- I. La ripresa della scienza canonistica dopo il Concilio Vaticano II.
- II. Suggestioni canonistiche per la scienza giuridica contemporanea.
- III. Conclusione.
Per misurare l’entità dell’apporto della teologia, e soprattutto di quella cattolica, alla elaborazione di una teoria generale del diritto è indispensabile dare dapprima una valutazione globale dello sforzo di rinnovamento metodologico ed epistemologico della canonistica post-conciliare e poi – all’interno di questo orizzonte – cercare di mettere a fuoco alcuni, forzatamente pochi, dei contributi teoricamente più qualificanti offerti dal diritto canonico allo sviluppo contemporaneo della scienza giuridica.
I. La ripresa della scienza canonistica dopo il Concilio Vaticano II
1. Il rinnovamento metodologico ed epistemologico del diritto canonico
Uno dei risultati apparentemente più paradossali del Concilio Vaticano II, la cui sottile vena antigiuridica avrebbe potuto far prevedere altri sviluppi, è stato quello di provocare una rigorosa ripresa della scienza canonistica, per altro non ancora completamente registrata dalle altre discipline teologiche.
All’interno di questa ripresa comincia a delinearsi – sia pure su binari diversi – il formarsi di una nuova scienza del diritto canonico che potrebbe far entrare la canonistica nella terza fase della sua storia, dopo quella classica medioevale e quella post-tridentina del “Jus Publicum Ecclesiasticum”. La prima fase, incominciata con la distinzione metodologico-sistematica del diritto canonico dalla teologia, operata da Graziano, sfociava nel riconoscimento della canonistica come scienza generale del diritto all’interno della Cristianità, dove il diritto delle Decretali godeva, accanto a quello romano, autorità di diritto comune. La seconda fase, quella dell’IPE, formatosi come scienza nuova dopo la Riforma contemporaneamente alla nascita dello Stato assolutista moderno di estrazione giusnaturalista, consiste nell’elaborazione di un sistema giuridico confessionale il cui compito primario fu quello di garantire apologeticamente diritto di cittadinanza alla Chiesa cattolica come società perfetta nell’ambito culturale secolarizzato dell’evo moderno.
Al di là delle diverse metodologie seguite, la tendenza di fondo della canonistica post-conciliare è invece quella di ridare alla scienza del diritto canonico un’identità teologica più precisa, che non può non sfociare nell’elaborazione di un sistema giuridico concepito esclusivamente come ordinamento giuridico ecclesiale, cioè come diritto interno alla Chiesa cattolica. In questa prospettiva la funzione culturale esercitata direttamente dal diritto canonico medioevale sullo sviluppo della filosofia e della teoria generale del diritto come del resto il compito apologetico svolto dall’IPE vengono recuperati indirettamente dalla forza profetica del dato teologico enunciato dal diritto ecclesiale stesso.
Se la prima preoccupazione in questo nuovo orientamento della canonistica è stata quella di dare una giustificazione teologica all’esistenza del diritto canonico, il discorso incomincia ora a spostarsi a livello dell’ontologia, cioè della natura intrinseca del diritto ecclesiale, in vista di elaborare una vera e propria teoria generale del diritto canonico, che non mancherà di influenzare in qualche modo anche l’elaborazione di una teoria generale del diritto.
Se da sempre, sia pure in modo diversamente riflesso, la canonistica ha avuto coscienza che, rispetto al diritto secolare quello della Chiesa è un diritto “sui generis”, la letteratura moderna incomincia ad avvertire in modo più stringente l’impossibilità di continuare a considerare il diritto secolare come “analogatum princeps” di quello ecclesiale. Anzi, l’uso stesso dell’analogia incomincia ad essere messo in discussione, poiché se essa permette di cogliere negativamente la diversità tra i due ordini giuridici, non è sufficiente né a definire positivamente la natura specifica del diritto ecclesiale né tanto meno ad elaborare una teoria generale del diritto canonico di taglio non più solo giuridico, ma anche teologico.
È inevitabile che la ricerca di un nuovo statuto ontologico ed epistemologico del diritto canonico faccia venire al pettine i problemi nodali della scienza giuridica di sempre: quelli della definizione formale sia della nozione di “diritto” che di quella di “legge”.
Come ha molto acutamente constatato subito dopo il Concilio Vaticano II, la canonistica, dal momento che non intende più definirsi come scienza giuridica, ma come scienza teologica, deve porsi il problema della definizione formale del proprio oggetto “quod” cioè della propria nozione di diritto. Non può più accontentarsi di veicolare, senza ridiscuterla, la nozione di diritto formulata dal Suarez come sintesi di tutto il pensiero filosofico-giuridico della scolastica ed ancora soggiacente alla prima codificazione canonistica. Il presupposto fondamentale per cogliere dal profilo teologico lo statuto ontologico del diritto ecclesiale è perciò quello di non appoggiarsi più su una pre-concezione filosofica della nozione fondamentale di diritto, poiché il diritto canonico, a differenza di quello secolare, non è generato dal dinamismo spontaneo (biologico) della convivenza umana”, ma da quello specifico inerente alla natura stessa della comunione ecclesiale, la cui socialità è prodotta primariamente non dalla natura umana, ma dalla grazia che instaura rapporti intersoggettivi e strutturali diversi, propri alla costituzione della Chiesa e conoscibili nella loro specificità solo attraverso la fede. La canonistica medioevale e quella moderna hanno definito il diritto a partire dalla categoria del “iustum” e dell’“obiectum virtutis iustitiae”, ma è evidente che esse, essendo di estrazione filosofica, non sono in grado di spiegare in modo adeguato la dimensione giuridica specifica della Chiesa.
Il secondo aspetto fondamentale, anche se conseguente al primo, è il problema della definizione formale del concetto di legge canonica.
Il vecchio Codice di diritto canonico non dà alcuna definizione legale della legge canonica. Nel nuovo, il discorso non è sostanzialmente diverso, anche se a partire dai cann. 7 e 29 si possono determinare i quattro elementi formali o esterni di tale definizione, ossia: il “praescriptum generale”, che distingue la legge dalle decisioni in singoli casi, il “competens legislator”, la “communitas legis recipiendae capax” ed infine la “promulgatio”.
Del profilo sostanziale o degli elementi interni costitutivi della legge canonica, il testo codiciale “silet”, per cui occorre ricorrere alla dottrina, al cui livello però lo “status quaestionis,, non si discosta molto da quello posto da S. Tommaso, dato che – al di là del florilegio di diverse definizioni – non è difficile constatare una profonda convergenza degli autori nell’usare – come quadro di riferimento – quella classica di S. Tommaso: “quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet, promulgata” (I-II, q. 90, a. 4, c).
2. Prospettive per una nuova definizione della nozione di legge
a) La legge canonica come “ordinatio fidei”
Il nocciolo della definizione tomista, composta da quattro elementi (ragione, legislatore, bene comune e promulgazione) è senza dubbio dato dal primo elemento, cioè dall’ordinatio rationis. Cosa ha inteso esprimere l’Aquinate definendo la legge come “ordinatio rationis”? Per rispondere alla domanda è necessario cercare di capire che cosa sia la “ratio” per S. Tommaso.
Nella visione teologica dell’Aquinate la “ratio” è la capacità dell’uomo di conoscere in modo discorsivo, cioè in modo diverso da quello proprio all’“intellectus”, che apprende “simpliciter” i primi principi (I, q. 79, a. 8, c). La “ratio”, che S. Tommaso non chiama “ratio Dei” ma solo “ratio divina” o addirittura “quasi ratio Dei”, pur rappresentando una realtà d’ordine intellettivo – in quanto anche in Dio formalmente distinguibile da quello volitivo – in realtà significa solo che Dio conosce in quanto ha in se stesso la ragione, cioè la spiegazione o la causa di tutte le cose. Quindi più che di un tipo di conoscenza intellettiva parallela, anche se eminentemente superiore, a quella umana, si tratta dello stesso principio o facoltà per cui Dio è origine di tutti gli esseri. Ora, se è vero che la “ratio” o l’“intellectus” sono la potenza conoscitiva per cui l’uomo partecipa ontologicamente alla essenza divina, cioè alla “lex aeterna” (da cui ha origine il diritto naturale), non si può per contro affermare la stessa cosa in rapporto alla “lex divina,, in quanto “ratio”, ossia in quanto piano espresso nel diritto divino positivo che ordina l’uomo al fine soprannaturale, cioè alla “beatitudo aeterna” poiché quest’ultima “excedit proportionem naturalis facultatis humanae” (I-II, q. 91, a. 4, c). L’uomo infatti non partecipa alla “lex divina” in forza della dinamica intrinseca alla sua razionalità, ma solo attraverso la “gratia”, che a livello conoscitivo si esprime come dono della fede. Dato che in Dio non esiste una “lex aeterna” diversa dalla “lex divina”, la duplicità delle leggi risulta esclusivamente dalla modalità diversa con la quale l’uomo conosce l’una o l’altra e vi partecipa, razionalmente o per fede. La distinzione tra il livello filosofico e quello teologico è possibile solo “ex parte hominis”, poiché in lui solo la conoscenza per fede è un modo più alto di partecipare alla “lex aeterna” (I-II, q. 91, a. 4, ad 1).
Pur riconoscendo che la legge naturale, cioè l’irradiazione della legge eterna nella razionalità umana, sia concepita dall’Aquinate come connaturalmente proiettata verso la trascendenza teologica della legge divina, bisogna però tener conto del fatto che egli, nel solco di Alberto Magno, fu pure estremamente deciso nel distinguere la legge naturale da quella divina rivelata (I-II, q. 91,a. 4). Ciò significa che l’Aquinate ha colto la diversità degli ordini nella conoscenza umana: quello filosofico, in cui egli, per la sua innegabile inclinazione razionalistica, prevalentemente si muove quando riflette sulla “lex aeterna”, e quello teologico, proprio della “lex divina”. Se da una parte S. Tommaso non ha voluto far dipendere la “lex divina” dalla “lex naturalis”, bensì agganciarla direttamente a quella “aeterna”, dall’altra non considera quest’ultima semplicemente come “analogatum maius” della “lex naturalis” e di quella “humana” – tutte e due di ordine razionale – dato che comprende anche il piano di salvezza di Dio ed è perciò conoscibile in quanto tale non solo attraverso l’“analogia entis” ma in modo qualitativamente diverso per fede, cioè attraverso l’“analogia fidei”.
Della “lex divina” l’Aquinate riprende a parlare quando ne specifica le modalità e i contenuti realizzatisi nella “lex vetus” (q. 98 ss.) e nella “lex evangelii seu nova” (q. 106 ss.) che sfocia nel trattato sulla “gratia” (q. 109 ss.). Il “Doctor angelicus” non affronta però direttamente e tanto meno in modo articolato il discorso sul diritto canonico cui spetta per sua natura – parallelamente al diritto umano secolare rispetto alla “lex aeterna”, mediata dalla “lex naturalis” – il compito di declinare ed esplicitare storicamente la “lex divina”. Pur riconoscendo l’esistenza di un preciso contesto cristologico ed ecclesiologico entro cui si muove il discorso sulla “lex nova”, bisogna anche prendere atto del fatto che l’Aquinate vede la stessa primariamente in relazione con la struttura mistico-interna della Chiesa, considerata in primo luogo come comunità spirituale tra Cristo e i credenti, e solo in secondo luogo – anche se si tratta di un aspetto essenziale – come istituzione. Anzi, sembra quasi che l’Aquinate abbia lasciato aperta una cesura tra il diritto divino e quello canonico, là dove mettendo praticamente sullo stesso piano il legislatore temporale e quello ecclesiastico (I-II, q. 108, a. 1, c.) afferma che essi sono pienamente liberi di procedere o meno a delle determinazioni, tenuto conto del fatto che tutto quanto è di necessità per la salvezza stato prescritto dalla “lex divina” stessa. Tra i precetti non necessari per la trasmissione della grazia – e perciò non ripresi dalla “lex vetus” nella “lex nova” – l’Aquinate enumera tutto il settore del diritto liturgico e di quello concernente la gestione della giustizia, cioè i rapporti intersoggettivi. La legge canonica perciò non sembra avere, in rapporto a quella divina, la stessa relazione di dipendente necessarietà che vige tra la legge umana e quella naturale (e, naturalmente, quella eterna). Questa relativizzazione della legge canonica rispetto agli elementi istituzionali promulgati direttamente dalla legge divina, organica con la tendenza dell’Aquinate (comune a tutta la scolastica formatasi alla scuola di S. Agostino) a concepire la Chiesa prima di tutto come realtà spirituale, può anche non sorprendere se si tien conto che il “Doctor angelicus” pur avendo elaborato una metafisica ed una teologia della legge non fu guidato affatto dalle preoccupazioni tipiche del canonista.
Anche se manca nella Somma una teologia sulla legge canonica non si può dubitare del fatto che l’Aquinate avrebbe applicato alla stessa, analogicamente, la sua definizione generale fondata sulla “ordinatio rationis”. Ora, prescindendo da ogni discorso ipotetico sul come l’Aquinate avrebbe applicato alla legge canonica la sua teoria generale della legge, è evidente che il problema fondamentale nell’elaborare una teologia della legge canonica, è quello posto dall’elemento centrale della definizione stessa, cioè appunto dall’“ordinatio rationis”.
In che senso la “lex canonica” è una “ordinatio rationis”? In un regime culturale di cristianità dove l’Aquinate poteva mettere sullo stesso piano i prelati “temporales” e quelli “spirituales” senza creare equivoci, perché tutta la cristianità era ultimamente considerata come retta e governata dalla “lex aeterna” e la “ratio humana” era ritenuta, di fatto, già come informata dalla fede, parlare di “ordinatio rationis” non creava problemi, malgrado la vivissima istanza razionalistica presente nella scolastica tomista. Il problema più scottante non era quello della contrapposizione tra “ratio” e “fides” – dato che si riconosceva la subordinazione della prima alla seconda, e la filosofia era pacificamente considerata come “ancilla” della teologia -, ma fra “ratio” e “voluntas” all’interno della tensione pendolare esistente tra le tradizioni di pensiero intellettualista e volontarista.
In un ambiente culturale come quello moderno, per contro, dove la fede – non solo in quanto supera le forze stesse della razionalità umana, ma anche in quanto la informa per aiutarla nel suo compito originario – non è più accettata come punto di riferimento del “bonum commune”,, poiché la “ratio”, slegata da ogni legame strutturale con la fede, è diventata, anche nell’ipotesi migliore dell’accettazione dell’esistenza di un diritto naturale, l’istanza ultima e insindacabile di ogni agire umano, anche la canonistica non può più continuare a definire la “lex canonica” come “ordinatio rationis” senza creare un equivoco grossolano sulla propria identità scientifica.
Mentre il corrispettivo umano della “lex aeterna”, intesa nella sua valenza primariamente filosofica, è la legge positiva in quanto “ordinatio rationis”, il corrispettivo umano della “lex aeterna”, intesa nella sua valenza primariamente teologica, cioè come “lex divina revelata” – che non è più la proiezione in Dio della razionalità o intelligenza umana, ma connota solo il modo irripetibile dell’“intelligere” proprio di Dio -, non può più essere la “ratio” in quanto modalità discorsiva o intellettiva dell’uomo, bensì un’altra modalità conoscitiva. La “ratio divina” che, come abbiamo visto, significa “motivazione” e “causa” di tutte le realtà contenute nel piano salvifico di Dio, trova il suo “analogatum minor” non nella “ratio” ma nella fede. La fede infatti non conosce secondo la modalità discorsiva dell’uomo, la cui motivazione è la forza dimostrativa intrinseca della “ratio”, sia speculativa che pratica, sibbene accettando l’autorità della “locutio Dei attestans”, cioè della “gratia”. La “causa”, cioè la motivazione propria alla conoscenza di fede, non è la logica umana ma la stessa “ratio divina” in quanto “ragione” o “causa” ultima di tutte le cose, che si esprime “ad extra” come “ordinatio”, cioè come autorità di Dio, e a cui l’uomo partecipa attraverso la “gratia”, cioè la virtù soprannaturale infusa della fede. Ciò significa che l’uomo conosce la “lex divina”, declinandola storicamente e incarnandola nel tempo, non in forza della logica stringente del sillogismo elaborato dalla propria “ratio”, ma della motivazione divina, cioè dell’autorità formale della Parola di Dio, che l’impulso della “gratia” gli fa accettare nell’atto di fede.
Se in filosofia del diritto è possibile operare con una nozione di legge concepita metafisicamente come “ordinatio rationis”, applicando l’analogia “entis”, in teologia l’analogia determinante è quella “fidei”. Ne consegue perciò che una teoria generale della legge canonica non può essere elaborata a partire da una definizione metafisica di legge, in cui è necessariamente presente una pre-concezione filosofica della legge stessa. Ne consegue che il criterio ultimo e determinante di conoscenza della natura stessa della legge non può essere la “ratio humana”, ma solo la fede, che opera comunque a livello della facoltà conoscitiva dell’uomo. L’elemento comune che giustifica l’esistenza della “analogia entis” tra la “ratio” e la “fides” è dato dal fatto che in tutte e due i casi si tratta di un processo conoscitivo, la cui natura però è, a partire dalla motivazione o causa, profondamente diversa.
b) Implicazioni in ambito civile-statuale
L’aver individuato nella cosiddetta “ordinatio fidei”, il nocciolo della definizione sostanziale di legge canonica ha delle conseguenze non solo per la canonistica ma anche per la scienza giuridica in generale. Se per la prima – come si è già lasciato ampiamente intendere – ciò significa che epistemologicamente e metodologicamente la “ordinatio fidei” prevale sulla “ordinatio rationis”, senza per altro eliminare la “analogia entis” e dunque senza slegare la canonistica in quanto disciplina teologica né dalla filosofia né dalle altre scienze umane, per la seconda lo stesso discorso apre la strada poi al superamento del dualismo, teorizzato dalla dottrina protestante, tra il diritto divino e quello umano, non soltanto canonico ma anche secolare.
Sotto il profilo metodologico ciò significa che il metodo giuridico – in quanto espressione della razionalità umana – non può essere applicato al diritto secolare prescindendo completamente dal confronto con il diritto canonico, senza correre il rischio di cadere in un mero positivismo giuridico, incapace di rispettare la dimensione trascendente della persona umana. Se dalla triade suaresiana “ius divinum, sive naturale sive positivum”, diventata patrimonio comune della canonistica cattolica tanto da essere recepita nel Codice piano-benedettino ai cann. 27 e 1509, si deduce che il diritto naturale contiene anche un vero e proprio obbligo, vincolante prima ancora di essere promulgato da una legge umana e perciò invalidante qualsiasi norma positiva contraria, ciò significa che ogni diritto umano – e dunque anche quello secolare – non può prescindere da questo obbligo senza ridursi da strumento al servizio della realizzazione storica concreta della giustizia a gioco formalistico e di potere.
Coscienti della scomoda attualità dell’affermazione polemica di Kant, secondo cui i giuristi sono sempre tuttora alla ricerca di una definizione comune di diritto, e della fine ironia di William Seagle, che considera questa definizione come “il gatto nero sul cammino della giurisprudenza” o come “la domanda a cui un avvocato non sa rispondere nemmeno se gli si offre un lauto onorario”, nonché a conoscenza della scoraggiante constatazione che da Aristotele ai moderni autori è possibile rubricare – come ha fatto nel 1958 Anton Stiegler – ben 42 definizioni diverse fra le più note, nessuno può avere oggi la pretesa di cimentarsi con l’ardua impresa di tentare una definizione di legge. Mancano infatti i presupposti filosofici ed interdisciplinari. Da una parte bisogna purtroppo constatare l’assoluta eterogeneità delle filosofie moderne, dall’altra occorre registrare – e ciò è ancora più grave – l’assenza stessa di una definizione omogenea della persona umana, nonostante il grande sviluppo attuale delle cosiddette scienze umane. In effetti se ci fosse almeno il consenso che solo l’uomo – e in tutte le fasi della sua esistenza – è l’unico soggetto del diritto, sarebbe necessario, per una convergenza sulla definizione del diritto, ammettere anche che l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Da questa lezione di antropologia dataci dalla Bibbia, sarebbe possibile riconoscere anche un diritto naturale aperto alla trascendenza e perciò una scienza giuridica che non faccia nessuna concessione a quel positivismo che, ultimamente, la distrugge.
Sulla base di queste osservazioni di carattere generale, ed ormai note ai più come capisaldi dottrinali della cosiddetta teologia del diritto canonico, per evidenziare ad un livello piu concreto e tecnico come i concetti “ius canonicum” e “ius civile”, proprio nella loro specificità, rinviano ad una nozione superiore o “analogatum princeps” di diritto e giustizia, è utile fissare ora, sia pure solo brevemente, lo sguardo su alcuni principi o istituti del diritto canonico che potrebbero avere una rilevanza non secondaria nell’elaborazione di una nuova teoria generale del diritto, all’interno della quale sia finalmente possibile definire la legge.
II. Suggestioni canonistiche per la scienza giuridica contemporanea
1. Identità tra persona ed istituzione nel sistema canonico
Non è possibile addentrarsi in questa sede nella pur importante questione relativa al fatto che nella realtà ecclesiale, in forza della valenza giuridica anche del carisma, “Costituzione” ed “Istituzione” non si identificano. Tuttavia, per mettere in evidenza l’apporto della teologia all’elaborazione di una teoria generale del diritto è importante sottolineare, come prima cosa, che nel diritto canonico la nozione “Istituzione” ha un significato diverso da quello assunto nell’ordinamento giuridico dello Stato moderno. Infatti, l’istituzione ecclesiale non è riducibile al sacerdozio ministeriale, di cui è investito il soggetto del potere ecclesiale o “sacra potestas”. All’istituzione ecclesiale appartiene anche il sacerdozio comune che, assieme al “sensus fidei”, costituisce il fondamento della partecipazione di tutti i fedeli alla missione della Chiesa nel mondo. Ne è una prova inconfutabile il fatto che il sacramento del battesimo, da sempre considerato la “ianua sacramentorum”, costituisce il criterio di differenziazione tra il regime di “religione” cristiana – proprio di molte sette e fondato esclusivamente sulla fede in Cristo attraverso la Parola – e il regime di “ecclesialità”, che, per essere tale, esige almeno lo spessore sacramentale del battesimo. Questa incorporazione irreversibile di una persona nella Chiesa che scaturisce dal sacramento del battesimo rivela tutta la valenza istituzionale dei Sacramenti e della Parola. Infatti il battesimo non è solo un evento soteriologico, i cui effetti potrebbero risultare irrilevanti dal profilo sociale, ma anche un atto giuridico costitutivo che determina l’appartenenza di una persona alla Chiesa e che nello stesso tempo condiziona in profondità tutta la struttura giuridica del sistema canonico. In questo modo, nel battesimo affiora paradigmaticamente la valenza giuridica di tutti i Sacramenti e di conseguenza anche della Parola, la quale, pur non essendo sempre annunciata in concomitanza con i Sacramenti, converge sempre, almeno nella forma sintetica e definitoria di ogni sacramento, a produrre l’effetto soteriologico e socio-giuridico del segno simbolico sacramentale.
La funzione del battesimo quale elemento portante non solo della Costituzione, ma anche dell’Istituzione ecclesiale, dà la misura di come il rapporto fedele-Chiesa non sia identico, né omologo a quello cittadino-Stato. Infatti, nella Chiesa come realtà di comunione, contrariamente a quanto avviene nello Stato moderno, ogni rapporto interecclesiale non si realizza secondo la dialettica persona-Istituzione, bensì come rapporto tra Istituzione ed Istituzione, cioè: tra persona e persona. Infatti i Sacramenti ed i Ministeri non esistono a guisa di realtà a sé stanti, cioè astrazioni istituzionali così come avviene invece nell’ipostatizzazione che caratterizza gli uffici nell’ambito dello Stato, ma esistono come componente ontologica delle persone battezzate ed ordinate con il sacramento dell’ordine. Se per Istituzione si intendono le strutture stabili e costitutive di una realtà sociale, bisogna convenire che questa struttura è conferita alla Chiesa dal Sacramento e dalla Parola, che si compenetrano a vicenda, dando origine tra l’altro a quella figura di soggetto canonico che è il “Christifidelis”, soggiacente ed immanente in tutti i tre stati di vita ecclesiale e dunque nelle persone dei laici, dei preti e dei religiosi. La Chiesa come Istituzione non coincide perciò semplicemente con l’organizzazione dei pubblici poteri, cioè dell’autorità. L’Istituzione ecclesiale si invera sempre attorno ai due poli del battesimo e dell’ordine sacro, convergenti con gli altri Sacramenti nell’Eucaristia. In effetti l’Eucaristia è la rappresentazione di tutta la Chiesa, perché è nel contempo la “fons et origo” nonché il “culmen” di tutta la vita della Chiesa, come afferma il Vaticano II (SC. 10).
In altri termini l’Istituzione consiste sostanzialmente negli sviluppi giuridico-strutturali conferiti storicamente dalla Chiesa sia al sacerdozio comune, sia al sacerdozio ministeriale. Nel sacerdozio comune, che comprende anche il “sensus fidei”, si realizza la partecipazione “suo modo e pro sua parte” (LG. 31, 1) di ogni fedele al sacerdozio di Cristo nella dimensione soggettiva. Nel sacerdozio ministeriale, che comprende anche la Parola nella sua forma magisteriale, invece, si realizza la partecipazione dei chierici al sacerdozio di Cristo nella dimensione oggettiva. Questa ultima partecipazione ministeriale si realizza nel conferimento della “sacra potestas” (23). Poiché queste due forme di sacerdozio, pur essenzialmente diverse (LG. 10, 1), consistono in una partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo non possono essere né disgiunte, né contrapposte, ma nella loro reciprocità ed interazione costituiscono i due elementi imprescindibili dell’Istituzione nella Chiesa: i laici e i chierici.
Prestare attenzione a questo dato potrebbe aprire alla scienza giuridica nuove strade verso il superamento dell’opposizione dialettica fra persona ed istituzione, che spesso caratterizza strutturalmente l’ordinamento giuridico dello Stato. Infatti questa dialettica è in gran parte conseguenza della concezione filosofica di stampo positivista, che, considerando lo Stato quale unica fonte di diritto, ne fa una personificazione astratta della realtà sociale. In un sistema giuridico-istituzionale così concepito l’uomo è inevitabilmente ridotto a “cittadino”, cioè a soggetto giuridico coevo allo Stato anziché ontologicamente preesistente ad esso. Il fatto che invece nel sistema canonico vi sia identità fra persona ed istituzione richiama ogni altro sistema giuridico alla priorità della persona rispetto a qualsiasi forma di organizzazione istituzionale, cioè di organizzazione pubblica o privata del potere. Ne consegue anche una assoluta necessità di evitare qualsiasi limite alla libertà religiosa e di coscienza che, proprio in forza del loro rinvio alla trascendenza, sono come la ragion d’essere delle altre libertà individuali e degli altri diritti fondamentali.
A tale riguardo non si può non citare il Congresso Internazionale di diritto canonico, tenuto all’Università di Friburgo nel 1980, sul tema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società. Infatti nello svolgersi dei lavori è stato ampiamente dimostrato che, malgrado la nozione storicamente originaria dei diritti fondamentali sia evoluta fino al punto da trasformare la stessa nozione originaria del moderno Stato di diritto in quella di Stato culturale chiamato a promuovere l’attività culturale e spirituale del cittadino, di fatto la struttura originaria di bipolarità concorrenziale tra cittadino e Stato è rimasta sostanzialmente intatta.
In tutte le forme di evoluzione del modello statale occidentale, il cittadino continua a rivendicare uno spazio di autonomia individuale e lo Stato continua a limitare l’uso del proprio potere anche se è chiamato positivamente a moltiplicare i suoi interventi in favore del cittadino, ben al di là delle previsioni insite nel modello originale dello Stato di diritto. Il problema, per lo meno dal profilo teorico, potrebbe anche risolversi non semplicemente eliminando questa bipolarità strutturale, ma riconcependola alla luce di quanto detto sull’identità fra persona e istituzione nella Chiesa, retta dal profilo strutturale dalla “communio”.
2. La concezione canonistica del rapporto fra legalità e giustizia
La scienza giuridica secolare ha sviluppato, per impulso della dottrina germanica, un elaboratissimo discorso sulle diverse conseguenze dell’atto illecito – canonisticamente parlando qualificabile forse come atto “contra legem” – nel diritto amministrativo e in quello giudiziario.
In diritto amministrativo il provvedimento acquista efficacia, diventando perciò fonte di diritto, anche se “ictu oculi” è invalido. Anzi, conserva la sua efficacia anche se impugnato, fino a quando non è annullato dall’istanza competente, così da non perderla se non per volontà del suo autore, diventando, grazie al principio dell’autotutela, addirittura esecutorio.
Sia pure con alterna fortuna, la scienza giuridica si è inoltre accorta che l’atto amministrativo invalido risponde a leggi diverse rispetto a quelle della regiudicata. Infatti il provvedimento amministrativo non tende, come l’atto giudiziario, verso l’immutabilità, perché la sua autoritarietà è volta a tutelare la volontà dell’istanza emanante, in quanto disposizione, non in quanto decisione. Il provvedimento amministrativo nullo, mancando della perpetuità dell’eccezione di nullità, propria dell’atto giudiziario, resta sempre efficace se non impugnato in termine, perché non esige quell’accertamento dei fatti che nelle sentenze è presente come momento logico necessario, non separabile dalla disposizione.
Per contro, il giudicato ingiusto (o “contra legem”) – a differenza del disposto amministrativo, della usucapione o prescrizione ed eventualmente anche della transazione – non diventa mai fonte di diritto. Mentre questi atti creano una realtà giuridica nuova sganciata da quella preesistente, essendo causa originaria di acquisto o di estinzione di diritto, il giudicato si limita ad enunciare una realtà giuridica che, esistente o meno prima, deve essere considerata in modo irrefutabile come essere la realtà giuridica anteriore. In questo senso non crea una situazione giuridica nuova, ma fissa e rende incontrovertibile l’esigenza o inesistenza della situazione giuridica anteriore. Perciò il principio “ius facit inter partes” non può essere interpretato nel senso che il giudicato crei un “ius”, come lo farebbe una norma astratta, in quanto fonte di diritto obiettivo, o un atto amministrativo in quanto fonte di diritto prevista dalla norma oggettiva. Ad ogni buon conto il giudicato diventa l’unica realtà certa sia del passato che del futuro.
Questo esempio preso dalla dogmatica giuridica secolare se da una parte mette in evidenza il cammino che la canonistica deve ancora compiere a livello di una teoria generale dell’atto “contra legem”, quando fosse possibile considerarla come categoria sintetica, capace di abbracciare tutta la problematica dell’illecito giuridico-canonico, dall’altra evidenzia quanto il diritto canonico ha da dire a quello civile sul problema del rapporto fra legalità e giustizia, che è sostanzialmente riducibile al problema della certezza giuridica.
Da un punto di vista di una teoria generale, infatti, nel diritto canonico gli atti o comportamenti giuridici prodotti all’interno di istituti come l’epicheia, la consuetudine, l’“aequitas canonica”, la creatività del giudice nei casi di lacuna della legge, il procedimento amministrativo e la regiudicata, nella misura in cui sono atti “contra legem”, mettono direttamente in discussione il principio della certezza giuridica.
Se è vero che la possibilità di conflitto tra legalità (o certezza del diritto) e giustizia (o verità effettiva) è un fenomeno comune a tutti gli ordinamenti giuridici, tra i quali non fa eccezione il diritto canonico, è altrettanto sintomatico il fatto che le soluzioni date dagli ordinamenti giuridici moderni e dal diritto canonico sono diverse.
Negli ordinamenti statuali moderni il principio della certezza del diritto prevale su quello della verità oggettiva. In caso di conflitto è la giustizia ad essere sacrificata per garantire sia la stabilità che la sicurezza dei rapporti giuridici, sia l’autorità dell’ordinamento come base della fiducia dei cittadini. Così avviene, come abbiamo visto, nel caso di errore giudiziario, dove l’immutabilità del giudicato – esperiti che siano i mezzi a disposizione per impugnarlo – prevale, in vista della certezza del diritto, su tutte le altre considerazioni.
Sarebbe comunque errato ritenere che questa garanzia formale data dagli ordinamenti statuali moderni ai rapporti giuridici sia giustificata solo da esigenze pragmatiche, come potrebbe esserlo per esempio la necessità che i cittadini conservino la fiducia nell’ordinamento giuridico. Essa è imposta dall’impianto dottrinale stesso degli ordinamenti giuridici che trovano il loro momento genetico nella filosofia moderna, la quale, nel solco della scuola giusnaturalista di estrazione razionalista ha progressivamente escluso ogni possibilità di ricorso ad una istanza trascendente.
Questo riscontro filosofico spiega come, per attutire lo scandalo provocato dall’imporsi della legalità sulla giustizia, si sia potuto sostenere che non esiste altra possibilità di conoscere la verità e la giustizia al di fuori della sentenza giudiziaria. In realtà non si tratta solo di un’attenuante, ma di una conseguenza strettamente dipendente dalla logica stessa di ogni ordinamento giuridico, che, a differenza del diritto ecclesiale e cristiano, non ammette più la possibilità per Dio di essere fonte immediata di diritto.
Il diritto canonico esige che il principio della certezza giuridica, e perciò della legalità, venga sacrificato per lasciar spazio alla giustizia e alla verità oggettiva. Ciò è imposto dal fatto che non può esistere certezza giuridica ultima, vincolante a livello di salvezza, al di fuori della certezza teologica.
La sostanza di questo discorso è stata colta dal Fedele nel suo Discorso generale sull’ordinamento canonico. Tuttavia è giunto forse il momento di precisare questo discorso all’interno di una problematica teologica più stringente, anche se è chiaro che il problema non è quello di eliminare la possibilità di scarto effettivo tra certezza legale e verità obiettiva ma di affermare che la certezza legale ultimamente non esiste se non quando esiste la certezza obiettiva, cioè se non quando in essa è stata colta anche la verità obiettiva. D’altra parte il problema non può essere affrontato cogliendo solo l’aspetto filosofico-giuridico del rapporto tra forma e sostanza. Come si è già notato, sarebbe insufficiente attribuire alla teologia una valenza solo estrinseca rispetto alla legge canonica, così come potrebbe averla l’etica rispetto agli ordinamenti statuali moderni, che nella migliore delle ipotesi la considerano come presupposto meta o extra-giuridico.
Il diritto canonico in quanto realtà teologica porta in se stesso la verità dogmatica perché partecipa della normatività propria alla Parola e al Sacramento; non è solo una sovrastruttura sociale o sociologica del mistero della Chiesa, come potrebbe essere il diritto moderno in rapporto all’etica, o come il diritto canonico potrebbe esserlo, nella concezione protestante tradizionale, rispetto alla Chiesa invisibile, considerata come unica vera Chiesa.
In quanto realtà ecclesiale, formata da istituti giuridici in cui si concretizza nella storia la dimensione giuridicamente vincolante della Chiesa, il diritto canonico è una delle realtà essenziali in cui si manifesta per fatti concludenti la Tradizione della Chiesa e di conseguenza la verità contenuta nella Parola e nel Sacramento. Tutto ciò equivale ad affermare che in diritto canonico non solo esiste un’identità di principio e assoluta tra la certezza legale (o formale) e la giustizia obiettiva, ma anche che questa si realizza a partire più che da una convergenza estrinseca tra fatto giuridico e verità teologica (dogmatica o morale), dall’interno, in quanto il fatto giuridico – quando coglie con precisione il mistero della Chiesa – è in se stesso espressione di verità teologica. Bisogna però anche ammettere che in diritto canonico, come in ogni altra disciplina teologica, è possibile uno scarto di fatto tra la formulazione e la verità, tra la forma e la sostanza. Di conseguenza la certezza formale deve essere considerata come riformabile ogni qualvolta è in gioco il diritto divino e la “salus animarum”.
Queste considerazioni hanno un preciso riscontro istituzionale per es. negli istituti canonici citati sopra, come l’epicheia, l’“aequitas”, la regiudicata, ecc., perché tendono a relativizzare continuamente il valore della certezza formale rispetto a quello della verità teologica effettiva.
Il modo con il quale il diritto canonico regola il problema della regiudicata deve essere considerato come paradigmatico per definire il tipo di rapporto esistente tra verità formale e materiale, cioè tra certezza formale canonica e quella teologica.
Anche in diritto canonico la sentenza, esauriti che siano tutti i rimedi giuridici, pur godendo, almeno secondo la formulazione data dalla dottrina tradizionale, di una presunzione assoluta di rispondenza alla verità come negli ordinamenti giuridici, subisce una deroga di fondo in tutte le sentenze emesse nelle cause “de statu personarum”.
Anzi il diritto delle Decretali ammetteva una deroga al principio della immutabilità del giudicato per un numero molto più grande di controversie (quelle criminali e in materia di benefici, le sentenze chiaramente inique, quelle emesse su falsi documenti, in base a falso giuramento o testimonianza), accettando perfino il principio della sentenza nulla “ipso iure”. Anche volendo riassumere parti di questi casi sotto quello dello “status personarum”, è evidente che la riduzione fatta del diritto codificatorio a quest’ultimo tradisce un adeguamento allo spirito positivista del diritto moderno che, per necessità immanente ai suoi fondamenti filosofici, ha assolutizzato sia il principio della uguaglianza davanti alla legge sia quello della certezza giuridica.
Tuttavia, secondo la dottrina più recente, l’incidenza della deroga “Numquam transeunt in rem iudicatam causae de statu personarum” (codificata dal can. 1903 del Codice piano-benedettino e ripresa in quello nuovo al can. 1643) è tale da investire alla radice non solo questi casi particolari, ma tutto il sistema canonico. Essa vale non solo per lo stato giuridico dei fedeli, chierici, religiosi e laici sposati, ma è estendibile anche ai casi inerenti il cosiddetto “status civitatis”, con i suoi diritti e la sua capacità giuridica.
Un diritto che in un settore essenziale come quello dello “status personarum”, che in quanto stato costituzionale comprende tutti i diritti fondamentali primari e derivati, scritti ma anche (dato che nel sistema canonico il diritto divino come quello naturale sono sempre applicabili anche se non canonizzati dal legislatore) non scritti, non tollera divario tra certezza legale e verità effettiva, denuncia il principio stesso della certezza del diritto, come principio fondamentale del sistema.
Non ha importanza far qui la critica al concetto di “salus animarum”, che pure vanta una grande tradizione teologica, come categoria incapace di esprimere per la sua connotazione individualistica ed estrinsecistica il fine ultimo storico e ad un tempo escatologico, verso il quale converge il diritto canonico e dal quale riceve la sua impronta fenomenologico-giuridica.
Importante è constatare come questa categoria, teologicamente superata, esprima comunque una priorità rispetto a tutti gli altri valori giuridico-sociali di estrazione solo filosofico-giuridica.
È perciò necessario invertire rigorosamente i termini della questione. Quando, e nella misura in cui sono in gioco i valori fondamentali, tentativamente espressi con l’idea della “salus animarum”, non è mai la certezza formale, ma la verità teologica e soteriologica che fa stato. All’interno di un discorso teologicamente più corretto ciò significa che quando la norma canonica tocca gli elementi base su cui si articola la “communio ecclesiae et ecclesiarum”, cioè prima di tutto la struttura costituzionale della Chiesa stessa – colta dalle Decretali sotto la denominazione delle “cause beneficiali” – e, subordinatamente, i diritti fondamentali dei cristiani, con tutte le implicazioni che da questi settori possono derivare, la certezza formale non può mai essere l’ultimo criterio.
Per completare l’orizzonte entro il quale si costruisce la concezione canonistica del rapporto tra legalità e giustizia occorrerebbe studiare anche la rilevanza giuridica dell’epicheia e dell’“aequitas canonica”, nonché il modo secondo cui nella Chiesa la “consuetudo” e il “carisma” sono fonti di diritto. Il discorso porterebbe però troppo lontano ed in questa sede dovrebbe invece bastare la sottolineatura di come quanto detto ha un’incidenza su uno dei settori piu tecnico-formali della scienza giuridica: quello del diritto processuale, con particolare attenzione alla nozione di sentenza che, secondo la convinzione comune della dottrina, è lo specchio di tutto l’ordinamento giuridico in cui esso opera.
3. La natura dichiarativa della sentenza canonica
Dopo il progressivo isolamento della nozione di azione dai diritti sostanziali, è invalsa anche nella canonistica come nella processualistica civile, la classificazione delle azioni, non sulla base del loro contenuto materiale, ma sulla base della natura del provvedimento giudiziario cui essa tende: vale a dire, la distinzione in azioni di puro accertamento, di condanna e costitutive.
Non si è comunque prestata molta attenzione al fatto che questa distinzione non coglie l’ordinamento processuale canonico nella sua identità profonda. In effetti le azioni di condanna e quelle costitutive, come per es. quella rescissoria, cui alludono per es. i cann. 125 § 2 e 126, appartengono o all’ambito giudiziario del contenzioso ordinario, che non tipicizza il sistema giuridico canonico; oppure appartengono a quello della giurisdizione amministrativa, che ancora fatica a trovare una sua identità ecclesiale precisa.
Nei processi più tipicamente canonici (concernenti il già citato “status personarum”,) il giudizio, sia che si esprima tecnicamente come sentenza, sia che si esprima come decreto di un’istanza amministrativa che agisce processualmente, è sempre e solo un giudizio di mero accertamento, cioè dichiarativo.
Questa constatazione è incontrovertibile se riferita alle sentenze sulla validità dei sacramenti, sull’ortodossia e sulla santità o martirio di un fedele.
Non sembra fare eccezione neppure la cosiddetta sentenza penale con la quale si constata il grado di appartenenza di un fedele alla comunione con la Chiesa cattolica. Ciò è vero non solo quando essa è definita dal diritto positivo come “declaratoria” di una pena “latae sententiae”, ma anche quando è definita come “irrogatoria” di una pena “ferendae sententiae” (can. 1314).
Come è stato recentemente dimostrato, la sanzione canonica “princeps”, cioè la scomunica, non può essere giuridicamente tipicizzata come pena, nel senso specifico della teoria generale del diritto. Ciò vale indipendentemente dal fatto che il legislatore continui a comminarla non solo come pena “latae sententiae”, ma anche come pena “ferendae sententiae”, pena quest’ultima che rende necessario un intervento positivo del vescovo, come giudice o come superiore amministrativo.
Se la scomunica non è una pena, allora la conseguenza ineluttabile è che pure le pene minori, medicinali (come la sospensione e l’interdetto), o espiatorie (come per esempio la privazione dell’ufficio o dello stato clericale) sono pene nel senso tecnico-giuridico della parola, indipendentemente dalla terminologia usata dal diritto positivo, devono essere considerate come semplici misure disciplinari, anche se mantengono un risvolto afflittivo-retributivo.
La scomunica, in effetti, è una situazione personale di non appartenenza alla piena comunione della Chiesa cattolica, in cui il fedele viene, di fatto, a trovarsi per propria iniziativa e colpa, già prima della sentenza irrogatoria. Quest’ultima perciò non ha carattere costitutivo ma solo declaratorio.
In effetti, lo scopo della dichiarazione della scomunica non ha come fine quello di punire il fedele, ma semplicemente quello di renderlo attento alla sua situazione di non-comunione, perché gli sia più facile convertirsi. Contrariamente alle pene vere e proprie, che nel diritto statuale generano una nuova situazione giuridica e che per loro natura esigono l’esecuzione, indipendentemente dalla volontà o dal pentimento del cittadino da esse colpito, la scomunica dipende totalmente dalla volontà di pentimento del fedele, per cui è in realtà solo una penitenza o meglio un tipo particolare di “penitenza”.
Se l’ordinamento canonico, nella sua struttura ontologica, è un ordinamento che non postula l’istituto giuridico della pena, allora bisogna convenire che anche tutte le altre sanzioni canoniche non solo non sono pene, ma non sono, in quanto tali, neppure necessarie per tutelare la realizzazione dell’ordinamento giuridico della Chiesa.
In realtà non si tratta neppure, come si è già visto, di garantire il realizzarsi dell’ordinamento canonico in quanto tale, bensì di garantire l’autenticità della celebrazione del Sacramento e della predicazione della Parola. Per raggiungere questo scopo sarebbe sufficiente che la Chiesa utilizzasse sanzioni o semplicemente “disciplinari” oppure tipicamente “penitenziali”, ossia legate alla volontà di pentimento del fedele. Tutto ciò dipende dal fatto che nella Chiesa il potere, cioè la sacra potestas, non è un potere come tutti gli altri. La “sacra potestas” non è un potere autonomo derivante in modo anonimo dall’ordinamento giuridico; esso coincide sempre con le persone concrete che lo detengono, vale a dire i vescovi.
Il rapporto fedeli-vescovo è di natura eminentemente personale. L’ordinamento giuridico non si sovrappone mai totalmente a questo rapporto personale, ultimamente ineliminabile. Lo dimostrano sia l’istituto della dispensa, rimasto, contrariamente agli ordinamenti giuridici moderni, chiave di volta del sistema canonico e ulteriormente sviluppato dal nuovo CIC grazie alla recezione del principio conciliare secondo cui il vescovo, in forza della sua ordinazione, possiede tutto il potere necessario per provvedere al bene spirituale dei suoi fedeli (can. 87); sia la discrezionalità di cui gode il vescovo nell’ambito del diritto sostanziale penale. Basterebbe ricordare, a questo proposito, che il vescovo è autorizzato a non irrogare una pena, anche quando la legge la statuisse in modo tassativo (can. 1344).
Si deve concludere da questi e molti altri elementi che l’ordinamento positivo canonico e in modo particolare il cosiddetto diritto penale, quando non tange direttamente il diritto divino “naturale positivo”, è, dal profilo ontologico (in contrasto con la coscienza che l’ordinamento positivo ha di se stesso), ultimamente solo indicativo. Serve da criterio per orientare il vescovo nell’uso della “sacra potestas”, senza poterlo vincolare direttamente in modo assoluto, dal momento che il vescovo rimane la fonte originaria della norma, dalla quale può dispensare, anche quando la legge ha carattere universale. Quest’ultima lo vincola “ad validitatem” solo indirettamente, cioè in forza dell’imperativo che incombe al vescovo di salvaguardare l’unità e la comunione, vale a dire il principio dell’immanenza della sua Chiesa particolare con quella universale. Il potere vincolante della norma positiva universale, la cui fonte è il papa o il collegio dei vescovi, non elimina la responsabilità del vescovo in forza di una dinamica volontaristica nella concezione della funzione dell’autorità e della legge ecclesiale, ma solo grazie al fatto che la comunione e l’unità oggettiva sono il criterio supremo dell’esercizio della “sacra potestas”.
Questa constatazione, che non coincide con una visione filosofico-teologica volontarista dell’impianto giuridico della Chiesa, coincide invece perfettamente con una infrastruttura teoretica realistica e di conseguenza anche con il carattere fondamentale dichiarativo o di accertamento della sentenza canonica affermato precedentemente.
Infatti, l’evoluzione avvenuta nella civilistica moderna dalla concezione della sentenza-parere alla sentenza-comando è stata provocata da molti elementi, ma in primo luogo dalla alternativa teorica creata dal pensiero volontarista di Kant e di Hegel alla filosofia illuminista di Montesquieu. Ora, se questa critica alla posizione di Montesquieu ha una sua giustificazione perché è vero che la sentenza è qualcosa di più di un semplice sillogismo, occorre però convenire che è altrettanto vero che al di fuori di una posizione realista, la sola alternativa storica possibile ad un intellettualismo di stampo illuminista è il contraccolpo di estrazione volontaristica. Il realismo tomista, concependo la ragione non come strumento conoscitivo autonomo e immanente a se stesso, bensì come strumento il cui compito è quello di interpretare la struttura ontologica intrinseca alle realtà create, non concepisce il diritto naturale come prodotto autonomo della ragione, ma come risultato della lettura che la ragione fa di una realtà oggettiva creata e preesistente, di cui l’uomo non può disporre, ma solo constatare.
La sentenza canonica (da “sentire”) è perciò in definitiva un atto di accertamento che non si esaurisce in un semplice sillogismo, ma tende a individuare la natura intima del rapporto sostanziale e giuridico oggettivo sottoposto al solo giudizio. In realtà, il giudice canonico nel valutare la validità intrinseca dei sacramenti (matrimonio e ordine), il grado di appartenenza alla comunione piena della Chiesa (processo penale), oppure la capacità o legittimazione di esercitare un ufficio o il ministero sacerdotale (processo disciplinare) come pure l’ortodossia di una dottrina o l’autenticità della santità di una persona, non fa altro che constatare la presenza o meno di una realtà ecclesiologica in base ad una valutazione il cui esito, la sentenza canonica appunto, non ha come scopo né quello di risolvere controversie né quello di attuare il diritto obiettivo o produrre l’effetto di cosa giudicata. Infatti, l’essenza della attività giudiziaria canonica, e di conseguenza della sentenza canonica, coincide con quella della “sacra potestas”, qualunque siano le modalità formali attraverso le quali essa si manifesti.
Essa consiste nel compito di garantire, attraverso un intervento autoritativo dichiarativo o di accertamento, l’oggettività dell’esperienza ecclesiale, fondata sulla validità dei Sacramenti e sull’autenticità della Parola (ortodossia); sulla verità della appartenenza alla comunione piena della Chiesa; sulla verità della santità e del martirio; tutti elementi che garantiscono ai fedeli di poter realizzare la loro comune vocazione di vivere la fede e la comunione con Dio e con la Chiesa.
Non per nulla il primo e principale dovere di tutti i fedeli, statuito dal can. 209 § I, è quello di vivere la comunione con la Chiesa in cui Dio e gli uomini vivono storicamente in un rapporto di comunione, cioè di immanenza reciproca.
III. Conclusione
In seguito al rinnovamento metodologico ed epistemologico provocato dal Concilio Vaticano II nel diritto canonico, la maggior parte dei canonisti è certamente consapevole della portata di due fatti innegabili.
Innanzitutto, del fatto che la scienza giuridica secolare ha svolto in questi ultimi secoli una mole di lavoro immenso nel tentativo di risignificare a livello teorico tutti gli istituti giuridici tradizionali – creandone anche di nuovi – a partire dalle molteplici proposte avanzate dalla filosofia moderna. Se le fluttuazioni subite dal pensiero filosofico-giuridico moderno hanno provocato a catena soluzioni diverse per ogni singolo istituto – all’interno di un pluralismo giuridico ricco anche di contraddizioni – esse le hanno però anche permesso di affinare, con perfezione forse mai raggiunta nella storia, il proprio bagaglio concettuale.
In secondo luogo, il fatto che la canonistica contemporanea deve compiere ulteriori sforzi per poter essere in grado di controllare con assoluta padronanza le implicazioni mondano-positivistiche di natura dottrinale e sistematica insite nel metodo della teoria generale. Quest’ultimo, infatti, tende per sua natura a trattare il sistema canonico alla stessa stregua di quelle realtà giuridiche, ontologicamente sempre più autosufficienti, che nella scienza moderna passano sotto la denominazione di ordinamenti giuridici primari.
Tuttavia, a partire da quanto detto in questa sede a livello di alcuni principi fondamentali del sistema canonico, si può legittimamente tirare la seguente conclusione.
In regime di cristianità il diritto canonico ha sempre esercitato un forte influsso sull’elaborazione degli istituti del diritto secolare, soprattutto nei settori del diritto matrimoniale, processuale e penale. La ragione di questa influenza sta ultimamente nel fatto che l’uomo medioevale era aperto alla conoscenza della fede e ne sapeva seguire i riflessi nel modo con il quale la Chiesa tentava di perfezionare i rapporti giuridici intersoggettivi e con l’autorità.
Da quando la Chiesa nell’epoca moderna si è presentata al mondo come “societas perfecta”, ponendosi sul terreno del diritto naturale e su un piano concorrenziale o difensivo rispetto al nascente Stato moderno, l’osmosi tra diritto ecclesiale e secolare si è progressivamente esaurita.
L’uomo contemporaneo, che non ha più la fede dell’uomo medievale, rifiuta di guardare alla Chiesa come una realtà sociale di natura giuridica simile a quella dello Stato o per lo meno ne è impedito dalla profonda convinzione – lasciatagli in eredità da Hegel – che solo lo Stato può essere fonte di diritto. Questo uomo, così sicuro dei mezzi della propria ragione, può ancora guardare alla Chiesa solo se in essa scopre un altro tipo di conoscenza che soddisfi la sua nostalgia di mistero e la sua sete di capire la verità iscritta nella sua persona. Questo mistero e questa verità – ultimamente conoscibili solo con la fede – non possono quindi essere disattesi dal canonista desideroso di svolgere il suo servizio teologale di “iuris – consultus” nella Chiesa e nella società. È solo applicando correttamente il suo metodo teologico, senza falsi timori di snaturare la norma canonica o di privarla della propria forza giuridica vincolante, che la scienza canonista sarà di nuovo in grado di esercitare un influsso positivo e profetico nei confronti della scienza giuridica. Quest’ultima, a sua volta sarà liberata dal pericolo di nuove ed ulteriori involuzioni anti-ecclesiali solo se riconoscerà la pluralità di fonti del diritto umano e guarderà alla loro rispettiva specificità non come dei limiti ma come altrettante provocazioni dottrinalmente feconde per la elaborazione di una teoria generale del diritto. In questo momento di svolte storico-culturali un po’ in tutti i settori della vita civile, proprio in sede di teoria generale del diritto non si può rifiutare il confronto con la provocazione lanciata dalla canonistica attraverso la riscoperta della specificità propria alla struttura giuridica della Chiesa, e qui esposta in alcuni dei suoi elementi più importanti, anche se tale sfida dovesse condurre a varcare la soglia che dalla ragione sfocia nella profezia.