno della chiesa formulabile in modo sufficientemente articolato, il pericolo di avviare una prassi sinodale formale e controproducente è evidente; senza dire che il collegio rimarrebbe comunque sovrano rispetto a questo impegno. Anzi nell’ipotesi suggerita dalla teoria dell’unico soggetto di potere nella chiesa, secondo cui il papa esercita il potere del collegio stesso, si deve ammettere che anche il papa rimarrebbe probabilmente libero nei confronti della norma stabilita dal collegio. I limiti imposti dalla collegialità al primato non possono, infatti, essere intesi come riduzione materiale della «plena potestas», ma soltanto come limiti imposti alla modalità del suo esercizio. L’ipotesi di attribuire al sinodo dei vescovi la legittimazione di rappresentare tutto il collegio non sembra plausibile90, dal momento che nessuno nella chiesa, e perciò neppure i vescovi, può farsi rappresentare nell’atto di testimoniare la propria fede. Sia la formula di compromesso del can. 343, grazie alla quale il papa può attribuire al sinodo voto deliberativo, sia la tesi che prevede la possibilità di appello dal sinodo, investito «ex iure» di potere deliberativo, al collegio dei vescovi o al concilio, sono surrogati giuridici, utili forse per incoraggiare una prassi sinodale più intensa, ma incapaci di risolvere in sede teorica il problema dei limiti della collegialità sul primato. Ogni limitazione o autolimitazione del potere del papa, che prescindesse dalla verità oggettiva intrinseca al rapporto collegio-papa, avverrebbe nel segno di un nominalismo volontarista, incapace di instaurare una prassi dotata di spunti epistemologici atti a rivelare la natura intrinseca del rapporto stesso. Se in nome del principio, secondo cui la prassi ecclesiale può generare un processo di evoluzione della dottrina solo a condizione di essere fondata su elementi dottrinali già chiaramente acquisiti, e se è lecito perciò esprimere un’insoddisfazione sul fatto che il CIC abbia recepito la Nexp. invece delle formule più aperte e piu sicure della LG, si può solo auspicare che in avvenire la prassi sinodale del collegio episcopale, a livello di sinodo dei vescovi, sia sviluppata al massimo delle possibilità inerenti alla verità dogmatica attualmente già acquisita con certezza.
d) L’ultimo aspetto istituzionale della «communio ministeriorum» è quello del presbiterio. L’esistenza di questa realtà sinodale attorno al vescovo diocesano non è esigita semplicemente dalla necessità di dare un aiuto al vescovo, quasi non fosse in grado di onorare da solo la molteplicità dei compiti inerenti al suo ministero, bensì da ragioni ecclesiologiche, come abbiamo visto. Il presbiterio si esprime istituzionalmente prima di tutto nel consiglio presbiterale, che sfocia nel collegio dei consultori (can. 496 ss.), ma trova in tutta un’altra serie di istituti giuridici, gli elementi che in modo più o meno diretto contribuiscono a rendere più organica l’unità dei presbiteri tra di loro e con il vescovo91. Si tratta di istituti recepiti dal Vaticano II o espressi direttamente dal CIC, che tendono a smantellare quelle strutture che nel corso della storia si erano formate per garantire al clero una autonomia di tipo corporativistico sempre più grande nei confronti del vescovo, distruggendo l’idea stessa di presbiterio.
Non tutti gli istituti previsti dal concilio sono stati comunque recepiti dal CIC con la stessa determinazione. Il principio della comunione dei beni, suggerito da PO 8,3 e 17, e CD 28,3 e 4, è stato, per es., totalmente trascurato, e quello della vita comune è stato ripreso dal CIC (cann. 245 § 2, 280, 550 § 1-2, 533 § 1) con una persuasione ancora minore di quella del Vaticano II stesso (OT 11,2 e PO 8,3). Il CIC ha reso però obbligatorio il fondo comune diocesano per il sostentamento del clero (can. 1274 § 1), proposto come facoltativo da PO 21,1, ed ha specificato il diritto di associazione di tutti i fedeli (can. 215)anche per i chierici, privilegiando, sia pure discretamente, le associazioni del clero diocesano all’interno del presbiterio, rispetto a quelle realizzabili a livello di chiesa universale (can. 278).
Altri elementi di fondamentale importanza per la loro incidenza sul rapporto vescovo-presbiteri sono, da una parte quello della radicale relativizzazione del principio della territorialità, escluso dalla definizione teologica della chiesa particolare e della parrocchia (cann. 368-369, 374 § 1, 515 § 1 e 518), dall’altra, l’abolizione dal diritto comune del sistema beneficiale (can. 1272), con la conseguente soppressione del principio della inamovibilità (can. 522), postulati rispettivamente da PO 20,2, CD 31,3. Questi istituti avevano largamente contribuito a disgregare le diocesi in tante piccole entità parrocchiali garantendo al clero le condizioni materiali della loro autosufficienza economica, presupposto alla loro autonomia giuridica e pastorale. Con l’abolizione del regime beneficiale risulta collegato, almeno di fatto, la soppressione dei diritti di presentazione, di elezione popolare, oltre che dell’istituto del concorso, statuiti da CD 28,1 e «Eccl. Sanct.» 1, 18, in base ai quali va interpretato il can. 523, che stabilisce una chiara presunzione giuridica in favore della libera collazione degli uffici parrocchiali da parte del vescovo. Con l’abolizione della inamovibilità e con le norme sulla dimissione dei parroci per limiti di età, recepite dal can. 538 § 3 da CD 31,4 e «Eccl. Sanct». 1, 20 § 3, sta in rapporto anche la normativa del CIC sull’amozione e sul trasferimento dei parroci (cann. 1740- 1752), prevista da CD 31,3 e «Eccl. Sanct.» 1, 20 § 1. Tutti questi istituti hanno un nesso evidente, sia con una maggiore mobilità, alla quale il clero deve essere preparato attraverso l’educazione nei seminari (can. 257), sia con l’allentamento della disciplina della incardinazione (cann. 265-272), prevista da PO 10,2 ed «Eccl. Sanct.» 1, 23. Si tratta in complesso di norme che, oltre a sollecitare la responsabilità di tutti i presbiteri verso la chiesa universale, sottolinea nello stesso tempo il fatto che il clero è strutturalmente determinato nella sua missione apostolica dal costante riferimento al vescovo e al presbiterio. Questa metamorfosi dell’identità del clero diocesano, ottenuta con un’organica trasformazione delle strutture, rese più atte a sottolineare il legame ontologico, sacramentale e giurisdizionale esistente tra tutti i membri del presbiterio, fa emergere con chiarezza il principio, secondo cui la missione pastorale nella diocesi è affidata al presbiterio in quanto tale, sulla base di una responsabilità personale differenziata, ma sinodalmente reciproca. Ciò cambia alla radice il significato della coordinazione pastorale. Essa non è postulata da criteri efficientistici, bensì da un’esigenza ecclesiologica.
In questo quadro vanno iscritti anche due altri istituti, nuovi rispetto al concilio stesso: quello del conferimento «in solidum» di una o più parrocchie a più presbiteri (can. 517 § 1), che rende presente a livello parrocchiale la «communio ministeriorum» del presbiterio, e quello del collegio dei consultori diocesani (can. 502) che, nella misura in cui sostituisce i capitoli cattedrale, elimina quell’elemento corporativistico, che nelle diocesi ha enormemente contribuito a creare un’immagine di clero concorrenziale rispetto al vescovo.
4. La «sacra potestas»
a) Un altro contenuto centrale per la valutazione di come il CIC abbia recepito la dottrina del Vaticano II è quello della «sacra potestas»92. Il concilio ha evitato accuratamente di entrare in merito alle dispute dottrinali attorno all’esistenza di due poteri, di ordine e di giurisdizione o di un eventuale terzo potere, quello di magistero, lasciando però, per principio, intatte le distinzioni tradizionali93. È comunque un fatto incontrovertibile che il Vaticano II ha scelto di esprimersi in merito al potere della chiesa usando la nozione unitaria di «sacra potestas», estranea alla tradizione del CIC del 1917 evitando le nozioni di “potere di ordine” e “potere di giurisdizione”. Se si eccettua il caso di LG 23,2 in cui l’espressione «actus iurisdictionis» sembra coincidere con quella di «potestas iurisdictionis», in tutti gli altri testi dove il termine «iurisdictio» assume significato canonico e non puramente civile, esso è sostituibile, senza alterazione di significato, con il termine unitario e generico di «potestas» o «auctoritas», privo del genitivo specificativo «iurisdictionis»94.
Il CIC non ha raccolto questa indicazione, né dal profilo materiale né da quello formale, preferendo seguire tre fonti di ispirazione diverse, che hanno in comune la preconcezione della chiesa come «societas» e, conseguentemente, una connotazione secolarizzante del potere ecclesiale: quella della dottrina soggiacente alla Nexp., che non appartiene necessariamente al suo contenuto dogmatico95; quella secondo cui la natura del potere di ordine e di quello di giurisdizione è diversa, e, incline, quella della distinzione del potere di giurisdizione in potere legislativo, amministrativo e giudiziario, molto prossima alla teoria filosofica e statuale della separazione dei poteri. Sintomo inconfondibile della rinuncia del CIC a trattare la «potestas» come realtà unitaria è senza dubbio lo stralcio dal can. 1213 della nozione di «sacra potestas», ancora presente nello stesso can. del progetto del 1982. Il contesto in cui essa appariva era a dire il vero dottrinalmente irrilevante. Tuttavia è molto significativo che il CIC abbia voluto, all’ultimo momento, sostituire la formula, secondo cui i vescovi sono liberi di esercitare la «sacra potestas» nelle chiese, con la formula al plurale, più ambigua che mai, secondo cui i vescovi sono liberi nelle chiese di esercitare «suas potestates et munera (sic!)».
b) Nell’ambito sacramentale dell’esercizio della «potestas» il CIC rinuncia sia al termine «potestas», sia all’istituto della «delegatio», tradizionalmente usato per designare la trasmissione del contenuto materiale di un potere.
Il contesto piu significativo è senza dubbio quello del sacramento della penitenza (can. 872 ss.), ritenuto dalla scuola canonistica, di cui il Mörsdorf è il rappresentante contemporaneo più illustre96, come l’esempio più eloquente del concorso del potere di ordine e di quello di giurisdizione nel produrre casualmente l’unico effetto sacramentale: la riconciliazione con Dio e con la Chiesa. Contrariamente al CIC del 1917 (can. 872 ss.) il nuovo CIC sostituisce regolarmente il termine «potestas» («iurisdictionis», «absolvendi», «audiendi confessiones») con il termine «facultas», rinunciando conseguentemente anche all’istituto della delegatio (can. 966 ss.). Anzi, nel can. 966 il CIC sembra suggerire esplicitamente che l’assoluzione dei peccati sia l’effetto della sola «potestas ordinis». Risulta perciò molto difficile interpretare la «facultas» come «potestas». Lo stesso fenomeno ricorre costantemente: nel sacramento della cresima, dove invece di «delegatio potestatis» si usa (contrariamente al vecchio CIC, can. 782 § 2 e 5)il termine «concessio facultatis» (can. 882 ss.), più appropriato per l’autorizzazione o la «licentia»; nel sacramento del matrimonio, dove però il termine «facultas» viene abbinato, non senza cadere nella stessa contraddizione terminologica del vecchio CIC (can. 1094), con quello di «delegatio»; da ultimo nell’ambito dei sacramentali. Mentre per i sacramentali conferibili anche dai laici il CIC ricorre al termine «potestas» (can. 1168), presupponendo così il possesso di un potere delegato, per le consacrazioni, che presuppongono il possesso del potere di ordine, usa il termine «concessio» (can. 1169 § 2), correlativo a «facultas».
Bisogna concludere che il CIC non considera piu (come era possibile affermare invece per il vecchio CIC) l’amministrazione dei sacramenti come un atto congiunto del potere di ordine e di giurisdizione (intesi come due contenuti materiali diversi), bensì come effetto esclusivo del potere di ordine. La «potestas iurisdictionis» non opererebbe più intrinsecamente, ma solo estrinsecamente, accanto a quello sacramentale, come potere sociale di natura solo formale, preposto alla corretta amministrazione dei sacramenti. Sembra evidente perciò, che il CIC abbia adottato, dal profilo dottrinale, la stessa soluzione soggiacente alla Nexp. (n. 2), ispirata alla teoria di cui il Bertrams è, tra i canonisti contemporanei, l’esponente principale97. Né la Nexp., ne il CIC danno una spiegazione teologicamente plausibile di come la «potestas iurisdictionis», intesa come avente carattere solo formale, possa all’occorrenza annullare l’efficacia del potere di ordine (unico ad avere un contenuto materiale), senza che quest’ultimo cessi di esistere concettualmente come vero potere. Si tratta di un sistema che attribuisce perciò una priorità ecclesiologica al potere sociale di giurisdizione su quello sacramentale di ordine.
c) Nell’ambito non sacramentale il CIC sembra invece considerare la «potestas iurisdictionis» un potere con un contenuto materiale proprio, diverso da quello della «potestas ordinis».
Come il codice piano-benedettino, il nuovo CIC usa rigorosamente il termine «potestas (iurisdictionis)», in relazione a quegli atti dell’autorità della chiesa, tradizionalmente ritenuti come evidente emanazione del potere di governo: così per la concessione delle indulgenze (can. 995), dove non esistono dubbi che la «potestas» debba essere intesa come potere di giurisdizione, dal momento che il collegio dei vescovi («suprema Ecclesiae potestas») non può esprimersi collegialmente secondo la logica di comunicazione del segno sacramentale, ma solo secondo quella della Parola, cioè della giurisdizione; così per la «potestas dispensandi», dai voti (can. 1196), dal giuramento (can. 1203) e dagli impedimenti matrimoniali (can. 1079 § 2-4). Il discorso è analogo per la remissione delle pene canoniche, in foro esterno (can. 1354 § 2). L’eccezione conferma in questo contesto quanto detto sopra a proposito dell’uso del termine «facultas» nell’ambito sacramentale. Il can. 1357 § 2 non usa infatti il termine «potestas», bensì quello di «facultas», a proposito del confessore abilitato a rimettere le pene, affermando che deve essere «facultatem praeditum».
Dall’analisi di questi due ambiti risulta che il CIC distingue con evidente rigidità le due «potestates», quella di ordine e giurisdizione, attribuendo alla prima contenuto materiale e alla seconda carattere solo formale di controllo. Usando nell’ambito sacramentale il termine «facultas» e in quello extrasacramentale il termine «potestas», esso conferisce due significati diversi al potere di giurisdizione stesso, uno formale e uno contenutistico, secondo che operi nel primo o nel secondo ambito. Questo duplice dualismo, in cui affiora inequivocabilmente la duplice ecclesiologia della «communio» e della «societas», è contenuto «in nuce» già nel can. 130 dove si statuisce il principio, avallato dall’autorità del sinodo dei vescovi del
196798, secondo cui la «potestas regiminis» deve operare normalmente nel foro esterno e solo in via eccezionale nel foro interno, analogamente del resto a quanto aveva già ritenuto utile fare il legislatore del 1917 (can. 202), che aveva però come modello di chiesa quello della societas perfecta.
d) Questa posizione positivistica è superabile solo interpretando le indicazioni date dal Vaticano II, sia a proposito dell’unità della «sacra potestas», che ha orientato la maggioranza dei teologi e una parte dei canonisti a ritenere che tutto il potere nella chiesa abbia origine dal sacramento; sia a proposito della dottrina secondo cui l’unica chiesa di Cristo si realizza secondo gradi diversi di comunione; dottrina recepita anche dal CIC (cfr. per es. il can. 844).
Il Mörsdorf ha intuito che la distinzione tra ordine e giurisdizione ha la sua genesi nella distinzione dei due elementi che nella chiesa generano l’istituzione, il Sacramento e la Parola99 . Essi sono le due modalità formali diverse attraverso cui Dio ha manifestato e comunicato la salvezza, che non è solo unitaria, ma è unica e indivisibile come la persona di Cristo stesso, Parola diventata nell’incarnazione sacramento di salvezza. Come Cristo si comunica, nella sua totalità, nel sacramento e nella Parola, strutturalmente reciproci, con l’unicità del Sacramento e della Parola si manifesta e si realizza attraverso le due modalità istituzionali, che la canonistica ha definito terminologicamente come potere di ordine e potere di giurisdizione. Mentre nell’ordine prevale la logica di comunicazione propria al segno simbolico sacramentale, nella giurisdizione prevale la logica formale del linguaggio parlato, cioè della Parola («iuris dictio»). Ordine e giurisdizione sono così gli strumenti istituzionali in cui opera tutta la «potestas sacra» e non solo una parte di essa. La «potestas sacra» non agisce perciò secondo due contenuti materiali diversi, ma secondo due modalità formali diverse, essendo il loro contenuto salvifico identico. Ne consegue che la distinzione tra potere di ordine e di giurisdizione non è materiale ma formale.
Ciò permette di superare le due teorie tradizionali: quella secondo cui l’ordine e la giurisdizione conferiscono due parti complementari della «sacra potestas», per cui è sufficiente che la chiesa non dia, o ritiri, la giurisdizione, per vincolare «ad validitatem» i sacramenti (Mörsdorf), e quella, secondo cui il potere di ordine comprende tutto il contenuto materiale della «potestas», mentre la giurisdizione ha carattere solo formale (Bertrams). Anche in questa seconda teoria il controllo sul potere di ordine avviene secondo una soluzione volontaristica: con la giurisdizione la chiesa è in grado di sciogliere o legare il potere di ordine fino a determinare la validità del suo esercizio.
Distinguendo tra la trasmissione della «sacra potestas», che può avvenire solo attraverso il sacramento dell’ordine, in cui la Parola è presente (fatto che spiega perché la successione apostolica è legata nella pienezza della sua espressione al sacramento dell’ordine), e il suo esercizio, che avviene secondo le due logiche di comunicazione diverse del Sacramento e della Parola, si deve concludere che la «sacra potestas» quando è esercitata entro i limiti della «substantia Sacramenti» e della «substantia Verbi» è sempre sufficientemente efficace per generare la chiesa di Cristo. In forza della «sacra potestas», che esercita perciò un controllo su se stessa, la chiesa constata quali sono gli elementi essenziali richiesti dallo «ius divinum», perché il Sacramento sia un sacramento e perché la Parola sia ancora sufficientemente completa per essere ancora la Parola di Dio. Nell’ipotesi che questi due elementi si realizzino nella loro sostanza, la chiesa non può impedire che operino efficacemente anche al di fuori della «communio plena», in modo proporzionale al grado di integralità del loro contenuto. La dottrina del Vaticano II, secondo cui la chiesa di Cristo sussiste nella comunione piena della chiesa cattolica anche in forza del fatto che in essa l’immanenza tra la dimensione universale (tutti i sacramenti e tutta la dottrina) e quella particolare è totale, ma si realizza, anche al di fuori dei confini della chiesa cattolica, secondo gradi diversi, fa comprendere come anche la «sacra potestas», attraverso cui si esprime in modo vincolante la salvezza, si realizzi secondo gradi diversi di efficacia. Ciò permette di evitare ogni soluzione volontaristica nella valutazione della validità o invalidità dei sacramenti e della Parola. La «communio» diventa l’orizzonte della validità o invalidità degli atti posti, sia dalla chiesa cattolica, sia dalle chiese e comunità ecclesiali separate, essendo, da una parte la realtà ecclesiologica entro cui la «sacra potestas» deve agire per essere efficace, dall’altra la realtà che la «sacra potestas» contribuisce a generare. La «communio» è un dato di fatto, che esiste o non esiste, e su cui la chiesa è chiamata a giudicare in forza della «sacra potestas» stessa, ma è diversa concettualmente e ontologicamente dalla «sacra potestas», poiché le è precedente e conseguente nello stesso tempo.
Quando un ministro cattolico nell’uso delle funzioni di ordine e giurisdizione della «sacra potestas» dovesse eccedere i limiti impostigli dalla «communio plena», fissati in linea di principio dall’ordinamento canonico, gli atti sacramentali e giurisdizionali da lui posti cessano di essere capaci di realizzare la «communio plena» e, di conseguenza, di essere vincolanti per la chiesa cattolica. Ciò non significa necessariamente che questi atti siano nulli o invalidi nello stesso senso che il concetto di nullità o invalidità assume nella teoria generale del diritto. Quando la «substantia Sacramenti» e la «substantia Verbi» è rispettata, ogni intervento positivo che dichiari nullo, invece che semplicemente illecito, un atto giurisdizionale o sacramentale posto da un ministro, proporzionalmente al grado dell’ordine ricevuto (vescovo o presbitero), è precario, come lo sono per es. le norme che dichiarano nulli i sacramenti della penitenza (can. 966 § 1) o della cresima (can. 882), amministrati da un presbitero senza la «facultas» necessaria.
e) Un’ultima prova dell’approccio positivistico del problema della «sacra potestas», che rivela nel CIC l’assenza di una qualsiasi preoccupazione di dare alla materia, così centrale per l’ecclesiologia e l’ordinamento canonico, un minimo di orientamento teologico e conciliare, è l’introduzione massiccia di una terminologia giuridica di sapore prettamente civilistico. La «sacra potestas» si articola, infatti, non solo in «potestas ordinis et iurisdictionis», ma in «potestas legislativa, executiva, iudiciaria» e perfino in «potestas interpretandi» (can. 129 ss., 16 § 1). Se lo scopo era di sottolineare, con maggior chiarezza rispetto al CIC del 1917, i diversi settori e i diversi criteri dell’esercizio del potere nella chiesa. il risultato è stato in definitiva quello di dare l’impressione che, invece di funzioni diverse della stessa «sacra potestas», si tratti, come negli ordinamenti giuridici statuali, di veri e propri poteri separati.
In nome di una efficienza tecnica e giuridica, ispirata ad un criterio di modernità, per altro suggerito dal sinodo dei vescovi del 1967, il CIC ha purtroppo marcato nel settore, ecclesiologicamente così vitale della «potestas», una innegabile regressione teologica.
3. Conclusione
Il processo di ricezione del Vaticano II nel CIC non è valutabile adeguatamente applicando il metodo scientifico positivo. Se fosse possibile procedere ad un semplice confronto dei contenuti materiali dei testi, prescindendo dall’interpretazione globale delle tendenze profonde del concilio, si dovrebbe accettare il fatto che il CIC ha recepito, quasi in ugual misura, sia l’ecclesiologia della «societas», sia quella della «communio».
Tutt’al più si dovrebbe registrare il fatto che le diverse esigenze sistematiche del CIC, rispetto al concilio, hanno conferito maggiore evidenza allo scarto incolmabile esistente tra le due ecclesiologie.
Per chi ritenesse, di conseguenza, che la duplice matrice ecclesiologica del Vaticano II è strutturale e ineliminabile dalla teologia, la constatazione che il CIC si è prematurato di recepirle equamente potrebbe risultare soddisfacente. Il dover constatare già a questo livello numerosi limiti e omissioni di dettaglio, per altro diversamente importanti, nella ripresa materiale e formale dei singoli testi, rimane secondario in ordine al giudizio complessivo, soprattutto se si tiene conto del fatto che il concilio e il CIC, pur nella loro diversa funzione ecclesiale, non sono in realtà riducibili alla nozione di documento o di fonte, poiché sono eventi100 della tradizione orale della chiesa, che sfuggono alla possibilità di una interpretazione puramente positivista.
Per chi invece, rifiutando la prassi teologica invalsa negli ultimi secoli, ritenesse che la chiesa non è una società umana “elevata” alla sfera soprannaturale, bensì una realtà sociale generata dalla communio – elemento costitutivo formale di tutta la realtà istituzionale della chiesa –101, i criteri di giudizio sulla recezione cambiano inevitabilmente. Non è più possibile, infatti, pensare che l’istituzione e il diritto siano generati nella chiesa dal “dinamismo spontaneo” (biologico) della convivenza umana, come nello stato, poiché nascono dal dinamismo sociale specifico della comunione e sono conoscibili nella loro essenza solo attraverso la fede. Se l’essenza della socialità ecclesiale e del diritto canonico differisce profondamente da quella della socialità umana e dal diritto statuale, perché di origine eminentemente sacramentale, allora neppure la «sacra potestas» non può più essere considerata come un potere sociale avente la stessa natura di quello dello stato. La «sacra potestas» coincide infatti con la forza vincolante salvifica insita alla Parola e al Sacramento, che congiuntamente e nella stessa misura, ma secondo una logica formale di comunicazione diversa, generano la chiesa stessa con la sua socialità, in ordine alla realizzazione di una salvezza escatologica già presente nella storia.
Se è legittimo pensare che l’ecclesiologia della comunione è destinata a riassorbire progressivamente tutti i residui giusnaturalistici da cui prende spunto l’ecclesiologia della società, in una sintesi teologica capace di elidere ogni approccio dualistico, allora è evidente che il CIC non è stato in grado di recepire questo dato conciliare con tutta la sua forza espansiva, individuandolo come unico elemento vincente nel futuro. Che il CIC non sia uscito da questa ambiguità, a vent’anni dal Concilio, non può evidentemente essere motivo di soddisfazione. Se a questo si aggiungono, sia la discontinuità del CIC nell’applicare l’epistemologia propria alla fede – postulata dal principio ecclesiologico della «communio» (OT 16,4) – nell’organizzazione sistematica globale della materia legislativa e nell’approccio dei singoli contenuti, sia le scollature reperibili tra i testi conciliari e quelli normativi del CIC, emergenti nella ricezione materiale e formale di molti istituti, il giudizio diventa necessariamente più severo. Ciò anche quando esso si appoggiasse, come nel nostro caso, solo su un’analisi parziale, limitata comunque ad alcuni settori legislativi fondamentali.
Evidentemente non è possibile erigere la questione particolare della ricezione del Vaticano II ad unico ed esclusivo criterio di valutazione del CIC. Molti altri punti di vista dovrebbero essere presi in considerazione, non da ultimo quello della funzionalità della sua promulgazione all’attuale momento storico della chiesa. Un fatto sembra comunque certo: il CIC segna una tappa di transizione di grande importanza per la vita della chiesa. La sua novità, anche se solo parziale, rispetto al CIC del 1917 è tale da produrre effetti irreversibili, sia sull’immagine istituzionale della chiesa, sia sulla metodologia della scienza canonistica. Quest’ultima è per altro già entrata da ben oltre un ventennio (malgrado le molteplici resistenze persistenti nella dottrina, che nel CIC potranno ancora trovare elementi giustificativi ormai consunti) nella sua quarta fase di sviluppo: quella teologica, fondata sulla coessenzialità del principio teologico per l’elaborazione della teoria generale del diritto canonico. Essa è stata preceduta dalla fase sapienziale del primo millennio, da quella tecnico-giuridica di estrazione romanistica dell’epoca d’oro e da quella giusnaturalistica e apologetica dello «Ius Publicum Ecclesiasticum».
Solo la distanza negli anni permetterà di valutare con sufficiente equilibrio e magnanimità l’impatto del nuovo CIC sulla coscienza e la prassi della chiesa latina e universale. Per il momento resta l’impressione che il tentativo compiuto dal CIC di mettere ordine nella disciplina della chiesa recependo molte delle spinte innovatrici del Vaticano II, ma nello stesso tempo con l’intento di contenere le disarticolazioni e le profonde tensioni emerse nella stagione post-conciliare, sia paragonabile alla decisione di mettere il coperchio ad una pentola a pressione, la cui valvola di sicurezza rimane il principio insinuato da papa Giovanni Paolo II, secondo cui il CIC deve essere interpretato alla luce del Vaticano102. Principio che dovrà presiedere ai lavori della Pontificia Commissione per l’Interpretazione Autentica del Codice di Diritto Canonico.
Quando l’ebollizione avrà permesso un più alto grado di decantazione dei problemi dottrinali e istituzionali che travagliano attualmente la chiesa, sarà possibile aprire un’ulteriore pagina della sua storia.
[1] Tra le numerose pubblicazioni apparse dopo la promulgazione del CIC si deve tener conto delle edizioni commentate del CIC in lingua spagnola e latina: Codigo de Derecho Canonico, Director L. De Echeverria, Madrid 1983; Codigo de Derecho Canonico, a cargo de P. Lombardia e J.I. Arrieta, Pamplona 1983; dei manuali: Nuevo Derecho Canonico, Dir. L. De Echeverria, Madrid 1983; H. Schwendenwein, Das neue Kirchenrecht, Graz 1983; Handbuch des katholischen Kirchenrechts, hrsg. von J. Listl- H. Müller- H. Schmitz, Regensburg 1983; H. Heimerl – H. Pree, Kirchenrecht. Allgemeinen Normen und Eherecht, Wien-New York 1983; M. Petroncelli, Diritto Canonico, Napoli 1983; G. Feliciani, Le basi del nuovo diritto canonico, Bologna 1984; Münsterischer Kommentar zum codex Iuris Canonici, hrsg. von K. Lüdicke, Essen 1984; delle raccolte di scritti: Il nuovo codice di diritto canonico, a cura di S. Ferrari, Bologna 1983; La nuova legislazione canonica, Roma 1983; La normativa del nuovo codice, a cura di E. Cappellini, Brescia 1983; E. Cappellini – F. Coccopalmerio, Temi pastorali del nuovo codice, Brescia 1983; F. Coccopalmerio – P.A. Bonnet – N. Pavoni, Perché un codice nella Chiesa?, Bologna 1984; Dilexit Justitiam. Studia in honorem Aurelii card. Sabattani, curantibus Z. Grocholewski et V. Carcel Ortì, Città del Vaticano 1984; dei quaderni monografici delle riviste: «AfkKR» 152/I (1983); La Scuola Cattolica 112 (1984); delle monografie: J.B. Beyer, Dal Concilio al Codice (Il Codice del Vaticano II), Bologna 1984; C. Cardia, Il governo della Chiesa, Bologna 1984; V. Fagiolo, Il Codice del Post-Concilio. Introduzione, Roma 1984; degli atti dei congressi: Il nuovo codice di diritto canonico. Novità, motivazioni e significato. Atti della Settimana di Studio del 26-30 aprile 1983, della Pontificia Università Lateranense, Roma 1983; I diritti fondamentali del fedele e le garanzie costituzionali, Atti del V Colloquio Giuridico della Pontificia Università Lateranense dell’8-10 febbraio 1984 (in pubblicazione); Foi et Institution dans le CIC, Actes de la XVIIe Session de Droit Canonique organisée par la Société Internationale de Droit Canonique et de la Législation Religieuse Comparée et par l’Institut Catholique de Paris, du 26-30 avril 1984 a Paris (in pubblicazione); The New Code of Canon Law, Acts of the 5th International Congress of Canon Law, organised from the Consociatio International Congress of Canon Law, organised from the Consociatio Internationalis Studio Iuris Canonici Promovendo by the Saint Paul University of Ottawa, from august 19-26 1984 (in pubblicazione; esistono due volumi di Papers Presented to the Congress); per la storia della codificazione cfr. F. D’Ostilio, La storia del nuovo codice di diritto canonico, Città del Vaticano 1983; J. Gaudemet, Collections canoniques et codifications: «RDC» 73 (1983) 82-109; R. Metz, La nouvelle codification du droit de l’Eglise, ivi 110-168.
[2] Sono complementari a questo articolo i nostri scritti: I presupposti culturali ed ecclesiologici del nuovo “Codex”, in Il nuovo codice di diritto canonico, a cura di S. Ferrari, cit., 37-68 (traduzione tedesca in: «AfkKR» 152/I [1983] 3-30); Theological Justifications of the Codification of the Latin Canon Law, in Acts of the 5th International Congress of Canon Law, Ottawa, cit.. in corso di pubblicazione.
[3] Cfr. G. Alberigo, Egemonia istituzionale nella cristianità?: «Cristianesimo nella storia» 5 (1984) 49-68.
[4] Cfr. N. Irti, L’Età della decodificazione, Milano 1979, 3-39; R. Sacco, Codificare: modo superato di legiferare?: «Rivista di Diritto Civile»29 (1983) 117-135.
[5]·Cfr. A. Rouco Varela, Le statut ontologique et épistémologique du droit canonique: «RSPhTh» 57 (1973) 203-226; E. Corecco, “Ordinatio rationis” o “Ordinatio fidei?” Appunti sulla definizione della legge canonica: Strumento Internazionale per un Lavoro Teologico: «Communio» 36 (1977) 1-2 (traduzione francese in: «RCI Communio» 3 (1978) 22-39).
[6] Cfr. A. Acerbi, Due ecclesiologie: Ecclesiologia giuridica e ecclesiologia di comunione nella “Lumen Gentium”, Bologna 1975.
[7] Rechtstheologische Überlegungen zum neuen kirchliche Gesetzbuch: «ThQ» 163 (1983) 178-188.
[8] Cfr. H. Müller, De analogia Verbum Incarnarum inter et Ecclesiam (L.G. 8/a): «PRMCL» 66 (1977) 499-512.
[9] Cfr. per es. A. Rouco Varela, Katholische Rechtstheologie heute. Versuch eines analytischen Überblikes: «AfkKR» 145/1 (1976) 19.
[10] Come per es. nel diritto matrimoniale.
[11] Cfr. R. Sobánski, L’ecclésiologie du nouveau Code de Droit Canon, in Acts of the 5th International Congress of Canon Law, Ottawa 1984, cit.. in corso di pubblicazione.
[12] Cfr. H. Schniter, Individuelle und Gemeinschaftliche Verrwiklung der Grundrechte, in I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella socità. Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, Fribourg (Svizzera) 6-11.10.1980, a cura di E. Corecco – A. Scola – N. Herzog, Fribourg (Suisse) – Freiburg i.Br. – Milano 1981, 419-448.
[13] Cfr. Sobánski, Rechtstheologische Überlegungen, cit., 186-188.
[14] Per es. nel catalogo dei doveri-diritti dei fedeli (can. 208-223). Cfr. E. Corecco, Il catalogo dei doveri-diritti del fedele nel nuovo CIC, in Atti del V Colloquio Giuridico della Pontificia Università Lateranense, cit., in corso di pubblicazione.
[15] Sul principio della ricezione cfr. per es. W. Krämer, Konsens und Rezeption. Verfassungsprinzipien der Kirche im Basler Konziliarismus, Münster 1980, spec. 318-366; G. Alberigo, Wahl-Konsens-Rezeption im Christlichen Leben: «Concilium» 8 (1972) 477-483.
[16] Cfr. E. Corecco, Dimettersi dalla Chiesa per ragioni fiscali: «Apollinaris» 55 (1982) 467-487.
[17] Quest’idea è perdurata nella canonistica fino al sec. XVII; cfr. W. Schwickerat, Die Finanzwirtschaft der deutschem Bistümer, Breslau 1942, 79; J. Evelt, Die Kirche und ihre Institute auf dem Gebiete des Vermögensrechtes, Soest 1845, 4-6
[18] Sulla questione cfr. la tesi di laurea di L. Gerosa, La scomunica è una pena? Saggio per una fondazione teologica del diritto penale canonico, Fribourg (Suisse) 1984 spec. 249-388.
[19] Cfr. il primo discorso ai giudici della SRR: “… la pena comminata dall’autorità ecclesiastica (ma che in realtà è un riconoscere una situazione in cui il soggetto stesso si è collocato) va vista… come strumento di comunione”. Per un commento cfr. Gerosa, op. cit., 138 e 243.
[20] Cfr. «Communicationes» 2 (1969) 84-85.
[21] Ordinarius proceduram iudicialem vel administrativam ad poenas irrogandas vel declarandas tunc tantum promovendam curet, cum perspexerit neque fraterna correctione neque correptione neque aliis pastoralibus sollicitudinis viis satis posse scandalum reparari, iustitiam restitui, reum emendari.
[22] Sulla disputa che ha impegnato a proposito di questo problema la canonistica laica italiana, cfr. E. Corecco, Valore dell’atto «contra legem», in La norma en el derecho canonico, Actas del III Congreso Internacional de Derecho Canonico, Pamplona 10-15 de octubre de 1976, Pamplona 1979, 1, 839-868.
[23] Cfr. «Communicationes», cit., 5, 80-82.
[25] Per tutti cfr. K. Barth, Die Ordnung der Kirche. Zur dogmatischen Grundlegung des Kirchenrechts, München 1955; E. Wolf, Ordnung der Kirche. Lehr-und Handbuch des Kirchenrechts auf ökumenischer Basis, Frankfurt a.M. 1961.
[26] Per es. W. Aymans, Ekklesiologische Leitlinien in den Entwürfen für die neue Gesetzgebung: «AfkKR» 151/1 (1982) 27-57.
[27] Cfr. A. Rouco Varela, Was ist “katholische” Rechtstheologie?: «AfkKR» 153/2 (1966) 530-543; Idem, Die katholische Rechtsteologie heute: «AfkKR» 145/1 (1976) 3-21.
[28] Cfr. Communicationes, cit., 1, 78-79.
[29] L’idea è stata proposta (anche in sede di Commissione per la Revisione nel CIC) da St. Kuttner, Betrachtungen zur Systematik eines neuen Codex Iuris Canonici, in Ex Aequo et Bono, W. Plochl zum 70. Geburtstag, «hrsg.» von P. Leisching- P. Pototschning- R. Potz, Innsbruck 1977, 15-21. Gesetzgebung: «AfkKR» 151/1 (1982) 27-57.
[29] Cfr. A. Rouco Varela, Was ist “katholische” Rechtstheologie?: «AfkKR» 153/2 (1966) 530-543; Idem, Die katholische Rechtsteologie heute: «AfkKR» 145/1 (1976) 3-21.
[29] Cfr. Communicationes, cit., 1, 78-79.
[29] L’idea è stata proposta (anche in sede di Commissione per la Revisione nel CIC) da St. Kuttner, Betrachtungen zur Systematik eines neuen Codex Iuris Canonici, in Ex Aequo et Bono, W. Plochl zum 70. Geburtstag, «hrsg.» von P. Leisching- P. Pototschning- R. Potz, Innsbruck 1977, 15-21.
[30] Così J. Beyer, Il nuovo codice di diritto canonico: «La Scuola Cattolica» 112 (1984) 130-133.
[31] È il problema che si pone W. Aymans, Ekklesiologische Leitlinien, cit., 38.
[32] Sul problema cfr. E. Corecco, La “Sacra Potestas” e i Laici:«Studi Parmensi» 27 (1980) 5-26.
[33] Cfr. Il nuovo codice di diritto canonico, cit., 133. I numeri II-IV dello schema del Beyer, pur avendo titoli diversi, trattano in sostanza dei sacramenti.
[34] Se si prescinde dal battesimo, che nei cann. 96 e 204 apre il discorso sulle “persone fisiche” e i fedeli, gli altri sacramenti non sono collocati dal CIC in un contesto sistematico che mette in luce la loro funzione genetica rispetto alla normativa. Così, le norme sullo statuto dei chierici (can. 232 ss.) è staccato dal sacramento dell’ordine; quelle sulla chiesa universale e particolare (can. 330 ss. e 368 ss.) non hanno nessun nesso sistematico con l’eucaristia, e la famiglia, di cui il CIC parla poco e senza ordine, non appare contestualmente come esito del sacramento del matrimonio.
[35] Sul problema cfr. E. Corecco, Considerazioni sui diritti fondamentali del cristiano nella chiesa e nella società, in I diritti fondamentali, Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, cit., 1219-1222.
[36] Cfr. C. Mirabelli, Protezione giuridica dei diritti fondamentali, in ibid. 397-414.
[37] Cfr. H.U. von Balthasar, Christlicher Stand, Einsiedeln 1977, spec. 237-266.
[38] È sorprendentemente del parere che i consigli evangelici appartengano al diritto associativo e non a quello costituzionale W. Aymans, Ekklesiologische Leitlinien, cit., 43-45.
[39] Cfr. H.U. von Balthasar, Christlicher Stand, cit., 294-314.
[40] Cfr. a questo proposito la critica già fatta al progetto del CIC del resto da J. Komonchak, Die Stellung der Gläubigen im neuen Kirchenrecht: «Concilium» 17 (1981) 561-567.
[41] Il testo principale in questo senso è quello di AA 3,4.
[42] Cfr. il can. 605. Nel progetto del 1982 il carisma ricorreva ancora nei cann. 580, 590 § 3, 631 § 1, 708, 716 § 1, 717 § 3, 722 § 1 e 2.
[43] È interessante constatare che il Vaticano II non parla mai del carisma in riferimento ai membri degli Istituti di Vita Consacrata (alias Religiosi).
[44] Mentre LG 12,1 recita: Universitas Fidelium, qui unctionem habent a Spiritu Sancto… in credendo falli nequit, atque hanc suam peculiarem proprietatem mediante supernaturali sensu fidei totius populi manifestat, cm “ab Episcopis usque ad extremos laicos fideles” universalem suum consensum de rebus fidei et morum exhibet. Illo enim sensu fidei… Populus Dei sub ductu sacri magisterii, cui fideliter obsequens…indefectibiliter adhaeret…; il can. 750 recita: Fide divina et catholica ea omnia credenda sunt quae verbo Dei scripto vel tradito…continentur, et insimul ut divinitus revelata proponuntur, sive ab Ecclesiae magistero solemni, sive…ordinario et universali; quod scilicet communi adhaesione fidelium sub ductu sacri magisterii manifestatur…” (sottolineature mie). Sulla questione del sensus fidei cfr. R. Bertolino, “Sensus fidei” e consuetudine nel Diritto della Chiesa, in Studi in onore di Pietro Gismondi (in corso di pubblicazione).
[45] Queste formule, da sole, non permettono una interpretazione univoca della mente del legislatore, anche se sembra chiaro che “cooperare” non significa “partecipare” alla natura di un potere o di un ufficio di cui è titolare un altro. Infatti, anche i presbiteri, che sono i fidi cooperatores del vescovo (can. 245 § 2), lo aiutano in forza del grado di ordine sacro di cui sono investiti, senza però partecipare alla pienezza del sacramento del vescovo. Ne consegue che l’interpretazione deve appoggiarsi su una preconcezione ecclesiologica. Chi tende a dividere la sacra potestas in due poteri, quello di ordine e di giurisdizione, riterrà inevitabilmente che è possibile delegare ai laici il potere di giurisdizione, come per es. G. Ghirlanda, De laicis iuxta novum codicem: «PRMCL» 72 (1983) 53-70; Idem, I laici nella Chiesa secondo il nuovo diritto canonico: «Aggiornamenti Sociali» 7/8 (1983) 485-496
[46] G. Feliciani, I diritti e i doveri dei fedeli in genere e dei laici in specie. Le associazioni, in «Il Nuovo Codice di Diritto Canonico», a cura di S. Ferrari, cit., 266-269.
[47] Il can. 268 del CIC del 1917 si limitava, in una prospettiva giuridica non costituzionale, a lodare quei fedeli che avessero voluto aderire alle associazioni erette o raccomandate dalla gerarchia. Evidentemente l’esistenza di associazioni “raccomandate”, presuppone implicitamente l’esistenza del diritto dei fedeli di porle in essere.
[48] Cfr. per es. il n. 58 dell’Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi dell’8 dicembre I975.
[49] Cfr. G. Feliciani, I diritti e i doveri dei fedeli, cit., 270-273.
[50] Evidentemente il computo delle fattispecie può variare secondo diversi criteri di individuazione. In ogni caso le fattispecie non riferibili esclusivamente ai laici sembrano essere le seguenti: can. 225 § 1 (1a frase), 229 §§ 1-3, 231 §§ 1-2.
[51] La risposta data dalla presidenza della Commissione nella Relatio del 1982 all’obiezione del card. Palazzini circa la mancanza di un Libro sul De munere regendi è, a dir poco, evasiva. Cfr. «Communicationes» 14 (1982) 2, 123 Cfr. anche il testo pubblicato nel 1981 n. 4, 12.
[52] Il testo conciliare recita: Praeterea (laici) aptitudine gaudent, ut ad quaemdam munera ecclesiastica, ad finem spiritualem exercenda, ab Hierarchia adsumantur; il § 2 del can. 129 recita invece: In exercitio eiusdem potestatis (regiminis), christifideles laici ad normam iuris cooperari possunt (sottolineature mie).
[53] Il testo di CD usa l’espressione valde optandum; il can. gli dice semplicemente… quatenus pastoralia adiuncta id suadeant, constituatur consilium pastorale.
[54] Circa la difficoltà di interpretazione dei testi conciliari cfr. E. Schillebeeckx, Definizione del laico cristiano, in «La Chiesa del Vaticano II», a cura di G. Baraúna, Firenze 1965, 959-977; F. Daneels, De subiecto officii ecclesiastici attenta doctrina Concilii Vaticani II. Suntne laici officii ecclesiastici capaces?, Roma 1973, 19-45·
[55] Per una interpretazione solo sociologica opta tuttavia il Mörsdorf, Die Zusammenarbeit von Priestern und Laien in ekklesiologisch-kanonistischer Sicht, in Grundfragen der Zusammenarbeit von Priestern und Laien, hrsg. von H. Gehrig (Veröffentlichungen der Katholischen Akademie der Erzdiözese Freiburg, II),Karlsruhe 1968, 13-26; Idem, Die andere Hierarchie. Eine kritische Untersuchun zur Einsetzung von Laienräten in den Diözesen der Bundesrepublik Deutschland: «AfkKR» 138/2 (1969) 461-509
[56] Cfr. E. Corecco, Profili istituzionali dei movimenti nella Chiesa, in I movimenti nella Chiesa negli anni ‘80, Milano 1982, spec. 221-234.
[57] Cfr. W. Aymans, Einführung in das neue Gesetzbuch der lateinischen Kirche, hrsg. von Sekretariat der Deutschen Bischofskonferenz, Bonn 1983, n. 31, 7-28.
[58] Cfr. G. Alberigo, Istituzioni per la comunione tra l’episcopato universale e il vescovo di Roma, in L’ecclesiologia del Vaticano II: dinamismi e prospettive, a cura di G. Alberigo, Bologna 1981, 248.
[59] Sulla questione in modo più analitico cfr. E. Corecco, Il catalogo dei doveri-diritti del fedele nel CIC, in Atti del V Colloquio Giuridico dell’Università Lateranense, 1984, cit., in corso di pubblicazione.
[60] Cfr. J. Bernhard, Les droits fondamentaux dans la perspective de la “Lex Fundamentalis” et de la révision du code de droit canonique, in I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società, Atti del IV Congresso Internazionale di diritto Canonico, Fribourg (Suisse) 1980, cit., 367-395.
[61] Sull’interpretazione di questa formula cfr. K. Mörsdorf, Das synodale Element der Kirchenverfassung im Lichte des 2. Vatikanischen Konzils, in Volk Gottes, Festg. J. Höfer, hrsg. R. Bäumer u. H. Dolch, Freiburg-Basel-Wien 1967, 568-584; W. Aymans, Das Synodale Element der Kirchenverfass., München 1971, 318-324.
[62] Cfr. K. Mörsdorf, Über die Zuordnung des Kollegialitàtsprinzip zu dem Prinzip der Einheit von Haupt und Leib in der hierarchischen Struktur der Kirchenverfassung, in Wahrheit und Verkündung. Michael Schmaus zum 70. Geburtstag, hrsg. von L. Scheffczyk – W. Dettloff – R. Heinzmann, München-Paderborn-Wien 1967, 1435-1445.
[63] Cfr. G. Alberigo, Istituzioni per la comunione tra l’episcopolo universale e il vescovo di Roma, cit., 276-242.
[64] Cfr. J.H. Provost, Particular Councils, in Acts of the 5th International Congress of Canon Law, cit., in corso di pubblicazione.
[65] Sulla disputa intorno alla interpretazione dell’inciso conciliare Spiritum Christi habentes, cfr. da una parte M. Aymans, Die kanonische Lehre der Kirchengliedschaft im Lichte des II. Vatikanischen Konzils: «AfkKR» 142/2 (1973) 397-417 e V. De Paolis, Communio it excomunicatio: «PRMCL» 70 (1981) 271-302. (che sono per una lettura giuridicamente non rivelante del testo), dall’altra F. Coccopalmerio, Quid significent verba “Spiritum Christi habentes” Lumen Gentium 14,2: «PRMCL» 68 (1979) 253-276, e H. Müller, Zugehörigkeit zur Kirche als Problem der Neukodifikation des kanonischen Kirchenrechts: «OAfkR» 28 (1977) 81-98, che giustamente riconoscono al testo una valenza costituzionale.
[66] In questa direzione si è mosso recentemente anche il magistero di Papa Giovanni Paolo II nell’omelia tenuta a Lugano il 11 giugno 1984, in I dircorsi del viaggio di Giovanni Paolo II in Svizzera, 12-17 giugno 1984, Edizioni della segreteria della Conferenza dei vescovi svizzeri, Friburgo 1984, 17 n. 3.
[67] Sulla discussione al Vaticano II circa questo problema, definito dall’A. stesso come ius cogubernii, cfr. A. Acerbi, Le due ecclesiologie, cit., per es. 485-553; G·Alberigo, Istituzioni per la comunione tra l’episcopato universale e il vescovo di Roma, cit., 249-256.
[68] Circa il problema della sinodalità cfr. G.P. Milano, Il sinodo dei vescovi, in corso di pubblicazione.
[69] La priorità al collegio dei vescovi sul papa è concessa per es. da LG nei testi:17,1; 18,2; 19; 20; 21; 23,3; 24,1.
Dal profilo concreto bisogna invece riconoscere che il CIC, proprio tenendo conto dei principio della collegialità, pone alcuni timidi ma significativi limiti al libero esercizio del primato, laddove impone a quest’ultimo di consultare le conferenze dei vescovi per l’erezione delle prelature personali (can. 294) e delle diocesi personali (can. 372 § 2). Può far suppore ciò che per l’erezione delle diocesi territoriali (can. 373) questo stesso diritto sia stato dimenticato? In misura meno stringente questa tendenza affiora anche laddove il CIC riconosce alle conferenze dei vescovi di proporre l’erezione di regioni ecclesiastiche (can. 433 § 1) o una lista triennale di candidati all’episcopato (can. 377 § 2) e al presidente delle stesse di proporre nominativi in occasione della nomina di un vescovo diocesano o di un vescovo coadiutore (can. 377 § 3).
[70] L’unico testo del CIC in cui il collegio dei vescovi è menzionato prima della Sede Apostolica e il can. 755 § 1.
[71] Cfr. K. Rahner, Über das ius divinum des Episkopats, in Episkopat und Primat (Quaestiones Disputatae II), Freiburg-Basel-Wien 1961, 60-125.
[72] Sul significato dato a questi termini dal Vaticano I cfr. J.-P. Torrel, La Théologie de l’Episcopat au Premier Concile du Vatican, Paris 1961, per es. 105-162.
[73] Sulla questione cfr. O. Saier, Die hierarchirche Struktur des Presbyteriums: «AfkKR» 136/2 (1967) 351-360; cfr. anche H. Müller, De differentia inter episcopatum et presbyteratum iuxta doctrinam Concilii Vaticani Secundi: «PRMCL» 59 (1970) 614-618.
[74] Cfr. E. Corecco, Sacerdote e presbiterio nel CIC: «Servizio Migranti II» (1983) 354-372.
75 Il laico non predica mai con la stessa autorità formale del ministro ordinato, dal momento che la Parola e in lui disgiunta dal sacramento dell’ordine. Questo è, probabilmente l’unico motivo adducibile per giustificare l’esclusione (ordinaria) del laico dalla possibilità di tenere l’omelia. Nella celebrazione dell’eucaristia, infatti, Parola e Sacramento dell’ordine raggiunjiono la loro massima espressione di unità e di reciprocità. Cfr. K. Mörsdorf, Wort und Sakrament als Bauelemente der Kirchenverfassung: «AfkKR» 134/1 (1965) 80-88.
76 Cfr. per es. S. Dianich, Teologia del ministero ordinato. Una interpretazione ecclesiologica, Roma 1984, 259-274.
77 L’eccelsiologia sottesa alle istituzioni ecclesiali post-conciliari, in L’ecclesiologia del Vaticano II: dinamismi e prospettive, cit., 226-228.
78 Cfr. E. Corecco, Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale?: Strumento Internazionale per un lavoro teologico: «Communio» 1 (1972) 32-44.
79 Cfr. A. Scheuermann, Das Neue im CIC 1983: «AffFR» 152/1 (1983) 132-134.
80 Cfr. anche le osservazioni di F. Coccopalmerio, La formazione al ministero ordinato: «La Scuola Cattolica» 112 (1984) 219-251.
81 Sul problema cfr. H. Schmitz, Gesetzgebungsbefugnis und Gesetzgebungkompetenzen des Diözesanbischofs nach dem CIC vom 1983: «AfkKR» 152/1 (1983) 62-75.
82 Cfr. H. Schmitz, Einleitung und Kommentar zu den Vollmachten der Bischöfe und Ordenoberen, in Nachkonziliare Dokumentation, Band 16, Trier 1970, 1-8.
83 Cfr. G. Alberigo, Una cum patribus. La formula conclusiva delle decisioni del mVaticano II: Ecclesia Spiritu Sancto edocta, in Mélanges théologiques, Hommage à Mgr. Gérard Philips, Gembloux 1970, 291-419.
84 Cfr. J. Komonchak, Das Ökumenische Konzil im neuen Kirchenrechtskodex: «Concilium» 19 (1983) 574-579.
85 Cfr. la dichiarazione della fondazione Concilium sul nuovo codice di Diritto Canonico Sorge um das Konzil: ivi, 585-586.
86 Usano questo termine per es. Y. Congar, Konziliare Struktur oder konziliare Regierungsform der Kirche: ivi: 501-506; G. Alberigo, Istituzioni per la comunione tra l’episcopato universale e il vescovo di Roma, cit. 235-262.
87 Cfr. W. Aymans, Kollegium und kollegialer Akt im kanonischen Recht, München 1969, 88, 91.
88Cfr. G.P. Milano, Il sinodo dei vescovi, in corso di pubblicazione.
89 Questo aspetto della qiestione sembra trascurato da J.M. Tillard (L’évêque de Rome, Paris 1982) quando parla della “solitudine” del papa, 62-63.
90 Cfr. a questo proposito il progetto di statuto del sinodo dei vescovi elaborato da G. Alberigo, Appunti per organi collegiali nella Chiesa cattolica, in L’ecclesiologia del Vaticano II: dinamismi e prospettive, cit., 262-266. Cfr. però anche le osservazioni fatte in merito da J. Lecuyer, Istituzioni in vista della comunione tra l’episcopato universale e il vescovo di Roma, in ibidem, 267-270.
91 Sul problema in forma più dettagliata, cfr. E. Corecco, Sacerdozio e presbiterio nel CIC, cit., 365-370.
92 Su tutto questo paragrafo cfr. E. Corecco, Natura e struttura della «sacra potestas» nella dottrina e nel nuovo Codice di Diritto Canonico: Strumento internazionale per un lavoro teologico: «Communio» 75 (1984) spec. 44-52.
93 Non si può interpretare, come fa il Beyer (Il nuovo codoce di diritto canonico, cit., La Scuola Cattolica, cit., 134) LG 28,1 e PO 2,2, in cui ricorre la stessa espressione riferita a Cristo «consecrationis missionisque», come una prova dell’esistenza dei due poteri, dal momento che in Cristo non si può parlare dell’esistenza di un potere di ordine e di un potere di giurisdizione.
94 In testi in cui si parla di «iurisdictio» nel Concilio sono reperibili in X. Ochoa, Index verborum cum documentis Concilii Vaticani Secundi, Roma 1967, s.v. «iurisdictio».
95 Sulla interpretazione della «Nota Explicativa Praevia», cfr. A. Acerbi, Le due eccelsiologie, cit., 460-474.
96 Cfr. per es. Weihegewalt und Hirtengewalt in Abgrenzung und Bezug: Miscellanea Comillas 16 (1951) 95-110.
97 Cfr. per es. De potestatis episcopalis exercitio personali et collegiali: «PRMCL» 53 (1964) 455-481.
98 Cfr. «Communicationes» 2 (1969) 79, n. 2.
99 Wort und Sakrament als Bauelemente der Kirchenverfassung, cit., 72-79.
100 Cfr. Karol Wojtyla, Alle fonti del rinnovamento. Studio sull’attuazione del Concilio Vaticano Secondo, Città del Vaticano 1981, spec. 17-61.
101 A. Rouco Varela – E. Corecco, Sacramento e Diritto: antinomia nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del diritto canonico, Milano 1971, 59-62.
102 Cfr. La Costituzione Apostolica per la promulgazione del CIC Sacrae Disciplinae Leges, del 25 gennaio 1983.
3. Fondamenti ecclesiologici del nuovo Codice di diritto canonico
1. L’ecclesiologia della «societas»
Nel CIC possono essere individuate due ecclesiologie definite come ecclesiologie della «societas» e della «communio»[1], che le opzioni sistematiche fatte dal legislatore, in ossequio al principio della codificazione astratta, manifestano in tutta la loro divaricazione.
1. Tributaria dell’ecclesiologia societaria è l’idea stessa di codificazione[2]. Benché le codificazioni abbiano assunto storicamente forme diverse, non si può ignorare il fatto che esse fanno dottrinalmente e metodologicamente riferimento ad un’esperienza gnoseologica, quella illuminista, postasi come alternativa puramente razionale rispetto alla cultura teologica cristiana[3]. L’ecclesiologia societaria protesa apologeticamente a mostrare, con lo «Ius publicum ecclesiasticum» (IPE), che la chiesa, anche in quanto «mysterium salutis» assume «ad intra» e «ad extra» la stessa rilevanza giuridica e istituzionale di qualsiasi altra società perfetta, piega inevitabilmente l’ordinamento canonico, nel solco di una quasi atavica “egemonia istituzionale”[4], alle esigenze di una nozione secolare di diritto, che privilegia il concetto di competenza su quello più ecclesiologico di partecipazione[5]. Per di più essa privilegia, pragmatisticamente e in modo quasi connaturale, gli aspetti istituzionali derivati (rapporto: papa-collegio-chiesa universale, vescovo-clero-chiesa particolare, concili, ecumenico e particolari, parrocchia ecc…), a scapito di quelli primariamente costitutivi (sacramento, parola, carisma), evitando così di dare la ragione ultima delle strutture giuridiche[6]. Non sorprende perciò che l’ecclesiologia societaria, su cui incombe ancora l’ombra della «societas perfecta», costituisca, l’infrastruttura dei 4 Libri (I, V, VI e VII) in cui è sopravvissuto nella sua sostanza il CIC del 1917.
2. Nel Libro I, l’adozione della tecnica delle “norme generali”, espressione tipica delle codificazioni moderne, ha indotto ad affrontare i contenuti, anche quelli teologici, con criteri rigorosamente giuridici.
a) Ne consegue che il fedele, peraltro individuato nel Libro II come il soggetto principale dell’ordinamento canonico, non è definito in base alla sua identità ecclesiologica, bensì con la categoria romanistica di «persona physica», fuorviante dal profilo teologico anche per la comprensione del significato della persona morale. L’elemento, infatti, che distingue il fedele dalla persona morale non è quello della sua fisicità naturale, bensì quello della sua struttura sacramentale. In effetti, il fedele non preesiste alla chiesa, come invece la persona umana allo stato, e la persona morale (anche se il CIC, nei can. 113 e 114, la distingue da quella giuridica) non può essere titolare ecclesiologico della «sacra potestas». Né la chiesa cattolica, né la santa Sede (né il collegio dei vescovi), esercitano la «potestas» in forza del fatto di essere convenzionalmente definibili come persone morali, concetto oltretutto estraneo al diritto divino.
b) Connessi con la nozione di persona fisica e di persona morale (e giuridica) sono gli atti giuridici e la distinzione tra pubblico e privato. L’approccio societario ha fatto ignorare che gli atti giuridici ecclesiologicamente piu fondati sono i sacramenti, la cui forza giuridica vincolante è soteriologica, prima che sociale, sfociando nella riproposizione di norme sulla loro validità in parte inapplicabili ai sacramenti (can. 113 e 114). La distinzione tra pubblico e privato, applicata alle associazioni, relega la stragrande maggioranza di queste ultime in una sfera di esistenza quasi para-ecclesiale.
Nell’ambito statuale è possibile distinguere tra la società e l’organizzazione pubblica del potere, cioè lo stato. Nell’ambito ecclesiale, invece, non si possono declassare i fedeli associati nel regno del “privato”. In quanto titolari del sacerdozio comune e del «sensus fidei», essi costituiscono il primo polo insostituibile della istituzione della chiesa. All’altro polo della istituzione, il sacerdozio ministeriale, non è attribuibile, come allo stato, la funzione esclusiva di rappresentare l’istituzione ecclesiale.
c) Un altro istituto centrale che subisce una forte riduzione teologica all’interno di una concezione ecclesiologica societaria è quello della «potestas regiminis, seu iurisdictionis». Già l’elisione dal CIC della nozione conciliare di «potestas sacra» è molto significativa. Avulsa dal contesto ecclesiologico del potere di ordine e della «sacra potestas», la «potestas regiminis» appare derivata dalla struttura societaria della chiesa, piuttosto che dalla socialità specifica della communio non riducibile ad una socialità umana “elevata” al soprannaturale. Più che assumere l’aspetto di un potere salvifico, la cui forza vincolante deriva dal sacramento e dalla parola, esso assume un comportamento fisiologico simile a quello del potere statuale. Malgrado la massiccia recezione delle implicazioni organizzative della separazione dei poteri (can. 135), imputabile al sinodo del 1967[7], il potere di giurisdizione viene ancora collocato dal CIC (can. 129 ss.) dopo la normativa concernente la legge (can. 7 ss.) e gli atti amministrativi (can. 29 ss.), benché siano solo funzioni della «potestas regiminis». Il CIC rimane così fermo al principio sistematico della tradizione volontaristica, consolidatasi con il «De Legibus» di F. Suarez, precedente allo stesso Montesquieu. Questo approccio positivista ha permesso di conservare alla normativa sulla legge, sulla consuetudine e sugli atti amministrativi (come del resto sulla funzione giudiziaria nel Libro VII), la stessa connotazione giuridico-tecnica precedente, priva di valenza ecclesiologica. Le norme sulla legge rimangono senza riferimento al «sensus fidei» dei fedeli, come se la funzione legislativa fosse appannaggio esclusivo della gerarchia. La partecipazione di tutti i fedeli (ricuperata in parte sia nel Libro II attraverso la loro presenza nelle strutture sinodali, sia negli altri Libri), si riduce in questo contesto al riconoscimento della soggettività attiva della «communitas fidelium» (can. 23) al formarsi della consuetudine e, molto indirettamente, all’interpretazione della legge attraverso la consuetudine, «optima legum interpres» (can. 27). Nell’ambito della funzione amministrativa, strutturata con gli stessi criteri rigorosamente giuridici di quella legislativa, un importante ricupero ecclesiologico avviene per contro nello stesso Libro I. In effetti, il criterio giuridico secondo cui la dispensa può essere concessa solo dall’autore della legge, viene sostituito con quello secondo cui il vescovo diocesano possiede, in forza del suo stesso ufficio, tutte le facoltà necessarie al bene dei suoi fedeli (can. 87).
3. L’approccio societario subisce una recrudescenza nel modo con cui il CIC concepisce l’esercizio della «potestas regiminis» nell’ambito sacramentale e extra-sacramentale. Nel primo, il potere di giurisdizione, che assume terminologicamente la veste di una semplice «facultas» priva di contenuto proprio, interviene in modo estrinseco, accanto al potere di ordine, nel produrre l’effetto sacramentale (penitenza, can. 966 ss.; cresima, can. 882 ss.; matrimonio, can. 1111 § 2; sacramentali, can. 1168). Nell’ambito extra-sacramentale, dove esso assume invece la veste di una vera e propria «potestas», è considerato come un potere avente un contenuto materiale proprio, diverso dal potere di ordine: così nelle dispense (dai voti, can. 1196; dal giuramento, can. 1203; dagli impedimenti matrimoniali, can. 1079 § 2-4); nella remissione delle pene in foro esterno (can. 1354 ss.); e nella concessione delle indulgenze (can. 955). Questo duplice dualismo, nella rigida separazione tra ordine e giurisdizione, quasi fossero due poteri diversi invece di due funzioni puramente formali dell’unica «sacra potestas», e nel diverso ruolo causale attribuito alla giurisdizione nell’ambito sacramentale ed extra-sacramentale è già contenuto «in nuce» nel can. 130 in cui, nella scia del sinodo del 1967, si statuisce ancora che il potere di giurisdizione deve operare in foro interno solo in via eccezionale.
4. La stessa ispirazione societaria governa l’impianto processuale del Libro VII. Le procedure tipicamente canoniche per la canonizzazione dei santi e la dottrina della fede sono assenti dal CIC. Quelle concernenti lo stato costituzionale dei fedeli (matrimonio, ordine, appartenenza alla «communio», cioè processo “penale”), sono, invece, declassate, in forza di presupposti teorici meramente giuridici, a semplici procedure “speciali” innestate sul contenzioso ordinario, malgrado che questo, per la sua affinità intrinseca con il contenzioso civile, sia considerato dal can. 1446 come procedura suppletoria. Nell’indicazione del can. 1446 di evitare i processi per dirimere le liti, fatti giuridici non apprezzabili, affiora l’ecclesiologia della comunione, anche se non capovolge l’impianto di tutto il Libro VII. In effetti, solo all’interno del regime statuale moderno le procedure giudiziarie esistono come proiezioni istituzionali imprescindibili e costitutive dell’esistenza stessa del potere giudiziario, separato e autonomo dagli altri due poteri. Nell’ordinamento canonico l’esistenza della funzione giudiziaria non dipende dall’esistenza delle procedure. La «potestas sacra», in quanto potere di sciogliere e legare, può operare anche al di fuori delle procedure. Per quanto storicamente irrinunciabili e tassativamente imposte, in vista di una maggiore certezza giuridica e eguaglianza di fronte alla legge (principi socio-giuridici comunque non assoluti), esse rimangono sovrastrutture rispetto alla «sacra potestas».
5. Anche nel Libro V l’impianto giuridico globale ricalca i parametri dello IPE. La chiave di volta di tutto il sistema sono i can. 1254 § 1 e 1260, in cui si ribadisce perentoriamente sia il diritto della chiesa di possedere beni patrimoniali, indipendentemente dal potere civile, sia il diritto di esigere dai fedeli i contributi finanziari necessari alla realizzazione dei propri fini. Nel dovere dei fedeli di contribuire ai bisogni della chiesa (can. 222 § 1 e 1262), non affiora minimamente l’idea che essi siano tenuti a praticare la comunione, almeno in certa misura, anche a livello dei beni materiali. Questa emerge, invece, implicitamente e senza determinare l’impianto legislativo, sia nella ridefinizione dei fini dei beni della chiesa (can. 1254 § 2), grazie alla maggiore attenzione prestata alla tradizione primitiva, in cui il nesso con la comunione eucaristica era netto, sia nella recezione degli istituti conciliari del can. 1274, in cui si declina la struttura comunionale del presbiterio. La chiesa continua così, globalmente, ad apparire ipostatizzata nella gerarchia, che si pone, come lo stato, in un rapporto di alterità rispetto ai fedeli, ed è incaricata di realizzare in proprio, sulla base di modulazioni quasi-fiscali, compiti che i fedeli devono sostenere senza esserne veramente i protagonisti[8].
6. L’impalcatura giuridico-formale del Libro VI ricalca a sua volta quella delle codificazioni moderne del diritto penale. Tutto l’impianto teorico ed epistemologico, più che alla «communio», cui si rapporta la «excomunicatio», fa riferimento ai principi giusnaturalistici del ripristino della giustizia (can. 1341) e del potere coercitivo (can. 1311). Ciò, malgrado il fatto che la scomunica non sia teoricamente sussumibile sotto la stessa nozione di pena, propria alla teoria generale del diritto[9]. Questo fatto mina dall’interno, grazie alla sua forza espansiva sulle altre sanzioni minori, tutto l’impianto teorico ed epistemologico del Libro. L’opzione preferenziale stessa, in favore delle pene «ferendae» su quelle «latae sententiae», non è motivata dalla logica della communio (per permettere all’autorità di avvicinare i fedeli in difficoltà in modo più personale), bensì, come suggerisce esplicitamente il sinodo dei vescovi del 1967 (n·9), per realizzare un’immagine di «societas perfecta» più coerente con le esigenze della sensibilità giuridica moderna. L’ecclesiologia della comunione affiora comunque, anche in questo Libro nel can. 1341, che conferisce, ad onta della sua collocazione sistematica marginale, carattere suppletorio a tutto l’apparato delle sanzioni. Questo canone come quelli sulla imputabilità (can. 1321-1330) e sull’applicazione concreta delle pene (can. 1354-1363), assieme al principio generale del can. 1399 e alla natura della scomunica, svuotano di contenuto reale e concreto tutta la normativa del Libro VI, creando un’insanabile divaricazione tra i suoi contenuti materiali e quelli formali.
2. L’ecclesiologia della «communio»
L’essenza del principio della «communio» consiste nel fatto di postulare l’immanenza totale, e la non separabilità, degli elementi costitutivi della chiesa. Ciò emerge, per es., nel rapporto strutturale reciproco tra il sacramento e la parola, tra il sacerdozio comune e quello ministeriale, tra il fedele e la chiesa, tra il dovere e il diritto, tra la chiesa universale e quella particolare, tra il papa e il collegio, tra il vescovo e il presbiterio. Questa ecclesiologia, soggiacente ai Libri II, III, IV del CIC, non sempre si realizza con la desiderata coerenza.
1. L’ostacolo fondamentale a questa realizzazione è il fatto che il CIC, pratica un approccio ecclesiologico che pecca di eccessivo pragmatismo. Ciò affiora da molteplici elementi:
a) Primo fra tutti l’adozione del principio ecclesiologico «Sacramenta (et Verbum) ab Ecclesia» invece del principio «Ecclesia a Sacramentis (et Verbo)»[10]. Parola e sacramento risultano, infatti, essere elementi derivanti e non genetici della costituzione della chiesa, contenuta nel suo nocciolo, almeno secondo l’intenzione del CIC, nel Libro II sul «De Populo Dei». Solo il sacramento del battesimo si colloca, nei can. 96 e 204, come elemento genetico di una normativa specifica corrispondente: quella sulle persone fisiche e quella sui doveri-diritti dei fedeli. Le norme sui chierici, invece, sono avulse dal contesto del l’ordine, come quelle sulle sanzioni dal contesto sacramentale della penitenza; le norme concernenti la chiesa universale e particolare sono senza nesso immediato con l’eucaristia, e la famiglia non appare come esito sociale del sacramento del matrimonio. Anche le numerose definizioni dottrinali, con forte rilevanza ecclesiologica, utilizzate nei canoni introduttori ai singoli sacramenti, non sono state sufficienti per impedire che questi ultimi venissero ancora una volta trattati, come nel CIC del 1917, in una prospettiva funzionale più civilistica che costituzionale.
b) Da questo approccio deriva anche l’utilizzo marginale del «sensus fidei» dei fedeli (ripreso nel can. 750 con grave mutilazione di significato rispetto a LG 12,1) e del sacerdozio comune (can. 836)[11]. Essi non esercitano nessun influsso sull’organizzazione sistematica globale della materia legislativa. Se il CIC, penetrando fino alle radici più profonde dell’ecclesiologia, avesse definito il fedele primariamente come soggetto titolare del sacerdozio comune e del «sensus fidei», avrebbe potuto mettere in luce, dal profilo sistematico, l’immanenza strutturale di tutti i fedeli, sia al sacramento che alla parola, sia ai ministri sacri, dal momento che la distinzione formale stessa tra ordine e giurisdizione, in cui si articola la «potestas sacra», ha la sua radice nella diversa partecipazione di questi ultimi allo stesso sacramento e alla stessa parola cui attingono tutti i fedeli.
c) Un terzo ostacolo all’esplicitazione dell’ecclesiologia della communio, è stata l’adozione nei tre Libri centrali della sistematica della LG, fondata sul modulo della partecipazione di tutto il Popolo di Dio ai «tria munera» di Cristo. Quanto esso sia inadeguato a cogliere il mistero della chiesa, lo dimostra il fatto che il CIC non ha trovato lo spazio teorico e tecnico per sviluppare una normativa specifica, corrispondente al «munus regendi». Ciò provoca una sovrapposizione tra il Popolo di Dio e una delle sue funzioni e una sottile «reductio ad unum» del «munus regendi» dei laici a quello della gerarchia.
d) Un quarto ostacolo, imputabile sia al Vaticano II che all’ecclesiologia contemporanea, ad una sistematica rigorosamente dettata dal principio comunionale dell’immanenza, è il fatto che la chiesa universale e quella particolare vengono inconsciamente trattate come se fossero due entità materialmente separate, e perciò potenzialmente concorrenziali, piuttosto che due dimensioni solo formalmente distinte dell’unica chiesa di Cristo, che compare con tutto l’impatto della sua unicità, nelle norme centrali dei can. 96 e 369. Il principio dell’immanenza tra la chiesa universale e particolare affiora chiaramente – tanto da poter essere considerato come paradigma ontologico e gnoseologico della struttura stessa della «communio» – nella formula «in quibus et ex quibus» del can. 368. Tuttavia, se essa fosse stata posta all’inizio della seconda parte del Libro II con riferimento diretto alla chiesa di Cristo, avrebbe avuto una forza espansiva maggiore su tutto il CIC.
e) Un’ulteriore conseguenza dell’approccio pragmatistico-istituzionale della materia legislativa è l’obliterazione del carisma, quasi non fosse un elemento essenziale della costituzione della chiesa[12]. I1 fedele non è definibile solo per la sacramentalità del suo essere e della sua esistenza, ma anche per la possibilità di diventare soggetto titolare del carisma. Senza questa potenziale dimensione carismatica il fedele e, di conseguenza, il Popolo di Dio, rimangono mortificati nella loro vera identità ecclesiale e giuridica. Non mancano certo riferimenti all’azione dello Spirito santo, che però non coincide necessariamente con quella specifica del carisma (per es. nei can. 369, 375 § 1, 573 § 1, 747 § 1, 879), e ai suoi doni (per es. can. 577 e 605). Tuttavia il CIC, cedendo all’obiezione ricorrente secondo cui il carisma non è un fatto giuridico, non è penetrato fino al cuore della struttura costituzionale della chiesa. Il carisma non esiste autonomamente. È sempre conferito ai due elementi fondamentali dell’istituzione ecclesiale, cioè al sacerdozio comune (con il «sensus fdei») e al sacerdozio ministeriale. Pur non appartenendo per definizione all’ambito della realtà giuridica e dell’istituzione, appartiene alla sua costituzione ed ha una valenza giuridica ben precisa, sia perché deve sottostare al giudizio dei pastori, sia perché si costituisce, oltre al battesimo, come fondamento del dovere-diritto dei fedeli di lavorare alla diffusione del vangelo (AdG 28,1). Protetto contro ogni tentativo inconsulto di soffocamento (LG 12,2), il carisma erige (come i doveri-diritti) limiti invalicabili all’esercizio della «sacra potestas». Contrariamente a quanto avviene nell’ambito dell’organizzazione pubblica del potere dello stato, nella chiesa l’istituzione non coincide con la costituzione, ma è solo un elemento della stessa. L’inseparabilità e l’immanenza reciproca tra l’istituzione e il carisma sono un’altra implicazione specifica del principio della comunione. Solo sulla base di un malinteso ideologico il loro rapporto è teorizzato come antinomico, derivato cioè dalla presunta antinomia tra la carità e il diritto.
f) Un ultimo aspetto dell’ecclesiologia pragmatistica è l’eliminazione dal can. 205 dell’inciso conciliare «Spiritum Christi habentes» (LG 14,2). La riduzione dei criteri di appartenenza dei fedeli alla «plena communio» ai tre elementi classici della tradizione bellarminiana tradisce una concezione in cui la grazia non è considerata come elemento necessariamente immanente all’istituzione. Che la grazia, allo stesso modo del carisma, possegga una valenza giuridica propria, indipendentemente dal fatto che essa affiori (come nel caso dei «tria vincula»), o meno, attraverso fatti istituzionali percettibili, appare con chiarezza nel can. 916. Il non possesso della grazia, incide sull’appartenenza alla comunione piena e sull’esercizio dei diritti del fedele.
2. Malgrado questi limiti, l’ecclesiologia della «communio» sta alla radice di tutti e tre i livelli in cui la chiesa si realizza: la «communio fidelium, Ecclesiarum et ministeriorum»[13]. A livello della «communio Ecclesiarum» va riconosciuto come l’immanenza della dimensione universale e particolare nell’unica chiesa di Cristo sia affermata senza esitazioni nella formula «in quibus et ex quibus» del can. 368. La chiesa universale, costituita da tutte le chiese particolari, si realizza in quella particolare. Ciò significa che tutte le chiese particolari sono ontologicamente immanenti ad ogni singola chiesa particolare. La «communio» non nasce perciò solo dal rapporto gerarchico e costitutivo delle singole chiese particolari con la chiesa romana (per es. can. 331, 349 § 3), ma anche dal rapporto reciproco esistente tra le singole chiese particolari, che pur essendo derivativo rispetto al primo, non è meno essenziale per la comprensione della «communio Ecclesiarum», fondamento ontologico e gnoseologico della «communio ministeriorum», che lega reciprocamente e in modo specifico, vescovi, presbiteri e forse anche i diaconi. Nella linea del Vaticano II il CIC esprime la specificità della «communio ministeriorum» con il termine di «communio hierarchica» (can. 336; 375 § 2; PO 15, 2), che in realtà è una categoria più globale, poiché tutti i livelli della communio sono trapassati dalla dimensione gerarchica (can. 212 § 1).
È a livello della «communio Fdelium» che vale la pena di analizzare più in dettaglio l’emergere dell’ecclesiologia della comunione, anche perché sulla «communio Ecclesiarum» e «ministeriorum» abbiamo già avuto modo di esprimere un giudizio in altra sede. A livello della «communio fidelium», basterebbe il can. 209 § 1 per constatare che la comunione investe la struttura ontologica del fedele, detetminandolo nella sua identità antropologica ed ecclesiale. In effetti, il dovere-diritto di vivere in comunione con Dio e con la chiesa costituisce il fondamento ontologico e logico immanente ad una serie di doveri-diritti, non derivati dal diritto naturale, ma da quello divino, come per es. quelli formulati nei can. 209 § 2, 210, 211, che a loro volta sono il punto di derivazione di altre fattispecie costituenti il patrimonio giuridico del fedele (per es. can. 212, 213, 215, 217).
a) Il principio di immanenza della «communio» affiora in altri aspetti del problema. Il CIC, distanziandosi dalla LEF (cedente nei confronti del costituzionalismo moderno), non attribuisce ai doveri-diritti dei fedeli e dei laici, rubricati nel rispettivi cataloghi, la qualifica costituzionale della “fondamentalità”. Ciò brucia la conflittualità strutturale (anche se di fatto è possibile ed esiste) del rapporto fedele-gerarchia, soggiacente invece al rapporto cittadino-stato, determinato dalla preesistenza della persona umana e dall’urgenza di garantire uno spazio di autonomia all’individuo. Poiché i doveri-diritti del fedele sono invece conferiti dalla chiesa (o riconosciuti dall’ordinamento quando sono di estrazione giusnaturalistica) attraverso i sacramenti, anche il concetto di autonomia non è applicabile alla situazione giuridica del fedele con gli stessi presupposti teoretici. In effetti anche il fedele, come la gerarchia, appartiene alla istituzione della chiesa, per cui il rapporto non avviene tra le persone e l’istituzione, ma tra persona e persona.
b) Il secondo aspetto consiste nel fatto che nel sistema codiciale la nozione di dovere prevale ontologicamente su quella di diritto. In effetti, quasi la metà delle fattispecie del catalogo, enunciate come diritti, sono in realtà derivazioni di doveri. È sintomatico il fatto che laddove il CIC introduce fattispecie di estrazione giusnaturalistica più o meno diretta (per es. nei can. 218-222 § 2, 231 § 2), la nozione di diritto prevale su quella di dovere. Ne consegue che in questo caso il diritto è opponibile a terzi (gerarchia), mentre il dovere derivante dallo «ius divinum» rimane immanente al suo titolare, ed è opponibile solo in quanto si trasforma in diritto. Questa priorità del dovere non è di natura filosofico-volontarista, ma ecclesiologica. Nasce dalla dipendenza di tutti i fedeli da Cristo che chiama alla comunione con il Padre e la chiesa, come afferma il can. 209 § 1.
c) Il terzo aspetto della «communio Fidelium» si invera nel fatto che il fedele non esige in quanto tale, ma e una realtà ecclesiologica immanente a tutti gli altri stati in cui il fedele vive concretamente. Questa immanenza è assicurata dal principio di uguaglianza proclamato dal can. 208. Ciò crea un’immanenza profonda e reciproca dei tre stati, che non possono essere declassati a sovrastrutture ereditate dal medio evo, poiché sono generati dal sacramento (battesimo e ordine) o dal carisma (consigli evangelici). Lo stato dei consigli evangelici non è semplicemente sovrapposto agli altri due, come potrebbe lasciare intendere una cattiva lettura del can. 207 § 1. Possiede una sua priorità costituzionale: quella di rendere presente la profezia, così come lo stato laicale ha una sua priorità nella responsabilità secolare e quello clericale nella responsabilità per l’unità della «communio Ecclesiae et Ecclesiarum»[14].
d) Nel solco della valorizzazione centrale del fedele, il CIC ha rivalutato anche i laici, sia dal profilo sistematico, ponendoli prima dei chierici, sia dal profilo sostanziale (non senza però importanti lacune), nell’ambito della loro partecipazione attiva all’esercizio di tutti e tre i munera, al punto da renderli difficilmente distinguibili dai diaconi. Una più decisa valorizzazione della loro «indolis saecularis» (concetto conciliare non recepito dal CIC), che emerge solo in quattro norme (o gruppi di norme: can. 225 § 2; 227; 327; 226; 793; 796-739) avrebbe permesso di evitare l’equivoco dualistico di far credere che la responsabilità secolare specifica dei laici si esprima in quanto tale solo nell’impegno con il mondo e non anche in quello interno alla struttura ecclesiale. Solo a questa duplice condizione il laico può costituire il punto di sutura della chiesa con il mondo e di immanenza tra l’economia della redenzione e quella della creazione; economie peraltro rese indissolubilmente immanenti dal sacramento del matrimonio, che per l’appunto è la più alta espressione della secolarità. Il prevalere nel CIC della definizione sacramentale del laico (LG 31,1), contrariamente a quanto avviene nella globalità dei testi conciliari su quella che fa capo alla secolarità (LG 31,2), sfocia in un’immagine globale clericalizzata del laicato.
[1] Cf. A. Acerbi, Due ecclesiologie: ecclesiologia giuridica e ecclesiologia di comunione nella «Lumen Gentium», Bologna 1975.
[2] Per quanto riguarda la bibliografia dell’autore sul nuovo CIC, utilizzata in questo articolo, rimandiamo ai titoli citati nella scheda personale.
[3] Per una nozione canonica di diritto cf. E. Corecco, «Ordinatio rationis» o «Ordinatio fidei»? Appunti sulla definizione della legge canonica, in «Communio (ed. it.)» n. 36 (1977) 48-69.
[4] Cf. R. Sobanski, Rechtstheologische Vorüberlegungen zum neuen kirchlichen Gesetzbuch, in «Theol. Quart.» 163 (1983) 178-188.
[5] Cf. G. Alberigo, Egemonia dell’istituzione nella cristianità, in «Cristianesimo nella storia», 5 (1984) 49-68.
[6] 6 Cf. G. Colombo, La teologia della Chiesa particolare, in A. Tessarolo (ed.), La Chiesa locale, Bologna 1970, 17-38.
[7] I 10 principi per la revisione del CIC approvati dal sinodo dei vescovi del 1967, letti a 20 anni di distanza, rivelano, nella loro apparente modernità, un vuoto ecclesiologico molto grave.
[8] Cf. E. Corecco, Dimettersi dalla Chiesa per ragioni fiscali, in «Apollinaris», 55 (1982) 461-502.
[9] Sulla questione cf. l’articolo, in questo fascicolo, di L. Gerosa, 83-95.
[10] Basterebbe sostituire i titoli dei Libri III e IV del CIC con le scritte «De Verbo Dei» e «De sacramentis», perché questa impostazione ecclesiologica affiori con tutta la sua evidenza.
[11] Cf. E. Corecco, Riflessione giuridico-istituzionale su secerdozio comune e sacerdaio ministeriale, in Atti del IX Congresso Nazionale dell’Associazione teologica ilaliana (Cascia 14-18 settembre 1981), Padova 1983, 80-129.
[12] Cf. J. Komonchak, Lo Statuto dei fedeli nel Codice di diritto canonico rivisto, in «Concilium», ed. it. 7/1981, 77-89.
[13] Su questi tre livelli della «communio» cf. anche W. Aymans, Einführung in das neue Gesetzbuch der lateinischen Kirche: Arbeitshilfen Nr. 31. Sekretariat der Deutschen Bischofkonferenz, Bonn 1983.
[14] Su questo rapporto “circolare” dei tre stati di vita cf. H.U. von Balthasar, Christlicher Stand, Einsiedeln 1977, spec. 294-314.