- I. Gli orizzonti culturali
- II. La teologia ortodossa
- III. La teologia protestante
- IV. La teologia cattolica
La specificità delle diverse risposte date dalla teologia ortodossa, protestante e cattolica alla questione sulla natura del diritto canonico può essere colta solo tenendo conto delle opzioni culturali di fondo in cui esse, salvando in modo diverso la sostanza di un discorso cristiano, si iscrivono storicamente. Si tratta di quelle opzioni a partire dalle quali l’uomo, da sempre, ha cercato di interpretare il mondo alla ricerca della verità di se stesso e del significato della propria storia. Due sono stati gli sbocchi costanti in qualche modo continuamente ricorrenti pur nella varietà delle forme o dei contenuti, del tentativo dell’uomo di eludere “il circolo diabolico delle apparenze cosmiche”, senza indugiarvi “come il serpente che si morde la coda” (von Balthasar). La prima via è quella orientale che, di fronte all’assolutezza dell’essere, accetta l’assoluta relatività della realtà e della storia e tenta perciò un’uscita dalla contingenza della storia verso l’alto, per ritornare all’originaria purezza del “divino”, concepito come realtà indistinta, omogenea e infinita, trascendente tutto ciò che è umano. Questa elevazione filosofica, perpendicolare alla direzione orizzontale della storia, permette platonicamente di superare le contraddizioni terrene, ma tradisce ultimamente il destino dell’uomo di appropriarsi il mondo, vivendo un’escatologia senza storia (Evdokimov). La seconda via, quella occidentale, fa leva invece sulla volontà dell’uomo di cogliere nel concreto della propria storia il destino ultimo di sé e della realtà. Essa tende a identificare Dio con la storia, intesa come progetto messo in atto dall’uomo, in cui esso vive senza prospettiva escatologica. Questo tentativo, iniziato con il messianismo giudaico, è stato ripreso in occidente da Marx il quale, proponendo l’idea del progresso, ha dato corpo alla forma più consapevole e scaltrita del mito prometeico. Dal determinismo positivista, proprio a questa dialettica storica, è stato ricavato solo uno spietato pragmatismo che spinge in avanti, superato appena dal principio “speranza” (Bloch), il quale però rinvia ancora, ultimamente, all’escatologia e alla profezia (von Balthasar).
Il cristianesimo preclude con il principio “incarnazione” qualsiasi possibilità di fuga dal mondo verso l’alto o verso l’avanti. Il cristiano è chiamato ad assumere il mandato mondano senza soggiacere alla tentazione di procurarsi la salvezza con le proprie forze, bensì secondo la salvezza del Dio incarnato. Non può consolare nessuno con il rinvio alla contemplazione di un archetipo platonico o la promessa di un domani. Egli sa di dover cambiare il mondo già oggi, accogliendo la grazia come forza che supera la sua forza naturale, dentro una speranza che sta “contro ogni speranza” di questo tempo, perché proviene dalla risurrezione del Cristo e dei morti. Il principio dell’incarnazione deve però essere interpretato con tutto il rigore della tradizione cattolica. Servendosi dello spunto metafisico ilemorfistico aristotelico-tomista, enucleato nel principio universalia in rebus – alternativo a quellouniversalia ante res (Platone) o a quello universalia post res (nominalismo) – in forza del quale la forma si “incarna” nella materia, la teologia cattolica attua con estrema coerenza dottrinale e senza soluzione di continuità metodologica sia il passaggio dalla cristologia calcedonense – comune a tutte le grandi confessioni cristiane – alla chiesa come istituzione, sia quello dalla grazia increata di Dio – che giustifica – alla grazia creata, che santifica. In forza di questa concezione, che ha trovato nella concretezza e nell’equilibrio latino una congenialità culturale, il cristiano è obbligato alla collaborazione da subito ad un’opera di salvezza “in” e “di” questo mondo, vivendo l’escatologia nel presente della storia, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di esaurirla all’interno della storia stessa. Solo evitando evasioni implicite e esplicite di natura monofisitica o nestoriana, è possibile valutare la dimensione istituzionale-giuridica della chiesa come un fatto necessario di incarnazione della forza vincolante formale della parola e del sacramento. Questa dimensione non può essere ridotta ad un sistema di norme giuridiche sempre scavalcabili in nome di un’altra realtà teologica (principio dell’“economia”) e neppure a fenomeno solo sociologico, intrinsecamente non necessario per la salvezza nella fede, ma inevitabile per ferrea necessità storica (“mit eisernder Notwendigkeit”, Sohm).
Varie sono le ragioni storiche per cui l’ortodossia – al di fuori dei vaghi accenni emergenti nel dibattito attorno all’istituto dell’“economia” – non si è mai posta in modo esplicito il problema della fondazione teologica del diritto canonico. In primo luogo bisogna costatare il fatto che il sistema di sovrapposizione “sinfonica” tra stato e chiesa, elaborato da Giustiniano e protrattosi fino al XX sec., non ha mai condotto la chiesa ortodossa a rivendicare un’autonomia giuridica propria. Né l’impero bizantino, né quello ottomano, né lo stato moderno, fino alla seconda guerra mondiale – a differenza di quello illuminista occidentale – hanno mai negato la fondamentale autonomia istituzionale della chiesa, come del resto non l’aveva negata il sistema feudale medioevale. In secondo luogo bisogna tener conto del fatto che la problematica teologica dell’esistenza e della natura del diritto canonico – sollevata dalla riforma protestante e da essa proiettata sulla teologia cattolica – è rimasta fondamentalmente estranea all’ortodossia, sia perché non ha mai ceduto alla tentazione di separare la chiesa visibile da quella invisibile, sia perché, contrariamente a quella latina sempre propensa a chinarsi sulle realtà ecclesiali terrestri, da sempre ha preferito contemplare l’ontologia di quelle celesti.
Comunque non mancano autori moderni orientali ed occidentali come Evdokimov e Heiler che hanno affrontato la problematica della natura teologica del diritto canonico. Il loro discorso, però, marcato in primo luogo dalla preoccupazione di commisurare la tradizione orientale a quella latina, da loro considerata affetta da troppo giuridismo, non raggiunge il livello di analisi culturale e teologica toccato dalla teologia cattolica e protestante. Sono tentativi che possono comunque essere interpretati correttamente solo se si riesce a collocarli all’interno sia del nexus mysteriorum più vasto, proprio del sistema teologico orientale, sia dalla prassi giuridica reale vissuta dalla chiesa ortodossa antica e moderna. Sarebbe evidentemente semplicistico, soprattutto quando la pretesa fosse quella di dare un giudizio di valore, ridurre le diverse esperienze ecclesiali presentando – come hanno fatto alcuni -, la chiesa protestante come chiesa della dottrina, quella cattolica come chiesa del diritto e quella ortodossa come chiesa del culto (Seeberg). Tuttavia è impossibile negare la profonda resistenza della chiesa ortodossa a qualunque tentativo di costringere il mistero della salvezza entro schemi istituzionali e giuridici.
1. Contemplazione della trascendenza
La teologia ortodossa ha portato l’accento sulla trascendenza. In seguito ai contatti con il neo-platonismo nel corso del III sec., ma soprattutto con la ristrutturazione ellenistico-bizantina subita nel medio evo dopo l’incontro coi popoli slavi, il cristianesimo orientale – a differenza di quello occidentale segnato profondamente dalla mentalità sacrale ma concreta dei popoli germanici – ha assunto una profonda valenza mistica. Pur essendo oggi possibile valutare la spiritualità della chiesa ortodossa e specialmente di quella moderna anche prescindendo dal monachesimo, è tuttavia in esso che il genio religioso dell’oriente cristiano è emerso nel modo più paradigmatico. Esso non fu guidato, come nel progetto benedettino, dal desiderio di possedere e dominare la realtà terrestre con il lavoro, ma fu condotto dal desiderio di stabilire anzitutto un rapporto del singolo uomo con Dio (Seeberg). La spiritualità dell’ortodossia culmina infatti in un aristocratismo ispirato ai carismi personali del solitario che rompe con il mondo sociale perché non spera in una sua trasformazione dall’interno attraverso il proprio lavoro, ma solo nella possibilità di una sua trasfigurazione (Clément). Nella sua fuga mundi il monaco ortodosso non si ispira solo all’idea dell’ascesi, tipica della chiesa primitiva, ma anche al dualismo culturale della spiritualità orientale di ispirazione platonica (Louvaris). Nella mistica della theosis o divinizzazione dell’uomo – ultimo termine della purificazione cristiana – la spiritualità ortodossa ha perciò saputo trasfigurare anche l’esperienza contemplativa dei popoli orientali.
A partire da una diversa radice antropologica (Beth) e da un’infrastruttura culturale di reminiscenza platonica, che però non hanno eliminato la sua fondamentale ispirazione paolina (Clément), la teologia ortodossa non segue il tipo di conoscenza concettuale deduttivo proprio dell’occidente, ma quello della conoscenza sapienziale, che invece del desiderio di definire sente il bisogno di non definire (Congar). L’icona non rivendica una consistenza propria, perché non pretende di essere un’incarnazione, ma solo un segno sensibile della trascendenza invisibile. Essa attesta la presenza di Dio nel mondo, rappresentando gli archetipi irrazionali dell’intelligibile senza la pretesa di materializzarli o reificarli. Il rigore dei suoi canoni salvaguarda lo spirituale da ogni obiettivizzazione possibile (Evdokimov).
Così come appare nell’icona, nella quale non si realizza il principio ilemorfistico degli universalia in rebus bensì quello platonico degli universalia anteres, la teologia ortodossa, rifiutando di declinare concettualmente il mistero e preservandolo in tutta la sua forza postulativa, opera il passaggio dal divino all’umano all’interno dell’economia della salvezza su strade ben diverse da quelle della teologia latina. L’ortodossia rifiuta sia la nozione della grazia “soprannaturale creata” che, sfociando in quella della filiazione adottiva di Dio, permette di introdurre nel processo della giustificazione l’idea dell’espiazione meritoria (Evdokimov), sia la nozione scolastica dell’ex opere operato, che a sua volta sfocia nel concetto della “transustanziazione”, accettato solo con molta renitenza dagli orientali (Heiler). A queste dottrine che si reggono sul principio ilemorfistico della causalità efficiente, nelle quali emerge il tentativo puntuale dei latini di applicare in modo rigorosamente deduttivo il principio dell’incarnazione a tutti i settori dell’economia della salvezza, la teologia ortodossa preferisce l’idea della trasmutazione deificante dellatheosis, dove Dio si comunica all’uomo non attraverso la sua “essenza”, nel segno dell’analogiaentis, ma attraverso le sue “energie increate” (palamismo) in una sovrabbondanza di pienezza che essendo personale supera ogni necessità di mediazione creata (Clément).
All’interno di questo orizzonte culturale era inevitabile che la teologia ortodossa, affrontando il problema del diritto canonico, non si lasciasse guidare dall’idea, tipica della teologia latina, di cogliere nella norma giuridica l’incarnarsi della verità dogmatica.
2. Chiesa universale e locale
La medesima reticenza di gusto platonico emerge puntualmente anche a livello ecclesiologico, sia nel modo con cui la teologia ortodossa stabilisce il rapporto tra chiesa universale e locale, sia nel modo in cui concepisce l’autorità all’interno della chiesa stessa. A differenza dell’ecclesiologia vaticana che non ha esitato a definire la chiesa locale anche come “portio Ecclesiae universalis” (LG, 23,2), l’ortodossia evita rigorosamente di considerare la chiesa locale come parte di quella universale (Afanassieff). Preferisce sottolineare che tutte le chiese particolari sono uguali nel manifestare la pienezza di quella universale. Come esiste una consustanzialità degli uomini nella salvezza, esiste una consustanzialità eucaristica delle chiese locali ad immagine della ss. Trinità (Clément). Se è vero che la chiesa locale non realizza quella universale se non vivendo in comunione con tutte le altre (sobornost) e che tutte assieme formano la chiesa universale, è altrettanto vera l’affermazione che la comunione delle chiese tra di loro non crea additivamente una pienezza più grande (Evdokimov).
Malgrado la profonda convergenza sostanziale delle due ecclesiologie non si può non prendere atto che, mentre quella del Vat II afferma con la stessa forza sia il principio che la chiesa universale si realizza in quella particolare, sia quello che essa è costituita dalle chiese particolari “…in quibus et ex quibus una et unica Ecclesia universalis existit” (LG 23.1), l’ecclesiologia ortodossa tende platonicamente a sottolineare in modo più unilaterale il fatto che la chiesa universale, sempre uguale ed identica a se stessa, sembra assumere la funzione dell’archetipo che si realizza nel particolare, senza essere costituito in quanto tale dalla pluralità delle chiese particolari (“ex quibus”). Per l’ecclesiologia vaticana è essenziale il fatto che la chiesa universale in quanto archetipo risulti ontologicamente costituita dalla pluralità delle chiese particolari. Si tratta di una valenza qualitativa e non additiva (o quantitativa), di natura socio-culturale o geografica, come quella sottintesa nelle concezioni che l’oriente ha spesso avallato dell’ecumene e che l’occidente razionalista e illuminista moderno ha tradotto con la categoria del pluralismo. Dal profilo teologico latino non sarebbe di conseguenza ipotizzabile che una sola ed unica chiesa particolare possa realizzare pienamente la chiesa universale, poiché quest’ultima non è un’idea astratta, ma una realtà ecclesiale concreta non solo storicamente, ma anche ontologicamente risultante dalla comunione di tutte le chiese particolari. Infatti la chiesa di Gerusalemme è esistita solo a livello storico, non teologico, come unica chiesa, particolare e universale nello stesso tempo. Infatti nel “collegio” apostolico, era presente in germe tutta la pluralità delle chiese particolari.
Questa concezione ecclesiologica implica conseguenze precise per la natura della comunione esistente tra le chiese particolari. La communio Ecclesiarum non è solo mistica ma anche strutturale e perciò giuridica. La teologia latina con il suo senso spiccato per l’istituzione ha declinato questo fatto in termini di communio hierarchica. Infatti tutto ciò che è strutturale è giuridicamente vincolante per se stesso. Ne consegue che il concilio ecumenico non può essere considerato, come fa gran parte dell’ortodossia, solo come luogo dove si esercita il mutuo amore (Evdokimov), ma come luogo dove la struttura della chiesa universale – necessariamente risultante dalla pluralità delle chiese particolari – diventa vincolante per se stessa e non invece a partire da un eventuale riconoscimento o recezione posteriore da parte delle chiese autocefale che sarebbero così le sole ad esercitare un’autorità vincolante a livello giuridico. La cattolicità è vista dall’ortodossia come causa esemplare-formale che partecipandosi in modo uguale a tutte le chiese particolari genera l’unità tra di loro (Evdokimov). La chiesa latina, per contro, tende a far dipendere la verità, nella sua autenticità, dall’unità strutturale e giuridica delle chiese tra di loro. Soprattutto nell’ecclesiologia russa – dove riecheggiano strutture di pensiero protestanti – l’infallibilità è considerata in modo unilaterale come appartenente alla chiesa in quanto tale; di conseguenza viene a mancare un criterio assoluto di verità (Bulgakov). Il concilio ecumenico infatti, – come del resto il vescovo di Roma – non è vincolante “ex sese”, ma solo “post factum” (Afanassieff). I decreti del concilio pur essendo ritenuti dalla teologia orientale direttamente ispirati dallo Spirito santo (Karmiris), vincolano immediatamente solo a livello disciplinare, poiché restano sospesi a livello sostanziale fino al momento della recezione da parte di tutta la chiesa. Infatti il concilio ecumenico non è tale perché costituito dai rappresentanti accreditati di tutte le chiese particolari, ma perché rende testimonianza della fede e rivela la verità. Non è infatti l’unità giuridica, determinata a partire dall’autenticità formale con la quale i vescovi sono riuniti in concilio, che garantisce la definizione dogmatica, bensì la verità in se stessa, la quale è fatta emergere continuamente dalla presenza dello Spirito. Questa visione della dinamica delle decisioni conciliari coglie senza dubbio la natura profonda dell’ufficio episcopale che consiste nel rendere testimonianza più che nel decidere volontaristicamente sulla verità; dimentica tuttavia che il valore della testimonianza fatta all’interno della communio hierarchicaemergente dalla successione apostolica, ha forza vincolante giuridica in quanto tale, coma la locutio Dei attestans stessa. Anche senza voler sottolineare la contraddizione nella quale l’ortodossia cade – riconoscendo un rapporto di subordinazione gerarchica tra le chiese particolari all’interno delle grandi realtà ecclesiali autocefale, negando però ogni primato giurisdizionale all’interno della pentarchia patriarcale – si deve costatare che l’immagine della chiesa universale propria dell’ortodossia si traduce nella negazione di un’autorità istituzionale – concilio ecumenico o vescovo di Roma – che all’interno della stessa possa fissare in modo stringente la verità del dogma.
Sarebbe d’altra parte evidentemente scorretto affermare che la teologia ortodossa non riconosce alla chiesa – prolungamento e continuazione dell’incarnazione di Cristo nella storia (Karmiris) – un reale spessore nella mediazione della salvezza. Tuttavia la determinazione con la quale essa afferma che nessuna persona umana può essere considerata capo della chiesa poiché solo Cristo è il capo (Heiler) tradisce la sua reticenza di fronte al fatto istituzionale-giuridico. È sintomatico infatti che nella teologia orientale manchi la distinzione, emersa in occidente soprattutto con la scuola dello ius publicum ecclesiasticum, tra la potestas Ecclesiae propria e quella vicaria, esercitata in nome di Cristo.
A partire dall’affermazione che solo il Cristo è capo della chiesa ogni ipostatizzazione giurisdizionale di tipo monocratico o collegiale diventa impossibile non solo a livello della chiesa universale ma anche particolare. Anche a livello eparchiale è il Cristo che guida la chiesa attraverso il vescovo, che però non esaurisce tutta la pienezza della chiesa, anche se è il membrum praecipuum senza del quale la chiesa non potrebbe esistere, come l’uomo non può esistere senza il respiro e il mondo senza il sole (Confessio Dosithei). Dato che la chiesa universale, in quanto realtà archetipo, non è costituita dall’esistenza delle chiese particolari e dato che non è possibile ipostatizzare nella persona del papa e quindi anche nel vescovo l’autorità della chiesa, diventa inevitabile che il concilio non possa godere di un potere giuridico ex sese ma solo post factum, cioè dopo la recezione fatta dalla chiesa stessa, di cui solo il Cristo è capo.
Da queste premesse risulta che il problema ultimo dell’ortodossia sta nel fatto di non poter accettare che il dogma possa tradursi in termini giuridici allo stesso modo come l’icona nella sua espressività simbolica non può essere tradotta con categorie razionali. La teologia latina invece ha stabilito nel dogma del primato di giurisdizione papale un’identità totale tra verità teologica e verità giuridica: formulazione giuridica e verità teologica sono in esso coessenziali (Congar).
3. Istituto dell’“economia”
L’economia è forse l’istituto nel quale emerge con più chiarezza la diversa concezione che l’oriente ha del diritto. Nella sua accezione più vasta il principio dell’economia ecclesiastica significa trasposizione della pedagogia divina e della metodologia della ìstoria della salvezza nella situazione storica della chiesa. Dio, che vuole rendere perfetto l’uomo nella santità elevandolo alla sua comunione nella theosis, realizza questo progetto nella pazienza, nella misericordia e nel perdono (Meilia). Se questa è la chiara premessa dottrinale alla quale da sempre, in oriente come in occidente, la dottrina e la prassi dell’economia hanno attinto, ispirandosi soprattutto a s. Basilio, sia la prima che la seconda sono rimaste fino ad oggi nella teologia ortodossa imprecise e fluttuanti. Dalla definizione che alcuni teologi moderni fanno dell’economia (p. es. Kotsonis) potrebbe sembrare difficile – malgrado ribadiscano insistentemente la specificità ortodossa dell’istituto – individuare ancora differenze sostanziali con quegli istituti del diritto canonico latino (come la dispensa, l’epicheia, l’aequitas, il privilegio, ecc…), con i quali la più raffinata tecnica giuridica occidentale ha saputo assortire e distinguere, dall’alto medio evo in poi, i diversi elementi giuridici con i quali è possibile tradurre istituzionalmente l’idea dell’economia (Congar). È innegabile che dalle definizioni classiche più correnti date dalla dottrina ortodossa all’istituto dell’economia nel corso dei secoli emerga una profonda disarmonia nel modo di concepire il fenomeno giuridico, rispetto all’occidente. A partire dalla tesi sostenuta con molta categoricità, secondo cui fuori dall’unica chiesa (ortodossa) non esistono sacramenti validi (Dumont), la prassi dell’ortodossia nel riconoscere o negare la validità del battesimo e dell’ordine celebrati nelle chiese eterodosse fu molto incerta e spesso contraddittoria.
Questo fenomeno, oltre che in eventuali motivazioni contingenti di natura politica, ha senza dubbio la sua radice nel fatto che la teologia orientale, contrariamente a quella latina, non è mai riuscita a distinguere con precisione tra ordine e giurisdizione, anche a causa del perdurare del sistema dell’ordinazione relativa. La stessa incertezza sull’invalidità dei sacramenti fu vissuta infatti anche in occidente fino alla seconda metà del XII sec. (Stickler), cioè fino a quando la teologia non è riuscita a distinguere terminologicamente e formalmente nell’unica sacra potestas l’esistenza di due funzioni: quella di ordine, che essendo conferita con il sacramento non può mai andare persa e può quindi essere sempre esercitata validamente, e quella di giurisdizione, che essendo conferita con lamissio canonica – nel sistema dell’ordinazione assoluta – può essere persa.
Del resto nelle dottrine più estreme e contraddittorie sull’economia affiora con sufficiente chiarezza la preoccupazione di spiegare come la chiesa ortodossa abbia potuto accettare o rifiutare la validità dei sacramenti celebrati extra muros in epoche diverse, oppure celebrati nello stesso momento storico in diverse chiese eterodosse.
Secondo Thomson i teologi greci antichi e moderni ritengono possibile che l’economia non solo: 1. può rendere invalido ciò che è valido, ma non può rendere valido ciò che è invalido; oppure, 2. non può né rendere invalido ciò che è valido, né rendere valido ciò che è invalido: ma può addirittura: 3. rendere valido ciò che è invalido, ma non invalido ciò che è valido; oppure: 4. rendere invalido ciò che è valido e valido ciò che è invalido. Evidentemente non è possibile dare un giudizio su queste soluzioni antinomiche senza tener conto del fatto che la teologia orientale non si è mai preoccupata di distinguere tra negozio o fatto giuridico invalido e illecito con determinazione pari e quella latina. La chiesa ortodossa poi pur distinguendosi per “l’acribia” con cui difende la lettera del dogma e per la fedeltà intransigente con cui difende la tradizione, si è sempre distinta per la tolleranza e la libertà lasciata alle opinioni teologiche e per l’elasticità nell’applicazione dell’economia e livello morale e disciplinare-canonico.
4. Dogma e diritto
Questo fenomeno di equilibrio dei contrari sembra essere radicato in una disarticolazione ecclesiologica più profonda. La chiesa ortodossa si impone una grande discrezione quando si tratta di tradurre la verità del dogma in termini concettuali; essa preferisce inabissarsi di fronte al mistero nel silenzio della “apophania” (Evdokimov) considerando il sacramento e la grazia, e per riflesso anche la disciplina canonica, come realtà più immanenti alla chiesa della stessa verità rivelata. I teologi orientali infatti sono unanimi nel riconoscere che la chiesa può esercitare una signoria e un potere di disposizione sui sacramenti e sulla grazia molto più esteso di quanto non lo faccia la teologia latina, la quale riconosce alla chiesa una funzione solo ministeriale (Alivisatos, Congar). Questo presupposto è senza dubbio uno degli elementi che danno una spiegazione della concezione tendenzialmente positivista che l’ortodossia ha del diritto canonico così come è presentata dall’Evdokimov e confermata dall’Heiler. È sintomatico che il discorso dei teologi orientali sul diritto canonico non abbia come termine di riferimento il sistema giuridico in quanto tale, ma i canoni, cioè le singole norme positive, trascurando di distinguere lo “ius” dalla “lex”. Questo empirismo facilita senza dubbio l’affermazione fondamentale – ambigua nella sua perentorietà – secondo la quale i canoni non hanno carattere dogmatico né possono essere eretti a dogma: esiste infatti un’alterità di piani ed una diversità costitutiva tra dogma e diritto che non possono essere confuse (Martini-Ippoliti).
La ragione di questa diversità sta nel fatto che tra dogma e diritto esiste solo un rapporto di “reciprocità funzionale” (Evdokimov). I canoni sarebbero l’espressione esterna e visibile dei dogmi, quasi che la dimensione giuridica esista solo come dimensione esterna della chiesa e non appartenga, al pari del dogma, all’essenza metafisica della ìstoria della salvezza. Conseguentemente quest’ordine esterno è concepito “in funzione dell’insegnamento dogmatico” con il compito di organizzare l’elemento carismatico e “preservarlo da ogni deviazione che possa toccare l’essere immutabile della chiesa”. Si tratta di una reciprocità funzionale che arrischia evidentemente di svuotare l’elemento istituzionale della chiesa dal suo valore soteriologico intrinseco e diretto, degradandolo a elemento puramente formale al servizio di un’altra realtà, quella carismatica, come se questa fosse l’unico elemento sostanziale della costituzione della chiesa.
Queste deduzioni non sono coscientemente enucleate dall’Evdokimov. L’esplicitarle tuttavia chiarisce la mentalità con cui la teologia orientale tende a risolvere il problema del diritto canonico; esso è considerato elemento consecutivo o additivo che non ha nessuna consistenza soteriologica propria perché esiste solo in funzione di un’altra realtà che è l’unica a contare da un punto di vista sostanziale. Il diritto canonico è concepito perciò ultimamente solo come sovrastruttura socio-ecclesiale cioè realtà la cui verità risiede altrove: nel dogma. Una simile concezione può forse essere avallata per il diritto statuale moderno, dove il valore dell’etica, intesa come giustizia superiore, è contrapposto al diritto positivo, considerato come manifestazione meno perfetta della vera giustizia. Nel diritto canonico una simile concezione non è possibile poiché né il dogma né la morale, in quanto capaci di cogliere la verità teologica, sono necessariamente superiori al diritto canonico quasi fossero la sua unica ragione o fonte di esistenza. Il diritto canonico come realtà in cui si istituzionalizza l’esperienza e la tradizione della chiesa – assolutamente irriducibile ad un’esperienza dottrinale – porta in se stesso almeno una parte della verità rivelata, cogliendone il senso con autonomia di mezzi e logica proprie. Non è una sovrastruttura sociologica rispetto alla realtà ecclesiale, perché è un elemento essenziale attraverso il quale si manifesta la chiesa nella forza vincolante della sua realtà totale.
Come è stato giustamente osservato, l’alterità tra i due piani, quello dogmatico e quello giuridico, è stabilita da Evdokimov secondo un modello platonico (Martini-Ippoliti). I dogmi “rappresentano l’immutabile della rivelazione, i canoni ciò che è mobile nelle forme storiche” Proprio perché la teologia orientale è cosciente, come quella cattolica e protestante della storicità delle formulazioni dogmatiche (Clément), l’uso del modello platonico mette a nudo il positivismo tendenzialmente dualista con il quale l’oriente affronta l’esperienza giuridica e di cui l’istituto dell’economia ecclesiastica è la manifestazione più caratteristica (Dumont). Se si prescinde dai tentativi più recenti, in cui l’economia è ormai descritta – probabilmente con la preoccupazione di stabilire delle convergenze – secondo un modello simile a quello della dispensa latina, appare evidente che in essa emerge in modo analogo il distacco o la noncuranza per le realtà ecclesiali, con i quali la chiesa ortodossa guarda alle realtà terrene mondane. Il suo “sì” al cosmo è infatti solo relativo, perché lo considera paolinamente effimero e teatro di un’esistenza solo provvisoria (Louvaris). Non è necessario condividere le gravi accuse di quietismo fatte alla chiesa ortodossa, specialmente a cavallo di questo secolo, sia da parte protestante che cattolica, per poter legittimamente costatare che nella sua tendenza e nella sua intenzione più profonda l’ortodossia non si orienta certo verso l’impegno socio-politico della chiesa nel mondo (ìPolitica), anche se afferma che il mondo deve essere eticamente assunto in modo serio in quanto strumento creato da Dio per la realizzazione del suo regno (Louvaris). Anche la generosità di una proposta politica come quella di Feodero, enucleatasi nello slogan “il dogma della trinità è il nostro programma politico”, non riesce a nascondere una certa ingenuità platonica. La tentazione più autenticamente ortodossa, emersa in modo clamoroso nel monachesimo, è senza dubbio quella di abbandonare il mondo alla logica della sua storia (Heiler). Questa tendenza è senza dubbio stata una delle cause che hanno permesso la lunga convivenza della chiesa ortodossa con l’impero e poi con lo stato (Seeberg).
La chiesa ortodossa è protesa essenzialmente nella contemplazione del dogma, riflesso nello splendore simbolico dell’icona e letto attraverso un’ontologia “allegorizzata” (Daniélou) poiché la trascendenza è l’unica vera realtà (Louvaris). Nella concezione ortodossa più genuina la chiesa, in quanto realtà mistica posta totalmente nell’al di là (Seeberg), trascende la sua stessa realtà istituzionale, così che vista dall’esterno può “sorprendere per un certo rilassamento delle forme e può dare l’idea di una certa negligenza del terrestre” (Evdokimov). Non per nulla alla legge dell’ordine è assegnata un’autorità solo condizionata (Zankow). La regola canonica più che strumento attraverso cui si cerca di raggiungere una corrispondenza tra dogma e prassi è considerata solo come modello o “ordinanza terapeutica” (concilio costantinopolitano III) da adattare al destino personale, dunque unico, in un’economia di misericordia (Clément). La pretesa della chiesa latina di voler stabilire con assoluta precisione una corrispondenza estremamente articolata tra la propria coscienza dogmatica e l’ordinamento giuridico deriva dal suo modo diverso di capire il dogma stesso. Il dogma non è tanto un modello da contemplare per raggiungere la trascendenza del Dio trinitario, le cui “energie” possono investire l’uomo direttamente fino a divinizzarlo nella theosis, senza passare attraverso la grazia creata. Esso è piuttosto una realtà categoriale che ha in se stessa una forza vincolante formale che, secondo la dinamica propria dell’incarnazione ilemorfistica, si declina necessariamente nel fatto giuridico. Secondo la concezione della teologia latina il valore giuridico formale della legge canonica non si esaurisce nella giuridicità tipica del diritto statuale che comunque non potrebbe avere la pretesa di essere monisticamente l’unico modello della realtà giuridica. La giuridicità del diritto canonico è della stessa natura di quella della locutio Dei attestans, la quale si manifesta attraverso le modalità particolari del sacramento e della parola, cioè del diritto divino positivo di cui il diritto canonico è, senza soluzione di continuità metafisica, la declinazione storica (ìOrtodossia).
Un esempio paradigmatico della diversità con la quale la tradizione orientale e quella latina valutano il rapporto tra il dogma e il diritto è quello dell’indissolubilità del ìmatrimonio. Mentre la chiesa latina ha dato per scontato l’indissolubilità anche a livello giuridico – ritenendo la forza vincolante del valore teologico-morale inscindibile da quello giuridico istituzionale -, la chiesa ortodossa, pur proclamando con assoluta persuasione dogmatica la struttura indissolubile del matrimonio, non ha mai considerato necessario tradurla con la stessa consequenzialità sul piano giuridico. L’ortodossia applica il principio dell’economia, che dal profilo formale è retta dal criterio dell’equilibrio. Questo tende a garantire la proporzione tra l’elemento celeste e terrestre, tra la trascendenza e l’immanenza (Louvaris), fino a cauzionare la sacramentalità del matrimonio successivo al divorzio (Meilia). Lo stesso dualismo, implicito nella liberalità con la quale la chiesa ortodossa malgrado l’“acribia” dogmatica accetta il pluralismo quasi ad oltranza delle opinioni teologiche, emerge perciò anche nella pratica dell’economia a livello etico e disciplinare giuridico. Se da una parte è vero che il secondo matrimonio è concesso per economia non in forza di un atto amministrativo – come nella dispensa latina – ma a partire da una legge generale sul matrimonio (Lhuillet), così da poter sfuggire al pericolo dell’empiria dall’altra è evidente che la legge sul divorzio rivela in se stessa la dinamica propria all’economia. Questa procedura che passa attraverso la mediazione legislativa rende tanto più evidente l’estrinsecismo e perciò ultimamente il positivismo con il quale l’ortodossia si pone di fronte al fenomeno giuridico. Poiché l’equilibrio tra l’elemento celeste e quello terrestre tende a prescindere da un’incarnazione conseguente del primo nel secondo, esso lascia a quest’ultimo un’autonomia propria. Questo fenomeno, quando non è il frutto di un sotterraneo pessimismo rispetto al valore etico delle realtà ecclesiali terrestri, è il risultato di un malcelato razionalismo che, concedendo a queste ultime una valenza umana autonoma, sfocia in una dinamica dualistica. Secondo la teologia ortodossa per salvare l’”acribia” è sufficiente che nell’uso dell’economia il valore assoluto del dogma non venga messo in discussione: esso deve rimanere l’archetipo verso il quale tutti possano orientarsi. Ciò tuttavia non è ultimamente possibile se non in forza di una astrazione di reminiscenza platonica, la stessa che nella chiesa latina, a partire dalla riforma protestante fino ad oggi, ha fatto riemergere la tesi (implicita a tutti i movimenti spiritualistici dell’antichità e del medio evo), della superiorità dell’amore sul diritto e del carisma (ìCarismi) sulla legge. Il genio della chiesa occidentale – più pedagogico e moralizzante che mistico – ha invece sempre cercato di declinare il valore vincolante della verità dogmatica nella concretezza operativa della norma giuridica, incarnando nel suo ordinamento giuridico tutta la potenziale carica morale-operativa della verità teologica.
La concezione mondano-positivista del diritto canonico che il protestantesimo ha conservato fino ad oggi, malgrado gli intensi sforzi teologici compiuti in questi ultimi decenni, si muove, come risultante paradossale dell’escatologismo predestinazionista già presente nel tardo medio evo, nella linea del messianismo giudaico-occidentale. L’incapacità ultima della teologia protestante di riconoscere al diritto canonico – ritenuto comunque prassi umana ineluttabile – qualsiasi valenza salvifica, ha la sua profonda radice nella contrapposizione che Lutero ha stabilito a livello soteriologico tra “legge e vangelo”. Questa contrapposizione si è declinata a livello di storia della salvezza nella visione cosmica dei due regni e, a quello ecclesiologico, nell’insanabile dualismo tra chiesa abscondita e universale o visibile. Se la “iper-escatologia” protestante (Evdokimov), immanente alla distinzione tra “legge e vangelo”, sfocia per la legge dei contrari a livello filosofico-culturale nella legittimazione di una prassi storica priva di dimensione escatologica, essa cade all’interno dell’esperienza ecclesiale nella tentazione difficilmente superabile di una visione di chiesaabscondita così spiritualizzata da trascendere la storia di quella visibile e sociologica, senza la possibilità di stabilire un rapporto intrinseco tra le due realtà. D’altra parte la priorità logica goduta – nell’impianto teologico della riforma – dalla dottrina cosmica dei due regni rispetto a quella delle due chiese, spiega perché il protestantesimo, fino ai tempi più recenti, si sia chinato di preferenza, contrariamente alla tradizione cattolica, sulla teologia del diritto anziché su quella del diritto canonico.
1. “Legge e vangelo”
Lutero ha notoriamente ravvisato nella tematica “legge e vangelo” il punto centrale del mistero della salvezza (Joest). Rielaborando il tema neotestamentario, che nella teologia paolina era emerso nella provocazione dialettica del binomio “legge e Cristo”, la tradizione cattolica aveva dato la preferenza alla formula “legge e grazia”, più connaturale alle inclinazioni profonde della teologia latina. La preoccupazione dominante della teologia agostiniano-tomista è stata soprattutto quella di stabilire sia l’unità tra due elementi che la continuità dei contenuti tra la legge antica e quella nuova. La legge antica non si contrappone a quella nuova poiché i suoi contenuti essenziali rimangono anche sotto il regime della grazia. La legge nuova, per contro, si diversifica da quella antica perché non è più extrinsecus posita, cioè imposta come intimidazione all’uomo peccatore, ma intrinsecus data contemporaneamente alla ìgrazia che infonde la forza per adempierla nella gioia e nella libertà dell’amore. S. Tommaso, tenendo conto dei testi paolini che più tardi saranno lasciati in ombra da Lutero, stabilisce addirittura un’identità tra la legge e il vangelo, usando la formula sintetica della nova lex evangelii: “Lex nova est ipsa gratia (seu ipsa praesentia) Spiritus sancti, quae (qui) datur Christi fidelibus” (S. Th. I-II, q. 106, a. 1). La grazia è comunque legge solo in senso analogico perché l’essenza della nuova legge non sta più formalmente nel carattere legale, ma nel fatto di essere donata come grazia, allo stesso modo della fede e dello Spirito santo. Nel definire Cristo come grazia la teologia cattolica ha inteso sottolineare il fatto che il processo della giustificazione trasforma interiormente l’uomo. La grazia è concepita come realtà ontologica comunicata all’uomo per donargli la forza di adempiere la nuova legge, senza abolire quella antica. Essa segna una progressione dall’imperfetto al perfetto, dalla legge naturale a quella soprannaturale.
Nel definire Cristo come vangelo Lutero, che si muove dentro l’orizzonte nominalista e volontarista del tardo medio evo, ha voluto invece sottolineare con forza la non imputatio del peccato. La grazia è solo una presenza estrinseca, anche se salvifica, di Cristo nell’uomo. Sostituendo il binomio “legge e grazia” con “legge e vangelo” Lutero, per il quale la “suprema arte della cristianità” consisteva nel saper distinguere tra i due elementi, ha voluto dar corpo a una duplice protesta: quella contro la chiesa di Roma, per aver questa sepolto la parola e la legge di Dio sotto la parola e il diritto della chiesa, e quella contro la teologia scolastica, per aver questa sostituito l’idea della giustificazione in forza della sola giustizia di Dio con una giustificazione in virtù anche delle opere meritorie compiute sotto la legge con l’aiuto della grazia creata santificante. Lutero non ammette che l’economia della sola gratia possa essere snaturata a sistema religioso fondato ancora sulla legge, dove le opere della legge naturale, anche se compiute con l’aiuto della grazia, sono richieste per la giustificazione. Le opere della legge naturale non sono buone in se stesse: esse sono buone solo in quanto compiute in obbedienze a Dio che ci ha salvati; quindi non trasformano interiormente l’uomo, ma servono solo a rendere palese agli altri il miracolo della remissione dei peccati da parte di Dio.
Nel solco di Lutero la teologia protestante ha distinto tre usi della legge: l’usus politicus, in cui per volere di Dio la legge è imposta dal principe per impedire che l’umanità si corrompa ulteriormente, degenerando nel caos; l’usus theologicus, seu spiritualis (o elenchthicus), in cui la legge tocca interiormente l’uomo più profondamente che nell’usus politicus e lo convince del proprio peccato. Per Lutero questo è l’usus praecipuus legis perché, in considerazione del fatto che l’uomo rimane sempre peccatore, la legge è essenzialmenteaccusans (Ernst Wolf). Il tertius usus, seu in renatis (o paraeneticus), ritenuto da Calvino usus praecipuus, è quello in cui la legge, grazie alla presenza e all’aiuto di Cristo, provoca il credente a una vita nuova dandogli indicazioni per la salvezza. Lutero ha evitato di parlare di questo tertius ususpoiché riteneva che la giustificazione in forza del vangelo è già per se stessa radice di vita nuova; dove Cristo è presente nasce sempre una novità di vita.
La disputa sorta nella metà del XVI sec. attorno altertius usus – che implica una concezione molto vicina a quella cattolica della gratia elevans – ha spinto gli epigoni di Lutero a radicalizzare le posizioni, separando il processo della giustificazione da quello della santificazione. Mentre Melantone tendeva a ridurre la giustificazione ad una semplice amnistia con cui Dio considera il peccatore come se fosse giusto, Amsdorff sosteneva che per la santificazione del credente le buone opere sono nocive; Major per contro le affermava come necessarie. Di fronte a queste contraddizioni alcuni autori (Poach e Otho) sostennero che, dal momento che le buone opere nascono spontaneamente dalla fede, la legge – perciò il diritto – è addirittura superflua (antinomismo). La formulaconcordiae (1580) che ha posto fine alla controversia, gettando le basi dottrinali dell’ortodossia protestante (Lau), si è riavvicinata alle posizioni iniziali di Lutero. Questi, affermando che le buone opere compiute sotto la legge sono solo il frutto dell’accettazione del vangelo nella fede, ha dato però esca alla dottrina secondo cui le opere della legge non sono necessarie per la salvezza, neppure come conditio a posteriori.
A partire da questo momento il tema della legge scivola progressivamente verso la teologia morale e l’etica naturale. Già Melantone aveva riscoperto il valore della legge naturale, ricuperando in parte la tradizione aristotelica. Il fatto che tutti i popoli in tutti i tempi avessero conosciuto la legge naturale è per lui la prova che la ragione umana, benché offuscata dopo la colpa originale, non si è totalmente corrotta. Di conseguenza esiste tra i due regni un rapporto positivo intrinseco – non solo estrinseco, come aveva creduto Lutero – che permette di stabilire un ponte tra la legge di Dio e quella naturale.
La scuola razionalista del diritto naturale moderno, impostasi nel corso del XVII sec. con Grotius e Pufendorf, ha ripreso questo filone dottrinale. Esso, pur veicolando molti contenuti sostanziali della teologia scolastica, ha avuto come esito, con Christian Thomasius († 1728), oltre che di isolare culturalmente l’ortodossia luterana e calvinista, di riconoscere la ragione come unica fonte del diritto naturale e di negare l’esistenza di ogni forma di diritto divino. Era inevitabile perciò che il problema del valore della legge venisse eliminato dal contesto soteriologico della giustificazione e della cristologia per cadere nelle mani della filosofia e del diritto (Iwand). Non meraviglia perciò il fatto che la tematica teologica “legge e vangelo” – venuta alla ribalta così clamorosamente con la riforma – non abbia più trovato udienza nelle grandi opere teologiche del XIX sec., come quelle dello Schleiermacher, del Ritschl e dell’Harnack.
Ciò non è avvenuto evidentemente senza un preciso nesso con la radicale svolta subita nello stesso periodo dell’ìescatologia sia nella teologia che nel pensiero filosofico-sociale di estrazione protestante.
L’escatologia di Lutero, drammaticamente presente nella sua dottrina del simul iustus et peccator(Prenter), era la conseguenza diretta della contrapposizione posta tra “legge e vangelo”. Attraverso la mediazione sia della tesi dell’irreparabile corruzione della natura umana e del regno della mano sinistra e di riflesso del diritto umano o statale, sia di quella della totale alterità della chiesa abscondita rispetto a quella visibile e quindi dell’irrilevanza soteriologica del diritto canonico, Lutero ha avallato una concezione profondamente pessimista non solo del mondo ma anche della chiesa visibile, avendola privata della consistenza intrinseca necessaria per poter essere ancora il luogo della verifica storica della fede. Ciò ha posto le premesse per il progressivo scivolamento del protestantesimo più culturalizzato verso una concezione della storia priva di escatologia.
Infatti l’escatologia rimase appannaggio o dell’ortodossia oppure, soprattutto nelle sue espressioni chilianiste-apocalittiche, del pietismo e dei movimenti ecclesiali di fronda staccatisi dalle chiese nazionali ufficiali e sgretolatisi in tutto il mondo in sètte e chiese libere. La teologia dominante, invece, entrata in contatto con il razionalismo illuminista e liberale, ha spiritualizzato così radicalmente l’escatologia fino a privarla di ogni incidenza non solo culturale, come in larghi strati del pietismo, ma anche teologica. Ciò ha permesso al cosiddetto protestantesimo culturale, incline all’evoluzionismo darwinista e a un socialismo cristiano (Prenter), e rappresentato dai teologi e pensatori più illustri del secolo scorso, come il Weiss, l’Albrecht e il Sohm (oltre quelli citati sopra), di sostituire all’escatologia la storia, identificando il regno di Dio con il progresso religioso -culturale-politico e sociale immanente al destino del mondo (Philipp).
2. La dottrina dei “due regni”
Il medio evo, in continuità con la dottrina gelasiana dei“due poteri” (ìAutorità e potere, ìPapa), aveva elaborato un sistema unitario con il quale spiegare l’ordine del mondo. Per la comunità dei cristiani Dio ha istituito un unico regno spirituale-temporale, la “repubblica cristiana”, all’interno del quale esistono due strutture diverse, ma reciprocamente ordinate. La gerarchia ecclesiale, culminante nel romano pontefice – capo supremo della chiesa universale – guida la cristianità nell’ambito spirituale, mentre la gerarchia temporale, rappresentata dall’imperatore del sacrum romanum imperium, la guida nell’ambito secolare. A questo sistema teologico-politico, la cui unitarietà è garantita dalla superiorità almeno spirituale se non necessariamente giurisdizionale (Gregorio VII) dell’altare sul trono, corrisponde una concezione unitaria anche del diritto. Fondamento ultimo di ogni forma di diritto è lo ius divinum. Nell’opzione intellettualista del sistema, domina laratio divina che dà origine alla lex aeterna, dalla quale la ratio humana declina i principi fondamentali del diritto naturale. Nell’opzione volontaristica, che privilegia l’idea biblica dell’immediatezza divina nella produzione del diritto, domina invece la voluntas Dei, fonte immediata del diritto naturale. In tutte e due le opzioni – che hanno trovato il loro equilibrio nel realismo tomista – la dipendenza della lex humana da quella naturale e di quest’ultima da quella divina permette di ricondurre tutta la giustizia umana una unica fonte, quella del diritto divino. Loius humanum è una derivazione, attraverso la mediazione di quello naturale, dallo ius divinum ed è perciò valido solo se è “consonum primis principiis” (Stiegler).
Al posto di questo ordine Lutero, ispirandosi alla distinzione agostiniana tra la civitas Dei e la civitas terrena e subendo l’influsso del nominalismo volontarista soprattutto di Gabriel Biel, ne ha introdotto un altro, capovolgendo il sistema. L’ordine della salvezza è costituito da due regni: quello spirituale, governato da Dio con la mano destra – nel quale sta il cristiano credente – è fondato sulla fede e guidato dalla carità; quello temporale, governato da Dio con la mano sinistra e nel quale vive il non credente, è retto dalla ragione totaliter deleta e dominato dal potere umano. Tra il regno della mano destra o corpus Christi mysticum e il regno della mano sinistra o corpus babilonicum, creato da Dio nella sua ira misericordiae dopo la caduta originale per impedire all’umanità di degradarsi nel “caos” totale, c’è un abisso insormontabile.
Questo dualismo è superato in extremis nell’unità della volontà di Dio che ha voluto tutti e due i regni così che essi non esistono semplicemente come due realtà eterogenee, anche se il rapporto tra di loro non è più intrinseco ma solo estrinseco (volontarismo). Dio governa il mondo con la parola che però non è più il verbum Dei, ad nos del medio evo, ma un verbum Dei in nobis (soggettivismo). Quella parte dell’umanità che l’ascolta spiritualiterriceve in dono la giustizia di Dio: si tratta degli iniusti iustificati. Gli altri, che l’ascoltano solo carnaliter, si allontanano da Dio cadendo nella perdizione: sono gliiniusti non iustificati.
A questo dualismo corrisponde anche una concezione dualistica del diritto. Nel regno di Dio vige la lex charitatis, seu spiritualis, o lex Christi, ch’è indirizzata all’homo interior ed è percettibile solo con l’intellectus fidei. Questa lex fidei, totalmente spirituale, esige una conversione solo interiore, di cui il comportamento esterno è semplicemente la derivazione spontanea (libertà cristiana). Nel regno degli increduli o regnum diaboli invece la lex Christinon è più capita. Di conseguenza il diritto prodotto dallo stato, non essendo più radicato nell’amore ma fondato sulla legge e sul potere, è rivolto all’homoexterior ed esige solo un comportamento esteriore. Esso in quanto diritto è solo un’umbra ingannevole di quello divino; è quindi irrimediabilmente incapace di vincere l’egoismo umano perché invece di donare il perdono minaccia la vendetta e commina la pena fino alla pena di morte.
Contrariamente al medio evo, Lutero parla perciò di due diritti naturali, quello spirituale e quello secolare. Mentre per s. Tommaso la legge naturale risulta dai principi che la ragione umana riesce a leggere nellalex divina – piano eterno preesistente nella ratio Dei– per Lutero non esiste più una participatio legisaeternae nella ragione umana. La legge naturale divina è solo una volontà giuridica di Dio che comanda e giudica alla fine del mondo. Il volontarismo del tardo medio evo si unisce in Lutero con l’escatologismo di tutti i movimenti spiritualisti. Se l’uomo non può più raggiungere Dio con la ragione ma solo nella fede, Dio può invece raggiungere l’uomo con la sua volontà e la sua legge; essa però diventa vincolante solo con l’adesione interiore dell’uomo. Il diritto naturale secolare prodotto dalla ragione è segnato totalmente, anche se voluto da Dio, dalla logica umana e dalla giustizia dell’uomo; la giustizia del decalogo, della lex Moysis non appartiene più per Lutero al diritto divino naturale, essendo solo un’immagine antropomorfica e torbida della giustizia di Dio.
Le moderne interpretazioni di Lutero vanno in due direzioni opposte. Alcuni credono di poter affermare che anche per il riformatore di Wittenberg il diritto naturale secolare e lo stato sono ultimamente sottomessi alla signoria del Cristo (Heckel), altri invece trovano che il suo dualismo tra il regno della mano destra e quello della mano sinistra sia così radicale da escludere che il vangelo possa ancora dare concrete indicazioni per l’ordine giuridico dello stato e della società (Althaus). Qualunque sia la soluzione esatta rimane il fatto che fino nei tempi più recenti la tendenza del luteranesimo fu quella di separare rigorosamente vangelo e diritto, chiesa e stato, così da lasciare allo stato e al diritto secolare un’autonomia illimitata nei confronti del vangelo. Questa profonda “disarmonia” della dottrina di Lutero (Erik Wolf) sarebbe stata all’origine della profonda “demonizzazione” della politica tedesca dal XIX sec. in poi (de Quervain).
L’esito religioso-culturale dei secoli posteriori alla riforma fu comunque caratterizzato da tendenze contrastanti a livello teorico ma, per molti aspetti, paradossalmente convergenti nella prassi di abbandono progressivo del mondo alla logica della propria dinamica di secolarizzazione. Da una parte non sono mancate correnti che all’interno del movimento pietista hanno teorizzato la necessità di ritirarsi dall’impegno politico-mondano per coltivare un’interiorità soggettiva in un’attesa escatologica di natura messianico-chilianista; dall’altra si sono imposti i progetti politici nati dall’incontro del protestantesimo con il razionalismo e l’illuminismo e realizzati dallo stato moderno territoriale e assolutista, dove stato e diritto furono considerati ambiti esclusivi della ragione umana sovrana e immanente. Questi tentativi trovarono un avallo teologico fino alla fine del secolo scorso grazie alla penna di teologi della statura di un Troeltsch e di un Naumann. Essi infatti hanno continuato ad interpretare la dottrina dei due regni nel senso di una totale separazione tra cristianesimo e politica, fino ad affermare che se nel primo vale il discorso della montagna, nel secondo deve dominare il potere del diritto (Schüller).
3. Chiesa invisibile e chiesa visibile
Parallelamente alla dottrina dei due regni Lutero ha creato anche quella delle due chiese, stabilendo una profonda separazione tra la chiesaabscondita o spiritualis e quella universale che solo la dottrina posteriore ha contrapposto nel binomio chiesa invisibile e chiesa visibile. Prendendo le mosse dalla dottrina della totale corruzione della natura umana e snaturando il concetto di communio spiritualis propria della teologia penitenziale del tardo medio evo, Lutero è arrivato al concetto di ecclesia abscondita, seu spiritualis. Essa è la comunità cui appartengono i giusti, conosciuti solo da Dio, e si distingue nettamente dall’organizzazione esterna e sociologica della cristianità che è la chiese universale o visibile alla quale appartengono tutti i battezzati anche peccatori. La prima è il principio vitale, la seconda il campo d’azione della chiesaspiritualis. Nella prima vige sotto il diritto divino (Ecclesia vivit iure divino). che è un diritto spirituale in rapporto solo con la sfera interiore dell’uomo. La chiesa invisibile non può porre atti giuridici perché non ha un potere proprio e si limita nella penitenza e nella scomunica a promulgare il giudizio di Cristo. È un diritto destinato solo alla chiesa invisibile e sarebbe errato derivarne dei compiti anche per l’organizzazione esterna e giuridica della chiesa universale dove vige solo il diritto umano o canonico, con riferimento esclusivo solo all’uomo esteriore. Poiché il diritto della chiesa visibile regola solo i rapporti tra chiesa e individui e degli individui tra di loro, esso si situa sullo stesso piano del diritto statale.
In linea di massima solo i giusti sono chiamati a creare il diritto canonico che ha carattere giuridico anche se, a differenza di quello statale, non può assumere la normatività propria della legge. Se nella chiesa universale ci fossero solo dei santi, il diritto canonico sarebbe superfluo, non essendo intrinsecamente necessario alla salvezza. La sua giustificazione è solo morale: quella di aiutare i deboli in nome della carità cristiana. La forza vincolante dei precetti della chiesa non proviene dal carattere formale né della legge né dell’autorità in quanto tali ma solo dalla carità. Mentre Hobbes ha potuto dire del diritto statale: “Auctoritas, non veritas facit ius”, per Lutero bisognerebbe dire “Caritas, non auctoritas facit ius” (Heckel). Il fatto che il diritto canonico e sanzionato e controllato dai fedeli credenti che stanno con un piede anche nella chiesa abscondita, salva il principio della libertà evangelica e getta un ponte esterno con il diritto divino che comunque non garantisce più l’unità intrinseca tra le due chiese. Il diritto canonico è perciò sui generis; ha in comune con quello divino della chiesa invisibile il fatto di essere un ordine dell’amore, simile a quello statale perché si riferisce solo all’homo exterior, si distingue infine da tutti e due perché, in quanto legge solo umana, non vincola i credenti in coscienza. Pur riconoscendo la necessità concreta di un diritto canonico, Lutero lo ha separato irreparabilmente da quello divino sottraendolo al contenuto della fede. Il credoecclesiam catholicam vale solo per la ecclesia abscondita.
Se l’iniziativa dell’organizzazione giuridica della chiesa universale spetta agli organi ecclesiastici costituiti, in caso di disordine, ma solo allora, il principe, in quanto membrum praecipuum ecclesiae(Melantone), può intervenire. In realtà già nel 1525 Lutero chiese ai principi di prendere l’organizzazione giuridica della chiesa sotto la loro protezione. Da allora fino alla fine della prima guerra mondiale questa competenza è rimasta in Germania nelle mani dello stato, cosicché il diritto canonico fu sostituito con quello ecclesiastico (Staatskirchenrecht).
Nella dottrina di Lutero la chiesa visibile non si identifica con il regno del mondo o della mano sinistra, perché in essa vivono non solo i credenti, ma anche i cristiani che hanno perso la fede. La chiesa visibile o universale è perciò una realtà che sta tra il regno della mano destra, identico alla chiesa invisibile, e quello della mano sinistra; è uncorpus permixtum. Contrariamente alla chiesa invisibile, che non ha bisogno di nessun diritto umano, quella visibile postula per ragioni empiriche e sociologiche un diritto canonico, il quale, pur conservando in Lutero ma soprattutto in Calvino uno spessore ecclesiale proprio diverso da quello statuale, non ha tuttavia, come del resto la chiesa universale stessa, nessun valore in ordine alla salvezza. Conseguentemente lo stato in quanto tale, in forza della propria autorità, non gode di nessun potere sui credenti se non per il fatto che questi, in nome della carità cristiana, sono tenuti a sottomettersi liberamente al potere del principe e ad assumere uffici secolari anche a costo di dover affrontare i rischi del regnum diaboli. Ne risulta che secondo la dottrina dei due regni l’impegno politico del cristiano non è più un’implicazione strutturale della fede ma solo della carità (Heckel). Ciò spiega come il protestantesimo, in nome di un’escatologia che salva alla fine dei tempi, possa essere caduto facilmente nella tentazione di affrontare il mondo, con un moralismo che ha valorizzato l’etica professionale, ma che spesso ha perso la pretesa di trasformare a partire dalla fede le strutture politiche ed economiche (Weber).
Nel corso dei quattro secoli seguenti la dottrina dei riformatori sul diritto canonico ha subito una profonda trasformazione. Sotto l’influenza della concezione pietistica di Thomasius, che aveva negato l’esistenza di ogni diritto divino, si è arrivati alla seguente formulazione: la chiesa invisibile è priva di ogni diritto divino e umano; quella visibile per contro deve accettare, per necessità di ordine empirico, un diritto umano di estrazione sempre più statuale, dato che lo stato era ormai considerato l’unica fonte del diritto (Ernst Wolf). Sradicato dalius divinum, il diritto umano non può vincolare il cristiano in quanto tale. Nasce perciò l’inevitabile antinomia tra diritto e carità, tra chiesa del diritto e chiesa dell’amore, tra legge e vangelo.
La lontana reminiscenza platonica di questa antinomia non può essere ignorata. A differenze di Aristotele, per il quale l’epicheia – istituto chiave per la comprensione di ogni posizione dottrinale sul diritto (Häring) – rappresenta una correzione positiva del diritto umano, Platone l’ha considerata come una corruzione rispetto all’archetipo della giustizia (Hamel). Passando dal piano metafisico a quello più propriamente teologico, Lutero ha a sua volta considerato ogni forma di diritto umano, canonico e secolare, come un’umbra ingannevole del diritto divino che lo trascende senza possibilità di esercitare un influsso intrinseco sullo stesso, allo stesso modo come la vera chiesa, quella abscondita, trascende la chiesa visibile senza, incarnarsi in essa. La mediazione culturale nominalistica e volontaristica del tardo medio evo (Duns Scotus, Ockham, Biel) ha spinto il protestantesimo ad abbandonare il diritto canonico e quello secolare ad un profondo processo di penetrazione scientifica ma anche di positivizzazione puramente razionale e mondana. Passato nelle mani del potere secolare, il diritto canonico diventa diritto ecclesiastico subendo una profonda metamorfosi interna in seguito all’applicazione rigorosa, soprattutto nel XIX sec., prima del metodo giuridico-pandettistico e poi di quello storico, propri alla scienza giuridica secolare. L’inevitabile ipertrofia subita dal diritto ecclesiastico – proporzionalmente inversa alla sua valenze intrinseca ecclesiale – ha provocato, a livello istituzionale, un progressivo assorbimento giuridico della chiesa nelle strutture statuali fino a trasformarsi in “chiesa di stato” (Staatskirche); a livello scientifico, invece ha avuto come esito quello di eliminare ogni differenza formale tra diritto canonico e statuale.
Contro questa situazione si è elevata la violenta protesta di Rudolph Sohm alla fine del secolo scorso (Rouco Varela). Prendendo lo spunto da due presupposti ideologici diversi ma profondamente radicati nell’animo religioso e volontarista del protestantesimo, cioè quello spiritualista, secondo il quale la chiesa è una realtà puramente carismatica, e quello positivista, secondo cui il diritto è una realtà monistica non esistendo diversità di natura tra il diritto canonico e quello secolare – poiché lo stato è l’unica fonte della norma giuridica (Hegel) -, Sohm ha esplicitato rigorosamente le implicazioni dottrinali contenute nel sistema disarmonico dei due regni, traendone tutte le inesorabili conseguenze. Da una parte ha sostenuto contro Lutero che non esiste diversità tra la chiesa visibile o universale e il regno della mano sinistra, identificando la chiesa sociologica con il mondo; dall’altra ha coerentemente negato che la chiesa potesse accettare non solo un diritto divino, che ormai era già stato eliminato dalla scienza giuridica, ma anche un diritto umano, potendo essere quest’ultimo solo statuale. Con la tesi centrale del suo Kirchenrecht I(1892), secondo cui “la natura del diritto canonico è contraddittoria alla natura della chiesa”, Sohm ha posto per la prima volta nella storia della teologia il problema teologico del diritto canonico in termini così radicali ed espliciti da non più lasciare requie né alla canonistica protestante né a quella cattolica fino ad oggi (Mörsdorf).
4. “Vangelo e legge”
Il rivolgimento definitivo dell’ordine medioevale in Europa, provocato dalla rivoluzione francese con l’eliminazione delle strutture socio-politiche dell’“ancien régime”, ha fatto crollare strutture ritenute vitali non solo nella chiesa cattolica ma anche in quelle protestanti, mettendole nella necessità di trovare un nuovo punto di partenza storico. Il romanticismo poi ha fatto riscoprire al protestantesimo tedesco, assieme alle proprie origini, anche una propria coscienza ecclesiale. Ciò ha messo a nudo lo scarto creatosi tra le strutture costituzionali e giuridiche imposte dallo stato illuminista e la sostanza teologica della chiesa. I tentativi di restaurazione episcopaliana e sinodale-presbiterale del secolo scorso furono sostenuti da molti giuristi, come lo Stahl e il Puchta e più tardi anche dai maggiori esponenti della scuola storica di Berlino, come il Richter, il Friedberg, l’Hinschius e il Kahl. Essendo rimasti prigionieri a livello scientifico di una concezione monistica del diritto, questi giuristi si limitarono a rivendicare in astratto l’autonomia della chiesa nei confronti dello stato senza pensare di concretizzarla in un’autonomia del diritto canonico rispetto a quello statuale (Rouco Varela).
La radicale rivolta di Sohm a questa situazione ha posto i termini teologici e giuridici ultimi del problema: quello della giustificazione sia teologica che metodologica del diritto canonico. Forse più che da questa provocazione scientifica la necessità di una chiarificazione del problema fu imposta però dallo sviluppo politico avvenuto nel corso dei decenni seguenti nei rapporti tra chiesa e stato. Il principio della separazione tra chiesa e stato, affermato nel segno della rivoluzione liberale dalla Costituzione programmatica di Francoforte (1848) – rapidamente archiviata con il sopravvento della reazione radicale e del Kulturkampf – fu realizzato istituzionalmente solo con la Costituzione di Weimar (1918) e poi da quella di Bonn (1949), il cui articolo 140 ha ribadito sia l’abolizione del sistema della chiesa di stato, sia il diritto delle “società religiose” di ordinarsi e amministrarsi liberamente. Questi principi hanno posto le chiese protestanti nella necessità di promulgare costituzioni proprie, non più fondate sul diritto statuale, ma su quello canonico. Il compito di organizzare giuridicamente la chiesa, passato allo stato con la riforma, è così rientrato dopo quattro secoli nelle competenze della chiesa.
I primi tentativi teorici di ridare una legittimazione teologica al diritto canonico rimasero nel solco della dottrina dei due regni e delle due chiese di Lutero.
Subendo l’influsso culturale e terminologico di Schleiermacher, Günther Holstein ha distinto tra la chiesa dello spirito, corpo di Cristo, e la chiesa del diritto, manifestazione storico-sociale e luogo dell’organizzazione giuridica dei membri della chiesa (Reingrabner). Pur non essendo contraddittorie le due chiese non si identificano, poiché il potere legislativo non appartiene alla chiesa sociologica, come in una democrazia, ma alla chiesa dello spirito. Il diritto canonico è perciò un diritto confessionale e confessante (bekenendes Kirchenrechts), che non può usare gli istituti propri del diritto statuale, comunale o parlamentare, anche se, come ogni altra forma di diritto, esso ha carattere solo umano.
Anche Hans Liermann non è riuscito a superare questa soluzione “additiva” (Dombois), malgrado abbia cercato di disimpegnarsi dal dualismo ecclesiologico di Lutero. Tuttavia, pur avendo abbandonato terminologicamente il binomio chiesa dello spirito e del diritto, affermando che tutta la chiesa appartiene al contenuto della fede, l’ha sostituito distinguendo tra la chiesa come comunità e chiesa come società. Dal profilo formale il diritto canonico non vale per il fatto di essere “legge” ma solo in quanto non è contraddittorio con la natura della chiesa. Se si appoggiasse al diritto statuale non potrebbe garantire né la fedeltà della chiesa al vangelo né la sua indipendenza nei confronti dello stato. Rimane comunque diritto solo umano e sociologico avente come funzione quella di essere al servizio della disciplina esterna della chiesa (Wehrhan).
La disarmonia della dottrina di Lutero secondo cui la chiesa visibile è un corpus permixtum non adeguatamente distinto dal regno della mano sinistra ha impedito a questi autori – a differenza di Sohm che è stato più netto nell’identificare la chiesa visibile con il mondo – di evitare ogni compromesso con il diritto secolare, proprio perché anche quest’ultimo, in quanto diritto del regno della mano sinistra, è voluto da Dio.
Sia l’incoerenza inerente al dualismo di Lutero che l’esperienza nazista che smascherò tutti i pericoli inerenti alle tradizionale unione istituzionale tra chiesa e stato del protestantesimo, hanno indotto Karl Barth ad accantonare questi primi tentativi, del resto falliti, di giustificare teologicamente il diritto canonico, per riproporre ancora una volta come problema centrale non quello della teologia del diritto canonico ma quella del diritto secolare. Nella celebre conferenza tenuta nel 1936 ad Utrecht, Barth cercò di trovare una via d’uscita dal vicolo cieco in cui era approdata la teologia luterana con la tematica “legge e vangelo” invertendo nel binomio “vangelo e legge” i termini della questione. Due anni più tardi egli riprese il tema nel programma “giustificazione e legge”, proponendo una visione non più dualistica ma unitaria del mondo in cui la chiesa e lo stato, con i rispettivi ordinamenti giuridici, venivano collocati all’interno dell’unica realtà esistente, quella salvifica della giustificazione nel Cristo (Schüller).
Barth, che si pone in diretta polemica con lo storicismo e il positivismo giuridico, al cui prestigio il nazismo aveva inferto un durissimo colpo, ha come orizzonte quello della teologia dialettica, dove il problema centrale è quello di stabilire la natura del rapporto Dio-uomo a partire non dalla theologia naturalis, ma dalla costatazione che Dio è Dio in quanto pone l’uomo di fronte ai propri limiti. Per cogliere questa alterità di Dio l’ontologia razionale e il diritto naturale non servono: solo la rivelazione può formulare affermazioni vincolanti. Parallelamente ai concetti biblici di creazione, colpa originale e riconciliazione, la categoria “giustificazione” è quella che esprime meglio la natura del rapporto non solo di Dio con il cristiano ma anche di Dio con l’uomo. La giustificazione avviene attraverso Cristo che oltre ad essere il fondamento ontologico è anche il principio gnoseologico di tutta la realtà creata. Nel solco della tradizione più calvinista che luterana Barth abbandona perciò la dottrina dei due regni e delle due chiese per sostituirla con la visione di un solo ed unico regno di Dio al cui centro sta Cristo e attorno al quale è situata in circoli concentrici tutta la realtà; all’interno la chiesa e all’esterno lo stato. Perciò non esiste più differenza assoluta tra chiesa e stato, né il loro rapporto può essere concepito, nel segno della tradizione cattolica, come se la chiesa fosse fondata sul diritto divino e lo stato su quello naturale. All’anologia entis Barth sostituisce di conseguenza l’analogia fidei. Ciò significa che tutta la realtà – non solo la chiesa, ma anche lo stato e il diritto in quanto regolano i rapporti intersoggettivi degli uomini – può essere capita solo all’interno del rapporto di giustificazione stabilito da Dio con l’uomo. Quest’unica realtà può essere conosciuta solo con la fede e non con la filosofia. Nessuna metafisica umana – quella di Platone come quella di Aristotele o di Hegel – è capace di dire cosa sia lo stato (de Quervain).
In questo radicale pessimismo verso il diritto naturale Barth è stato seguito da Ernst Wolf, il quale aggiunge che la teologia dello stato e del diritto non può appoggiarsi neppure sulla metafisica stoicista congenita al calvinismo, poiché la testimonianza della Scrittura non può essere strumentalizzata per confermare i risultati della conoscenza razionale. Anzi la teologia deve essere prima di tutto critica della filosofia (Schüller).
Recuperando anche a questo livello l’ecclesiologia di Calvino, Barth sposta il discorso dalla chiesa universale a quella locale. La comunità dei cristiani (Christengemeinde), essendo piu vicina a Cristo, è in grado di capire meglio il significato e la natura della comunità politica (Bürgergemeinde), cioè dello stato e del suo ordinamento giuridico. Poiché lo stato ha il compito di garantire un ordine giuridico esterno che renda possibile la predicazione del vangelo, le chiesa non può restare neutrale nei suoi confronti, ma, in via sussidiaria, è investita di una responsabilità politica, cioè di un politischer Gottesdienst.
Nel segno di tutta la tradizione protestante Barth riafferma con rigore che nella chiesa il soggetto primario operante non è la comunità dei cristiani in quanto tale ma Cristo stesso. La comunità non è perciò legge a se stessa e il diritto canonico deve formarsi nell’obbedienza della comunità cristiana a Cristo. Resta comunque un diritto solo umano, perché l’obbedienza della chiesa, anche nel migliore dei casi, è equivoca, imperfetta e provvisoria. Il suo diritto si distingue da quello statuale perché non ha la forza vincolante formale propria della legge, ma solo quella di un ordinamento (Kirchenordnung)continuamente riformabile (ecclesia semper reformonda). Dato che il diritto statuale nasce in una lontananza piu grande da Cristo, esso è ancor meno consistente e profetico. Il diritto ecclesiastico prodotto dallo stato è quindi radicalmente incapace di dare un’organizzazione giuridica adeguata alla chiesa. Comunque, come ogni forma di diritto, anche quello canonico e irreparabilmente umano poiché vale solo per il tempo che separa la chiesa dall’escatologia. Senza affrontare direttamente il problema di sapere se il diritto canonico, dal profilo formale, sia una realtà sostanzialmente diversa da quello statuale, Barth afferma che è un diritto sui generis, essendo essenzialmente un diritto liturgico, soggetto all’indicazione biblica, valido solo come “servizio” alla communio sanctorum e come profezie rispetto a quello statuale.
Oltre che da Ernst Wolf, il programma barthiano “vangelo e legge” è stato ripreso da Jacques Ellul, che introduce una netta distinzione tra diritto naturale e filosofia del diritto. Costatando il fallimento cronico registrato dalla filosofia del diritto in oltre due mila anni di storia, Ellul afferma che la ragione naturale totaliter deleta è incapace di fare affermazioni valide e definitive sul diritto naturale, tanto più che quest’ultimo, come lo stato e la religione, esiste in quanto fenomeno umano prima di ogni tentativo di riflessione teorica. Perciò il compito di dare un giudizio sul valore che la giustizia umana e il diritto naturale hanno davanti a Dio spetta non alla filosofia ma alla teologia. Questo confronto del diritto naturale con la rivelazione di Cristo permette di giungere a una fondazione teologica di qualsiasi forma di diritto sia statuale che canonico. Comunque, al cospetto della giustizia di Dio, la giustizia umana rimane sempre un non-diritto. Solo all’interno della giustificazione, dove l’uomo è simul iustus et peccator, il diritto umano viene rivestito dalla giustizia di Dio con un atto di grazia.
Per superare la contraddizione nella quale sia Barth che Wolf sono caduti, negando da una parte ogni consistenza al diritto naturale ma facendo dall’altra larghe concessioni alla concettualità naturale e all’immanente razionalità del pensiero teologico (Schüller), Ellul cerca di sbarazzarsi da tutti i presupposti di estrazione intellettualistica, facendo una rigorosa opzione nominalista-volontaristica. In particolare egli cerca di eliminare quei presupposti – emersi nella tradizione scolastica con Gabriel Vàzquez e in quella del diritto naturale moderno con Grotius – che avevano permesso di affermare che “etsi non daretur Deus, esset tamen iustitia” (Schüller). La giustizia umana non esiste se non come espressione del giudizio di Dio poiché è giusto solo ciò che sta in consonanza con la volontà di Dio. Essa però non è statica, ma dinamica perché si manifesta nel giudizio attuale e concreto di Dio sulle cose ed è puro atto di grazia (volontarismo dinamico).
Concludendo, si deve prendere atto che Barth, capovolgendo la posizione di Lutero, ha inteso affermare che la legge non sta in contraddizione ma in unità con il vangelo, perché anch’essa è rivelata da Dio in Cristo. Tutt’e due sono espressione della parola di Dio che è grazia. Di conseguenza esiste opposizione solo nel caso di una legge “male intesa”. Di per sé la legge non è se non la forma necessaria del vangelo il cui contenuto è grazia. Sia accentuando l’unità tra “vangelo e legge”, sia facendo rientrare il diritto canonico nei contenuti della fede, Barth ha fatto un grande passo avanti verso la concezione di s. Agostino e s. Tommaso della nova lex evangelii (Söhngen). Tuttavia Barth non è riuscito a ristabilire l’unità tra diritto divino e umano poiché, pur capovolgendo la tematica “legge e vangelo” e abbandonando il dualismo cosmologico ed ecclesiologico di Lutero, ha ultimamente accentuato il dualismo protestante tra natura e soprannatura e tra ragione e fede, di cui la separazione tra il diritto umano e quello divino è solo una conseguenza a livello istituzionale.
5. Cristologia e dottrina trinitaria: nuovi “loci theologici” del diritto canonico?
Nel tentativo di superare l’aporia in cui era sfociato il programma barthiano “giustificazione e legge”, condannando inesorabilmente il diritto naturale, alcuni giuristi del dopoguerra, intuendo l’impossibilità di elaborare una teologia del diritto sia statuale che canonico a partire dalla sola rivelazione, senza riconoscere nessuna consistenza alla metafisica, hanno cercato nuovi spunti metodologici, lasciando implicite le altre questioni fondamentali tradizionali della teologia protestante. Malgrado rilevanti divergenze sistematico-concettuali, questi autori hanno in comune sia il fatto di affrontare direttamente – in dialettica con Sohm – il problema della teologia del diritto canonico senza passare attraverso la mediazione di quella del diritto, sia di porre metodologicamente il problema del diritto canonico prima o per lo meno contemporaneamente a quello ecclesiologico (Steinmüller).
È sintomatico del disagio provato da Barth il fatto che Johannes Heckel abbia rilanciato come locus theologicus del diritto canonico la dottrina luterana dei due regni che egli intende presentare come fedele interpretazione di Lutero. Tuttavia Heckel non riesce a spiegare in forza di quale principio teologico il diritto divino o lex charitatis – eteronomico rispetto al diritto umano – postuli necessariamente l’esistenza del diritto canonico della chiesa particolare il quale a sua volta è un diritto solo umano (Rouco Varela).
Accanto a questo primo tentativo di strappare – nella linea di Holstein e Liermann – il diritto canonico a una giustificazione puramente sociologica per radicarlo più profondamente nella struttura dell’economia della salvezza, Erick Wolf ha proposto la cristologia come nuovo luogo teologico per una teologia del diritto canonico. La sua cristocrazia si distingue da quella di Barth in quanto accetta come presupposto logico l’apporto della filosofia neo-kantiana e fenomenologico-esistenziale. II diritto divino è essenzielmente strutturato come “signoria fraterna” di Cristo sull’uomo (brüderschaftliche Herrschaft). Declinandosi attraverso l’indicazione biblica come fraternità cristiana, esso determina la natura sia del diritto canonico, che è perciò un diritto del prossimo (Recht des Nächsten), sia della chiesa che è il luogo storico dove si realizza l’esistenza paradossale del cristiano. All’interno di questi limiti formali il diritto canonico rimane però, nei suoi contenuti materiali, diritto puramente umano.
Hans Dombois segue la stessa strada nella convinzione che il fallimento dei tentativi della teologia sia protestante che cattolica, nel risolvere il problema del diritto della chiesa, sia da attribuire all’uso esclusivo di categorie giuridiche astratte (Steinmüller). Egli le sostituisce perciò con concetti antropologici-fenomenologici come quelli di esistenza, persona, struttura, storia, rapporto e relazione. Determinata dal modello delle relazioni trinitari, la persona umana è costituita da quattro rapporti fondamentali: con Dio, l’uomo, la donna e le cose, che a livello istituzionale diventano chiesa, stato, matrimonio e proprietà. L’istituzione nasce da una dinamica fondata sulla traditio e l’acceptatio, che e livello ecclesiologico diventano ordinatio eiurisdictio. L’istituzionalizzazione del rapporto Dio-uomo nella chiesa è il modello di tutti gli altri. La dimensione giuridica di questo rapporto paradigmatico emerge dalle categorie bibliche di estrazione prettamente giuridica, come giustificazione, grazia, testamento, testimonianza e apostolato, con le quali Dio si è espresso. Il fatto che Dio nel suo rapporto con l’uomo scenda a livello della storia è un atto di grazia; il diritto canonico quindi, il cui locus theologicus è la Trinità, è un diritto della grazia (Recht der Gnade). Il punto ecclesiologicamente debole del sistema sta evidentemente nel fatto che Dombois nel solco della tradizione soggettivistica protestante fa dipendere in ultima analisi l’esistenza dell’istituzione “Chiesa” dall’acceptatio da parte dell’uomo. Ne consegue che il diritto canonico ha carattere solo umano ed è ancora una volta giustificato solo a partire dall’antropologia (Rouco Varela).
6. Osservazioni critiche
Il punto centrale di convergenza della moderna teologia protestante del diritto canonico con quella cattolica è dato dall’affermazione che il diritto canonico è una dimensione della chiesa indissolubilmente legata al dogma. Come realtà ecclesiale appartiene perciò non solo al contenuto della fede – da cui Lutero l’aveva estromesso – ma anche ai contenuti più discussi della teologia moderna. Tuttavia sarebbe una facile tentazione di irenismo ecumenico sottacere le profonde divergenze ancora esistenti.
Il problema del diritto canonico, apertosi con la dottrina di Lutero dei due regni e delle due chiese e con l’opposizione da lui stabilita tra “legge e vangelo”, sfociate nella radicale negazione di Sohm, non ha trovato una soddisfacente risposta neppure con l’inversione della problematica proposta da Barth. Infatti, pur avendo fatto rientrare il diritto secolare e quello canonico nel contenuto della fede, inserendoli come elementi proposti e giudicati dalla rivelazione in Cristo, che è giustificazione egli non è riuscito, a causa della sua avversione al diritto naturale e alla filosofia, a rifare la saldatura tra il diritto divino, naturale e umano, così come era stata garantita da tutto il medio evo. La tesi dell’unicità del regno di Dio centrato attorno al Cristo, non è bastata per eliminare il dualismo tra il diritto divino e quello umano. Quest’ultimo resta, infatti, una realtà solo umana, rispetto alla quale il diritto divino è totalmente trascendente. Di conseguenza il dualismo dal livello ecclesiologico è stato semplicemente spostato a quello del diritto. Neppure i tentativi più recenti di Erick Wolf e Dombois riescono a risolvere il problema. In essi emerge una componente platonica nel fatto che il diritto divino – strutturato come “signoria fraterna” di Cristo o come “relazione trinitaria” – è considerato solo come modello secondo cui il diritto umano deve strutturarsi con l’aiuto esterno dell’indicazione biblica(biblische Weisung), che a partire soprattutto da Calvino ha sostituito nella teologia protestante il principio dell’incarnazione. In sostanza dalla teologia protestante il diritto divino è inteso – da Lutero ai moderni – in un senso così spiritualizzato che non si vede come possa essere vincolante per la chiesa storica. La teologia protestante non riesce a stabilire un rapporto vincolante tra la chiesa e il cristiano ma solo un rapporto diretto tra Dio e la coscienza dell’uomo. Infatti il diritto canonico resta inesorabilmente diritto umano incapace di vincolare la coscienza del cristiano, non da ultimo per il fatto che, non avendo una consistenza naturale, non può avere, in quanto realtà anche antropologica, neppure una consistenza soteriologica. L’antinomia tra “legge e vangelo” priva la legge e il diritto di ogni valenza soteriologica.
Questo atto non è superabile invertendo semplicemente i termini, come ha fatto Barth, e facendo dipendere il valore della legge dal vangelo, se non a condizione di riconoscere una consistenza propria alla natura. Il problema del valore del diritto canonico non è perciò risolvibile se non risolvendo quello del rapporto tra ragione e fede, natura e soprannatura, storia ed escatologia. Anche nella migliore tradizione protestante – quella che ha preso le distanze dal razionalismo liberale del XVIII e XIX sec. che aveva eliminato la dimensione escatologica della storia – persiste una visione dell’escatologia proiettata unilateralmente verso il futuro, la quale ingenera, rispetto al fatto giuridico, un positivismo analogo a quello esistente nell’ortodossia, dove l’escatologia si risolve piuttosto come una fuga verso l’alto e la trascendenza. Tutte e due tendono ad abbandonare la storia alla sua propria logica mondana.
Il problema posto dal protestantesimo è quello di sapere se è possibile fare teologia prescindendo da ogni orizzonte ontologico-filosofico. In particolare, per quanto riguarda il diritto, il problema è quello di sapere se la teologia del diritto debba essere, come pensa Rouco Varela, primariamente teologia del diritto canonico o se invece occorra far dipendere quest’ultima dalla prima.
1. “Legge e grazia”
Anche la risposta della teologia cattolica al problema del diritto canonico dev’essere iscritta all’interno della tematica più ampia della giustificazione, cristallizzatasi con Lutero nel binomio “legge e vangelo” e nella tradizione cattolica con quello “legge e grazia”.
Cosa significa per la teologia cattolica “legge e vangelo”? Gottlieb Söhngen è tra i rarissimi autori cattolici che abbiano affrontato il tema analiticamente e in dialettica con il protestantesimo. Secondo il teologo tedesco la prima costatazione che si impone è che anche per la teologia cattolica la congiunzione “e” non significa “anche”, poiché la natura intrinseca delle due realtà non è identica. L’essenza della legge sta nel suo carattere imperativo, mentre quella del vangelo e della grazia sta in una partecipazione di Dio nel cuore dell’uomo. Perciò non esiste un’analogia nominum per cui si possa dire che la legge è anche vangelo e che il vangelo è anche legge, ma solo un’analogiarelationis (Barth), stabilita dal fatto che l’imperativo della nuova legge – che non è legge solo in forza del suo essere legge – ha come fondamento la grazia e la carità. Tommaso d’Aquino, usando la formula “nova lex evangelii”, con cui ha sintetizzato la tradizione antecedente espressa nel “da quod iubes et iube quod vis” di s. Agostino, ha usato l’analogia in questo senso. Infatti la novità della nuova legge non sta nella maggiore perfezione rispetto a quella antica, ma nel fatto che è data come pienezza della carità: “Lex nova est ipsa gratia (seu ipsa praesentia) Spiritus sancti, quae (qui) datur Christi fidelibus” (S. Th. I-II. q. 106, a. 1). Non esiste perciò analogia nominum neppure tra la legge antica e quella nuova, perché se è vero che Cristo, come afferma il concilio di Trento, non è solo mediatore ma anche legislatore (Sess. IV de iustif., can 31), non lo è nello stesso senso di Mosè. Non si può perciò giustificare l’esistenza del diritto canonico, come ha fatto Lutero, allo stesso modo della legge antica, solo come argine contro la concupiscenza e il peccato. Esso appartiene all’esperienza cristiana positivamente, nel segno della pienezza della carità e della grazia. Vi appartiene perciò allo stesso titolo del dogma, che come abbiamo visto non è una realtà eterogenea rispetto al diritto. Infatti, allo stesso modo che la salvezza non proviene dalla forza formale imperativa dell’ordinamento giuridico della chiesa, essa non proviene neppure da quella pedagogica dei dogma, ma esclusivamente dalla grazia. La grazia comprende quindi la legge e non viceversa, poiché l’adempimento della legge non è causa efficiente della grazia. Anche la canonistica medioevale aveva colto con precisione il fatto che la grazia trascende la legge quando osava identificare l’aequitas canonica con Dio stesso: “Nihil aliud est aequitas canonica quam Deus” (Glossa bolognese). Infatti la natura dell’aequitas canonica è profondamente diversa da quella “romana”, poiché non rimanda solo alle norme contenute nel diritto positivo ma anche ad altri principi, cioè a Dio stesso, al vangelo (Fedele).
Se è vero che il vangelo non è “anche” legge, esso però non esiste neppure “senza” legge. Come già nell’AT, anche la nuova legge non é data senza la promessa della grazia e la grazia non è data senza i precetti di Dio. Nel NT la grazia non può restare senza le opere della carità. Del resto, neppure per Lutero il principio sola fide significa che la fede possa esistere senza le opere. La differenza tra la dottrina dei riformatori e quella cattolica fissata dal Tridentino (cann. 29 e 30) sta nel fatto che per quest’ultima le opere non sono solo una conseguenza necessaria della fede, ma una vera e propria condizione per la salvezza. Nelle due posizioni teologiche esiste perciò un doppio punto di convergenza: che la salvezza è data dalla grazia e che le opere sono necessarie. Per i riformatori le buone opere – che comunque non sono buone perché salvano ma solo perché compiute in obbedienza a Dio – sono necessarie solo come conseguenza. Inoltre esse non sono a vantaggio di chi le compie, ma degli altri che possono vedere il miracolo compiuto da Dio nella salvezza. Per i cattolici invece sono necessarie almeno come condizione a posteriori – anche se possono essere poste dal credente solo in forza della grazia e della fede – affinché la salvezza non si ritorca in dannazione. Ciò significa che Dio non perdona il peccato all’uomo dopo che questi lo ha perdonato agli altri, me è in forza del fatto che Dio gli ha perdonato che l’uomo diventa capace di perdonare e deve farlo (Söhngen).
Questa diversità nel concepire la conditio deriva dal modo diverso di comprendere la grazia. Anche per la dottrina protestante, soprattutto moderna, la grazia non è una semplice non imputatio del peccato, ma una presenza personale esterna di Cristo che, pur lasciando l’uomo interiormente non cambiato (simul iustus et peccator), lo coinvolge e lo fa diventare capace di amare, nel senso che Cristo stesso opera in lui (Pannenberg). Per la teologia cattolica invece le grazia è una realtà soprannaturale reale e infusa nell’uomo come qualità inerente (gratia creata habitualis) che, a differenza con la dottrina ortodossa, non si identifica con Dio(energie). Essa è una forza in base alla quale l’uomo agisce collaborando con Dio (fides charitate formata), meritandosi anche un aumento della stessa. La nozione protestante della non imputatio non nega l’efficacia reale della grazia, ma il fatto che sia in qualche modo causale e che sia una realtà ontologica inerente nell’uomo. L’uomo vi è implicato solo come strumento dell’azione di Dio, non come collaboratore. Del resto la medesima concezione è riscontrabile a livello ecclesiale dove la chiesa non ha una soggettività propria, poiché il solo soggetto operante è Cristo e lo Spirito santo.
Avendo posto la premessa che la grazia non si “incarna” ontologicamente nella natura dell’uomo come gratia creata e che la chiesa abscondita non si compenetra con quella universale o visibile, la teologia protestante si trova nell’impossibilità di stabilire un ponte tra il diritto divino e quello umano. Come le opere sono solo una conseguenza esterna della grazia, così il diritto canonico è solo una conseguenza esterna della chiesa abscondita. Se è necessario, lo è a livello sociologico, non ontologico, per cui, come le opere, non ha in se stesso nessuna valenza salvifica. Parallelamente al sacramento è solo un signum fidei senza essere causa strumentale efficace della grazia. Evidentemente tra diritto e sacramento esiste solo un’analogia che impedisce di applicare al primo il principio dell’ex opere operato.
La tradizione cattolica – che ha trovato nella metafisica ilemorfistica aristotelico-tomista un orizzonte ontologico ed uno strumento logico particolarmente congeniali per conferire una plausibilità razionale al proprio modo di credere il mistero della salvezza – ha declinato, sia pure in modo analogico e differenziato (Congar e Mühlen), il principio “incarnazione”, realizzatosi nella sua pienezza paradigmatica in Cristo, a tutti i livelli dell’economia della·salvezza.·Lo applica perciò rigorosamente, non solo alla grazia (creata), alla chiesa e al sacramento, ma anche al diritto canonico. Il diritto divino non è presente nel diritto canonico solo come orizzonte formale (Rahner), dal quale proviene l’indicazione parenetica, ma anche come substrato ontologico. D’altra parte se tutte le realtà istituzionali in cui si “incarna” la grazia, come la chiesa, il sacramento, il dogma e il diritto, sono solo signa fidei – come s. Tommaso dice dei sacramenti – lo sono però in quanto segni strumentalmente efficaci, sia pure in modo diverso, della grazia, di cui Dio solo dispone.
Grazie a questa consequenzialità nell’applicare il principio “incarnazione”, la tradizione cattolica ha potuto, evidentemente, concepire anche l’escatologia come una realtà non solo presente nella storia ma anche costitutiva della verità ultima della stessa.
2. L’“iter” metodologico
a) Il dualismo ecclesiologico e giuridico della riforma protestante ha la sua radice nella contrapposizione stabilita da Lutero tra natura e grazia, ragione e fede, storia e escatologia, “legge e vangelo”. La costante specifica della tradizione cattolica sta invece nell’aver salvato, pur nella varietà delle interpretazioni, un’unità di questi elementi che non è solo estrinseca – attraverso la mediazione della volontà di Dio – bensì intrinseca.
Il fatto che la legge sia sempre stata considerata condizione indispensabile per la salvezza spiega perché la chiesa cattolica “non ha mai vissuto da un punto di vista costituzionale su basi giuridiche precarie, (Rouco Varela). Non fa perciò meraviglia che la chiesa cattolica in regime di cristianità e in quello dell’assolutismo statale abbia sempre rivendicato il possesso di una struttura costituzionale e di un ordinamento giuridico propri, radicati nel diritto divino e perciò autonomi di fronte al potere secolare, a dispetto delle sovrapposizioni avvenute. Quando lo stato liberale ottocentesco ha imposto la separazione, il problema per la chiesa cattolica non è stato perciò quello di trovare un nuovo impianto costituzionale che servisse da supporto sociologico per la sua esistenza religiosa, come è avvenuto per la chiesa protestante, ma solo quello di difendere, come nei secoli precedenti, la preesistenza e l’autonomia teologico-istituzionale del proprio ordinamento giuridico. Anche la crisi di antigiuridismo, che ha colto la chiesa moderna, non ha ultimamente messo in discussione l’esistenza dell’istituzione e del diritto, ma ne ha reclamato sia una riformulazione storica che una risignificazione teologica. Ne è prova l’enorme produzione legislativa avvenuta in quest’ultimo decennio nelle chiese particolari, sostenuta attraverso la partecipazione alle moderne istituzioni sinodali-pastorali (ìSinodalità) anche dalla base ecclesiale contestatrice.
Il problema per la teologia cattolica non è perciò quello di produrre la prova teologica del’esistenza del diritto canonico, che in ultima analisi non è neppure dottrinalmente messo in discussione, quanto piuttosto di saper dare una giustificazione teologicamente corretta di una realtà che appartiene già, se non sempre nella prassi, almeno a livello di coscienza teorica, al contenuto della fede. Il problema è perciò quello del metodo. Si tratta, infatti, di giustificare il diritto canonico non più a partire da presupposti giusnaturalistici o sociali ma da uno spunto nettamente teologico. Esso deve sapere individuare con precisione il locus theologicusdel diritto ecclesiale, all’interno del nexus mysteriorum, per eliminare in sede di riflessione esplicita l’affermata esistenza – nel comportamento e nella pubblicistica divulgativa – di un’antinomia tra diritto e libertà, istituzione e carisma, “legge e grazia”.
Bisogna riconoscere che la canonistica e la teologia moderne si sono trovate, salvo qualche eccezione, disarmate di fronte all’urgenza di dare una risposta plausibile alla contestazione ecclesiale. La canonistica soprattutto si è trovata sprovveduta di una nozione teologica unitaria di diritto, capace sia di diventare categoria interpretativa sintetica di tutti gli aspetti con i quali la teologia affronta tradizionalmente il concetto di diritto e di giustizia, sia di stabilire il rapporto esatto tra ìchiesa e diritto in quanto elemento che ne determina il suo essere sacramentale e la sua esistenza di signum elevatum in nationibus. Come fa osservare molto acutamente Rouco Varela, esistono molte varianti più o meno eterogenee dell’idea di diritto nei diversi settori teologici, biblici e storici ma anche sistematici, come in quello della soteriologia dove si parla della giustizia di Dio, della sacramentologia ed ecclesiologia a proposito dell’ordo e delle successione apostolica, e della teologia morale nelle parti dedicate al de lege e al de iustitia et iure. Anzi non mancano neppure tentativi, come in quello della teologia politica, nei quali si tenta di dare implicitamente alla categoria del diritto una funzione ermeneutica centrale per l’impianto di tutta la teologia. La scienza canonistica stessa non dà nessuna definizione teologica del proprio obiectum formale quod. Essa si accontenta di appoggiarsi sulla nozione di diritto soggiacente al CIC e formulata dal Suàrez come sintesi di tutto il pensiero filosofico cristiano precedente (Stiegler).
La canonistica medioevale come quella moderna definisce il diritto con la categoria del iustum o dell’obiectum virtutis iustitiae, ma è evidente che essa, essendo di estrazione filosofica, non è in grado di spiegare la struttura giuridica interna della chiesa, anche se la canonistica ha cercato di stabilire il legame con la sua dimensione soteriologica determinando gli obblighi sub gravi osub levi imposti dal diritto canonico alla coscienza cristiana (Rouco Varela). L’apice di questa operazione è stato raggiunto dal Suàrez, il quale non solo ha stabilito, come il Medina e il Cajetano, che lo stato può obbligare in coscienza a compiere atti esterni, ma che il legislatore ecclesiastico può imporre come obbligo anche quello di compiere atti puramente interni, come quello reperibile nel CIC e ingiunto ai religiosi di tendere alla perfezione (can. 593). Evidentemente ciò non è sufficiente per stabilire un raccordo della filosofia con la teologia, ma solo tra la prima e la morale. Questo equivoco ha creato una confusione tra lo statuto metodologico ed epistemologico del diritto canonico e della morale dalla quale nessuno ha ricavato beneficio.
b) Alla sfida sostanziale e metodologica lanciata nei sec. XVIII e XIX dalla scienza giuridica giusnaturalistica del ius publicum, diventato lo strumento con cui lo stato illuminista e liberale ha imposto l’esclusività della propria sovranità territoriale-giuridica in tutti i settori della vita sociale e ecclesiale, le forze cattoliche hanno risposto creando la nuova scienza del ius publicum ecclesiasticum (De la Hera). La sua novità sta nell’aver elaborato una disciplina giuridica nuova dal profilo metodologico rispetto alla canonistica classica e di aver affrontato per la prima volta, nella parte dedicata al ius publicum internum, il problema della natura del diritto della chiesa, superando così lo status quaestionis medioevale.
La categoria centrale dei trattati del ius publicum ecclesiaticum – quella della societas perfecta – non era in grado di mediare una comprensione teologica del diritto ecclesiale, sia perché è di evidente estrazione giusnaturalistica, sia perché presuppone – come maggiore del sillogismo con cui si conclude all’esistenza del diritto ecclesiale – l’asserto assiomatico “ubi societas ibi et ius”, che oltre ad essere esso stesso di origine giusnaturalista usa lo stesso concetto formale di diritto della tradizione canonistica precedente. L’equivoco metodologico è stato quello di voler trovare confermati nella s. Scrittura i principi base della filosofia dello stato per poterli applicare alla chiesa, servendosi nell’argomentazione di una preconcezione secolare del diritto, estranea ai così detti passi gerarcologicidel NT. Questo equivoco ha tuttavia un nesso preciso con la cultura teologica del tempo, impostata nel XVII e XVIII sec. sulla dimostrazione della corrispondenza della ragione con la rivelazione. Il fatto che il XIX sec. abbia invertito questa problematica per dimostrare la corrispondenza della rivelazione con la ragione, spiega il progresso registrato dal ius publicum ecclesiasticum con la scuola romana del Tarquini e del Cavagnis, i quali hanno epurato le loro opere dagli elementi più vistosi del giusnaturalismo della scuola di Würzburg, cercando una migliore, ma evidentemente ancora artificiosa, fondazione scritturistico-teologica dei loro trattati. Tuttavia la connessione ultima tra chiesa, società perfetta, e diritto ecclesiale è fatta dipendere ultimamente non dalla struttura interna della chiesa in quanto tale, ma volontaristicamente ed estrinsecisticamente dalla volontà di Cristo, il quale avrebbe voluto costituire la chiesa sia come società perfetta sia come società giuridica.
c) Gli stessi limiti metodologici sono riscontrabili, malgrado un primo tentativo di superamento, nella canonistica di Georg Phillips. Nel solco del romanticismo tedesco e della restaurazione politica della prima metà del secolo scorso, il Phillips ha definito la chiesa sostituendo la categoria societas perfecta con quella biblica di regnum: la chiesa è il regno di Cristo sulla terra. Da una preconcezione politico-istituzionale di “regno” il canonista tedesco deduce l’esistenza nella chiesa di un ordinamento giuridico fondato sull’unità del potere ecclesiastico.
d) Più gravi dal profilo teologico sono i limiti della scuola canonistica laica italiana moderna. Il suo tentativo, che condivide l’istanza giuridico-apologetica di fondo del ius publicum ecclesiasticum– quello di dimostrare la validità giuridica dell’ordinamento canonico rispetto a quello statuale – rappresenta un regresso malgrado si tratti di uno degli sforzi più brillanti intrapresi dalla canonistica di tutti i tempi. Appoggiandosi alla soggiacente categoria della societas perfecta essa ha cercato in un certo senso di fondare il diritto canonico a partire dal sistema canonico stesso, senza evidentemente assumere in sede teorica la “dottrina pura del diritto” (Reine Rechtslehre) di un Kelsen. Essa prende infatti come asse portante di tutta l’elaborazione scientifica il concetto di “ordinamento giuridico primario”, apparentemente non derivato da nessun presupposto filosofico previo, ma in realtà preso a prestito, anche se epurato dalle sue implicazioni più compromettenti, dalla pandettistica, nata in Germania nel secolo scorso come frutto del positivismo giuridico e sfociata nella scienza della “teoria generale” del diritto (allgemeine Rechtslehre).Quando però i canonisti italiani si sono trovati a dover rendere conto della natura specifica del diritto canonico rispetto a quello statuale hanno dovuto costatare l’“incapacità epistemologica della loro metodologia” (Rouco Varela). Essi hanno perciò rinviato il problema della fondazione teologica del diritto canonico alla teologia, dichiarandolo di natura para-giuridica (De la Hera). Ciò è emerso in tutta la sua evidenza nella categoria della salus animarum, considerata dalla scuola italiana come fine ultimo dell’ordinamento canonico (Fedele). Anche i correttivi portati dalla scuola stessa (D’Avack) o da quella curiale (Bidagor, Bertrams, Robleda) per superare la valenza palesemente troppo escatologica e individualistica (e perciò estrinsecistica dal profilo giuridico) della salus animarum, sostituendola con il concetto del bonum commune ecclesiae, non hanno risolto il problema. Infatti anche il concetto del bonum commune ecclesiae non è di estrazione teologica ma socio-filosofica.
e) Avendo costatato la radicale incapacità della dottrina dell’“ordinamento giuridico” di risolvere il problema teologico di fondo del diritto canonico, i canonisti della scuola di Navarra – che intendono proseguire il lavoro di elaborazione tecnico-scientifica dei maestri e colleghi italiani riadattando la “teoria generale” soprattutto in sede di diritto costituzionale (Lex fundamentalis)- hanno sentito il bisogno di assicurare nel clima del dopo-concilio una più solida infrastruttura teologica alla scienza canonistica. Non senza un certo parallelismo con la moderna dottrina protestante i canonisti di Navarra hanno cercato il locus theologicus nella cristologia ed ecclesiologia prendendo come categoria centrale quella di “popolo di Dio” (Hervada-Lombardia), oppure nel mistero della Trinità (Viladrich). La radice positivista italiana del nuovo tentativo è tuttavia riemersa nel fatto che i canonisti di Navarra, usando un concetto monistico di diritto, sono costretti ad affermare che dal profilo epistemologico il diritto canonico non è una scienza teologica ma giuridica (Rouco Varela). L’infrastruttura teologica arrischia perciò di rimanere semplicemente un limite formale all’interno del quale la canonistica deve muoversi per non sconfinare in soluzioni tecnico-giuridiche inconciliabili con l’ecclesiologia, senza investire la nozione stessa di diritto canonico. La dipendenza dalla scienza giuridica secolare spiega come Pedro Lombardia possa sostenere che il problema centrale della costituzione della chiesa sia quello di elaborare i diritti fondamentali del cristiano.
f) Benché non manchino autori di validissima tempra (Robleda, Monnet) che affermano il contrario, non ci sembra che il sistema estremamente unitario elaborato da Wilhelm Bertrams superi i limiti metodologici precedenti, sebbene dal profilo dei contenuti abbandoni l’alveo del ius publicum ecclesiasticum e della scuola italiana per affrontare una tematica chiaramente teologica. L’assunto teologico di fondo del sistema sta nella tesi – che vanta del resto una lunga tradizione cattolica – secondo cui la chiesa è una società umana elevata alla sfera soprannaturale (Aymans). Dal profilo ontologico-sistematico , invece, il punto centrale del sistema consiste nella dimostrazione che anche nella chiesa, come in ogni società umana, la struttura metafisica interna non può attuarsi senza la mediazione della struttura socio-giuridica esterna, allo stesso modo che l’anima non può manifestarsi nell’uomo senza la mediazione del corpo (Gundlach). La dimensione giuridica è data perciò dalla struttura esterna della chiesa, imposta dal fatto, universalmente riconosciuto in sede di antropologia filosofica, che la struttura interna dell’uomo tende ad esprimersi in forme sociali. Ne consegue che l’unità tra l’elemento metafisico-sacramentale interno della chiesa e quello esterno è giustificata a partire da un orizzonte filosofico neoscolastico. Il principio giusnaturalista ubi societas ibi et ius riemerge perciò sotto altra veste. Infatti la struttura esterna non pone soltanto le condizioni formali per l’esercizio del diritto – ontologicamente già presente nella struttura interna dell’economia della salvezza e della chiesa – ma lo crea, dandogli un contenuto reale. Secondo il Bertrams infatti i diritti fondamentali, radicati nel battesimo, non solo vengono sospesi nel loro esercizio, ma non esistono neppure quando il cristiano si pone al di fuori dell’ordinamento giuridico esterno previsto dalla chiesa. Malgrado la forte coscienza che il Bertrams ha della natura teologica del diritto canonico, le motivazioni da lui portate per stabilire il legame tra chiesa e diritto restano a un livello di metodologia filosofica, non teologica.
g) La debolezza di una teologia del diritto canonico che ricorre alla filosofia per dare la motivazione razionale ultima della sua esistenza è tanto piu grande se poi ad una necessità di ordine metafisico ne venisse sostituita una di ordine sociologico. Mentre un regresso metodologico di questo tipo non sarebbe più possibile neppure all’interno della teologia protestante moderna, esso sta invece verificandosi in campo cattolico – di pari passo con la contestazione antigiuridica del dopo-concilio – con il programma di “de-teologizzazione” e “de-giuridizzazione” proposto dalla rivista Concilium. Esso è fondato sul principio della “universalità del teologico” e della “relatività del canonico” (Rouco Varela), che secondo Jiménez Urresti trova un riscontro in sede di logica formale nel carattere dottrinale del linguaggio teologico, che tenderebbe a definire e in quello pragmatico del linguaggio giuridico che tenderebbe solo a prescrivere e dare giudizi pratici.
A parte la scorrettezza di quest’ultimo assunto che confonde la scienza giuridica – a livello di “teoria generale” essa tende senza dubbio a definire – con certi aspetti della tecnica legislativa, il sistema, così come è stato ridefinito recentemente da Peter Huizing, è fondato su un ecletticismo dottrinale che lo rende incapace di dare una risposta qualificante alla problematica teologica posta dal fenomeno giuridico ecclesiale. Il diritto canonico – definito con la categoria “servizio” mutuata dalla teologia protestante (Calvino, Barth) – avrebbe secondo l’Huizing come funzione quella di appianare i conflitti sempre emergenti tra la chiesa dell’amore e quella del diritto, tra il carisma e l’istituzione. D’altra parte, la capacità del diritto canonico di impegnare il cristiano in coscienza – senza per altro poterlo costringere malgrado l’istituto della scomunica – non è motivata a partire da una normatività intrinseca alla realtà teologica ma da un moralismo di tipo neo-kantiano slegato dalla metafisica. Infatti la forza vincolante delle norma canonica non sembra essere derivata dalla struttura metafisico-teologica della legge stessa, poiché l’ultima istanza normativa non è neppure costituita dalle chiesa in quanto istituzione, ma dallo Spirito santo cui è trascendentalmente attribuito il compito fondamentale della discretio spirituum. Dal profilo formale alla nozione di diritto canonico non è perciò attribuito carattere giuridico ma solo quello di essere una funzione di “ordine” (Kirchenordnung). La sua esistenza è d’altra parte giustificata sociologicamente e giusnaturalisticamente a partire dalla costatazione della sua imprescindibilità di fatto, poiché una comunità ecclesiale che rifiuta l’“ordine” si espone al rischio dell’autodistruzione.
Il programma di Concilium, senza sostenersi con una teoresi esplicita, riduce tendenzialmente il diritto canonico ad elemento solo estrinseco, postulato da un’esigenza di convivenza socio-ecclesiale e ritenuto incapace di determinare intrinsecamente e strutturalmente l’esistenza cristiana se non al livello solo etico. La disarmonia ideologica e metodologica, in forza della quale ci si limita a costatare empiricamente il dualismo esistente tra l’istituzione e il carisma, senza tentare una risposta, per affidare all’“ordine” ecclesiale il compito estrinseco di risolverne i conflitti è troppo palese per poter sostenere un confronto scientifico in sede teologica.
h) Contemporaneamente ai tentativi del Bertrams, della scuola di Navarra e al programma diConcilium, alcuni teologi e canonisti hanno cercato un altro spunto metodologico proponendo il mistero dell’incarnazione come luogo teologico dal quale dedurre, all’interno di un processo immanente alla gnoseologia teologica, un rapporto intrinseco tra la struttura socio-sacramentale della chiesa e il diritto canonico. Il merito di aver individuato nella cristologia il punto di inserzione del diritto canonico risale, come abbiamo visto, al Phillips, che era stato attratto dal fascino della nuova ecclesiologia dell’università di Tubinga. Mentre però il Phillips si era impossessato solo di un aspetto parziale della stessa – quello della regalità di Cristo – interpretandola con i parametri del diritto pubblico secolare, i maestri di Tubinga (Möhler) tendevano a inquadrare il problema del rapporto Cristo-chiesa-società nella prospettiva totale del mistero di Cristo e della chiesa, considerata come la continuazione nella storia dell’incarnazione del Cristo. Il prevalere sia della preoccupazione storico-sistematica della pandettistica, che in campo canonistico aveva raggiunto un alto livello di elaborazione con l’Hinschius, il Scherer e il Wernz, sia del pragmatismo esegetico-manualistico della canonistica ecclesiastica posteriore alla codificazione, ma soprattutto la crisi modernista che contribuì a mantenere intatto il “prestigio accademico” (Rouco Varela) del ius publicum ecclesiasticum fino al Vat II, hanno impedito non solo alla canonistica ma anche all’ecclesiologia di quest’ultimo secolo di sfruttare il filone teologico di Tubinga, ricuperato solo più tardi dalla Mystici corporis. Autori come il Salaverri – prima del Vat II – lo Stickler e l’Heimerl hanno perciò tentato di collocare nel mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio la radice ultima del carattere sociale della chiesa affermando sia che Cristo, incarnandosi, ha assunto e coinvolto la natura umana in tutte le sue dimensioni, compresa quella socio-comunitaria che raggiunge proprio la sua pienezza nella chiesa (Stickler), sia che essa è postulata dal fatto che la chiesa, in quanto momento storico applicativo della salvezza, continua a mediare soteriologicamente l’intervento di Cristo in forza anche della sua imperatività normativa (Heimerl). Questa linea metodologica che tenta di superare l’estrinsecismo di quelle precedenti è stata avallata, sia pure in modo non esplicito e riflesso, dal Vat II. Nella LG (n. 8) e nel decreto OT (n. 16) è stato infatti stabilito un nesso indissolubile tra la dimensione socio-visibile della chiesa – che è la totalità del mistero dell’incarnazione – e l’esistenza della dimensione giuridica. Evidentemente l’assunto dottrinale del magistero, anche se perfettamente valido a livello di contenuto, non è riuscito a rendere plausibile in sede di argomentazione teorica l’esistenza del diritto stesso. In primo luogo il concilio, non avendo ridefinito teologicamente il concetto formale di diritto canonico, è costretto a mutuarlo implicitamente dalla filosofia sociale della chiesa; in secondo luogo, se è vero che il mistero dell’incarnazione postula la visibilità della chiesa, non è altrettanto vero che la visibilità postuli necessariamente la giuridicità, poiché essa potrebbe esprimersi – come ha sostenuto Sohm – anche attraverso una struttura solo carismatica. Ne consegue che la normatività giuridica viene ultimamente postulata dalla struttura sociale della convivenza umana preesistente alla sua assunzione nel mistero dell’incarnazione, per cui la filigrana del pensiero giusnaturalista resta presente in profondità.
i) I termini del problema non cambiano anche se al mistero dell’incarnazione si dovesse sostituire quello della presenza dello Spirito santo nella chiesa, come il magistero stesso ha fatto recentemente (discorso di Paolo VI al secondo Congresso internazionale di diritto canonico del 1973). Infatti, per risolvere il problema non è sufficiente affermare che “tutti gli elementi istituzionali e giuridici” – come del resto anche quelli carismatici – “sono sacri perché vivificati dallo Spirito santo”, né che lo “Spirito e il diritto nella loro stessa fonte formano un’unione”, per cui la “polarità tra l’indole spirituale-soprannaturale e quella istituzionale-giuridica della chiesa, lungi dal diventare fonte di tensione, è sempre orientata verso il bene della chiesa, che è interiormente animata, ed esteriormente suggellata, dallo Spirito santo” (L’Osservatore Romano 1973, n. 213), perché questo discorso presuppone il fatto dell’esistenza del diritto ecclesiale. Il fatto giuridico non può essere direttamente derivato dallo Spirito santo senza la mediazione istituzionale della chiesa. Non si può perciò prescindere dal costatare che in queste due posizioni metodologiche né la dinamica teologica dell’elevazione della chiesa (in quanto società umana) alla sfera soprannaturale – che riemerge tra le righe -, né la soluzione volontaristica secondo la quale sarebbero Cristo e lo Spirito santo a volere direttamente la giuridicità della chiesa, vengono superate.
Evidentemente non sarebbe neppure possibile dimostrare che la dimensione giuridica della chiesa è già presente negli elementi strutturali attraverso i quali Cristo e lo Spirito santo – in obbedienza alle modalità specifiche con le quali il Padre si è manifestato nella storia – sono presenti e vivificano la chiesa, senza doversi domandare perché Dio ha voluto e scelto queste modalità. Il problema perciò si ripropone più a monte, ma viene a coincidere con la questione ultima di ogni sistema teologico al quale alternativamente e da sempre è stata data una risposta realistica oppure volontaristica. Si tratta nella fattispecie di evitare una soluzione volontaristica di comodo, facendo dipendere l’esistenza del diritto nella chiesa – in quanto problema particolare – dalla volontà di Cristo, perché non si riesce ad offrire un’altra risposta organica all’interno di una opzione teologica di fondo.
l) Evitando sia la soluzione volontaristica che giusnaturalistica inerente alle soluzioni cristologiche proposte dalla teologia cattolica moderna, Klaus Mörsdorf ha cercato l’aggancio teologico del diritto ecclesiale negli elementi costitutivi della chiesa stessa, vale a dire nella parola e nel sacramento. Parola e segno simbolico, in quanto elementi primordiali e strutturalmente reciproci di comunicazione umana, sono sempre stati usati dalla cultura mondiale come strumenti atti ad esprimere un’intimazione giuridica. Cristo, ponendosi dentro la dinamica della storia della salvezza in cui Dio si era già manifestato non solo attraverso la parola ma anche attraverso fatti simbolici, ne ha esplicitato tutta la loro forza vincolante imprimendo loro – in forza dell’incarnazione stessa – un valore ultimo, cioè sacramentale nel senso fondamentale della espressione. La parola diventa kerygma e il simbolo segno sacramentale della presenza di Dio. Incarnandosi, Cristo ha dato alla parola e al sacramento – che interpellano l’uomo nel più intimo della sua persona e urgono una risposta – un valore definitivo per l’esistenza umana. Nell’intuizione del Mörsdorf emerge l’elemento chiave di tutta la teologia fondamentale cattolica, quello delle locutio Dei attestans. Contro la dottrina protestante di Sohm, con il quale polemizza direttamente, il Mörsdorf ribadisce la tesi secondo cui la parola e il sacramento non obbligano l’uomo a dare la sua adesione in forza della loro verità intrinseca, soggettivamente percepita, ma per il fatto stesso che Dio ha parlato e si è manifestato. La parola e il sacramento – che perciò hanno forza vincolante formale – generano a partire dalla loro struttura intrinseca una nuova forma di aggregazione sociale destinata in quanto tale ad essere segno della presenza di Dio nel mondo. La chiesa è perciò una comunità kerygmatico-sacramentale che ha globalmente lo stesso valore vincolante della parola e del sacramento da cui è geneticamente costituita. Il principio “incarnazione” trova la sua realizzazione nella chiesa – sia pure senza relazione di identità totale con l’incarnazione di Cristo – attraverso la mediazione della parola e del sacramento dando a tutta la realtà ecclesiale una valenza sacramentale primordiale. Esso garantisce perciò il rapporto di necessarietà esistente tra la chiesa e il diritto canonico.
Il merito del Mörsdorf non sta solo nell’aver individuato un locus theologicus sicuro, anche se non esclusivo, ma anche e soprattutto nell’aver applicato un metodo rigorosamente teologico, senza fare concessioni a postulati filosofici. Rimane per contro aperto il problema del significato teologico-formale della nozione di diritto. Che il Mörsdorf non abbia risolto soddisfacentemente il problema emerge dalla citatissima definizione da lui data al diritto canonico, che sarebbe “eine theologische Disziplin mit iuristischer Methode”. Se è vero che per non incorrere in un’opzione positivistica il metodo deve essere definito a partire dalla natura dell’oggetto e non viceversa, in che senso è possibile applicare il metodo giuridico ad una realtà teologica?
3. Lo statuto ontologico e epistemologico
a) II tentativo più lucido per superare questa antinomia è stato intrapreso recentemente da Antonio Rouco Varela, uno dei pionieri della teologia del diritto canonico. Senza avere la pretesa di dare una vera e propria definizione teologico-formale del diritto canonico, il canonista di Salamanca propone un elenco di elementi per l’elaborazione dello statuto “ontologico ed epistemologico”, e perciò anche metodologico, del diritto ecclesiale. Il presupposto fondamentale per cogliere dal profilo teologico lo statuto ontologico è quello di non affrontare il problema veicolando una preconcezione filosofica della nozione formale di diritto. Infatti il diritto canonico, a differenza di quello secolare, non è generato dal “dinamismo spontaneo (“biologico”) alla convivenza umana”, ma da quello specifico inerente alla natura della chiesa, la cui socialità è prodotta geneticamente dalla grazia ed è conoscibile solo attraverso la fede.
Il secondo assunto è che non si deve affrontare il problema del fenomeno giuridico ecclesiale concentrando l’attenzione su un solo aspetto particolare del mistero della chiesa, come potrebbero essere “l’atto di fondazione” di Cristo, le categorie “popolo di Dio” e “corpo mistico”, la parola e il sacramento. Secondo Rouco Varela bisogna procedere progressivamente tenendo conto di tutti i nessi essenziali da cui è costituito il mistero della chiesa. Il primo momento chiave è la definizione della chiesa come “popolo di Dio”, non perché questa categoria teologica debba offrire ancora una volta la possibilità di giustificare l’esistenza del diritto ecclesiale facendo ricorso al principio giusnaturalistico ubi societas ibi et ius, ma perché essa costringe a dare un significato antropologico alla nozione “diritto” e permette di evitare lo scoglio della spiritualizzazione ad oltranza del ius divinum, contro il quale è naufragata sistematicamente la teologia protestante, da Lutero agli autori moderni che hanno cercato un aggancio teologico diretto nelle categorie trascendentali della cristologia e del mistero della Trinità. Il fatto che la chiesa, oltre ad essere “popolo di Dio”, é anche “corpo mistico di Cristo”, offre d’altra parte l’orizzonte cristologico necessario per qualificare la socialità e la visibilità della chiesa non a partire da parametri secolari – come aveva fatto il Bellarmino paragonando la visibilità delle chiesa a quella della repubblica di Venezia – ma dalla struttura del sacramento. La visibilità della chiesa è di natura sacramentale. In terzo luogo bisogna tener conto del fatto che la chiesa è una comunità fondata sulla parola e sul sacramento la cui forza vincolante ultima non è rivolta solo all’homo interior ma a tutta la realtà antropologica, interna ed esterna, della persona umana. Rouco Varela sottolinea da ultimo come non si possa prescindere, nella valutazione della giuridicità della chiesa, dal principio della successione apostolica in quanto garanzia dell’autenticità attuale dell’intimazione canonica della chiesa. Ne consegue che lo “statuto ontologico” del diritto canonico deve essere determinato a partire dalla funzione che esso ha di “esprimere nella linea dell’incarnazione” la dimensione attraverso la quale la chiesa si compromette in modo vincolante sociale e comunitario come “sacramento della salvezza in Cristo”, oppure in quella di essere “la dimensione strutturale implicita nella comunione ecclesiale”.
Il pregio dell’elaborazione di Rouco Varela, rispetto a quella del Mörsdorf, da cui riprende lo spunto metodologico centrale, è duplice: in primo luogo sta nell’aver esplicitato con estrema stringenza lostatus quaestionis al quale la teologia del diritto canonico deve oggi dare una risposta. Non si tratta infatti di sapere solo se la chiesa “tollera il diritto come elemento determinante della sua vita o se essa vi possa acconsentire per ragioni storiche più o meno congiunturali”, oppure se essa ne abbia bisogno “per necessità propria interna in quanto comunità che vive una condizione umana, o a causa del peccato”. Si tratta di sapere invece se la “chiesa come tale, a partire da ciò da cui è costituita positivamente, ha bisogno del diritto per necessità interna, vale a dire per essere se stessa in quanto sacramento della salvezza cristiana che vive nel soffio dello Spirito santo nella fede, speranza e carità”. Il secondo pregio è senza dubbio quello di aver tentato di allargare la prospettiva della riflessione a tutto il mistero della salvezza, così come si concretizza nella chiesa che ne è la modalità definitiva.
Tenendo conto del fatto che l’autore si ripropone di tornare sull’argomento in modo più analitico, ci sembra opportuno sottolineare fin d’ora che un elenco degli elementi costitutivi dello statuto ontologico del diritto canonico (popolo di Dio, corpo mistico, ecc.) richiede una valutazione circostanziata del “peso specifico” teologico che ciascuno possiede nel processo di fondazione della forza vincolante formale del fenomeno giuridico ecclesiale. In particolare ci sembra che il principio formale della “successione apostolica” presupponga l’esistenza della parola e del sacramento. La chiesa non è vincolante giuridicamente in forza della successione apostolica – cui possono rifarsi, sia pure con criteri diversi, anche le chiese protestanti ed eventualmente anche certe comunità ecclesiali carismatiche – se non nel senso che essa garantisce l’autenticità dell’intimazione giuridica ontologicamente già radicata nelle struttura fondamentalmente sacramentale della chiesa.
b) Concludendo, si possono fare le seguenti considerazioni. L’analisi dell’“iter” metodologico seguito dalla canonistica cattolica, dalla metà del XVII sec. fino ad oggi, nell’elaborare i presupposti dottrinali necessari per fondare in sede teologica l’esistenza del diritto ecclesiale, mostra chiaramente come ogni tentativo sia rimasto incompiuto nella misura in cui non è riuscito a stabilire uno “statuto teologico” preciso del diritto canonico. Il magistero stesso ha di recente dato l’indicazione che la problematica della fondazione teologica del diritto ecclesiale deve essere affrontata all’interno di un orizzonte globale, quello cioè di una teologia del diritto canonico (L’Osservatore Romano, 1973, n. 213). La mancanza d’una teologia del diritto canonico che sappia già oggi fissare con precisione lo statuto ontologico ed epistemologico – e di conseguenza la metodologia propria alla scienza canonistica – elaborando una definizione formale del diritto ecclesiale, avrà del resto come conseguenza inevitabile quella di rendere “a priori” solo interlocutoria l’attuale riforma del CIC. In effetti si tratta di superare il preconcetto metodologico da cui è nata polemicamente la formula medievale: “Legista sine canonibus parum, canonista sine legibus nihil valet”. Essa riflette l’orizzonte culturale proprio al regime di cristianità in cui la funzione del diritto canonico non si limitava all’ambito ecclesiastico ma si estendeva anche a quello secolare, poiché aveva la pretesa di possedere un valore normativo universale.
In mancanza di una definizione teologica positiva del diritto canonico rimane utile il ricorso all’analogia implicita nella formula che definisce il diritto canonico come un diritto sui generis. Se l’analogia rivela prima di tutto l’esistenza di una radicale diversità qualitativa tra il diritto canonico e quello statuale, essa non implica affatto una negazione del valore normativo-vincolante dello stesso, cioè della sua giuridicità. Infatti gli stessi dati ecclesiologici che portano a sostenere la peculiarità teologica del diritto canonico costringono anche a riconoscere il suo carattere giuridico. La “teologizzazione” o “sacramentalizzazione” del diritto canonico non portano alla sua “de-giuridizzazione”, poiché la normatività che emerge dalla chiesa – evidenziata dall’istituto della scomunica – sono indici inequivocabili di un’autentica giuridicità, cioè dell’esistenza di un’intimazione vincolante per i rapporti intersoggettivi dei cristiani nei confronti dell’autorità ecclesiale e tra loro. Non esiste infatti realtà più fortemente vincolante e imperativa del fatto che Dio si manifesti agli uomini attraverso la concretezza storica della chiesa. Attribuire alla realtà della chiesa forza formale giuridica non significa tentare solo un’approssimazione concettuale umana, ma intensificare ed assolutizzare la normatività del diritto ecclesiale – almeno nei suoi elementi fondanti – rispetto a quello statuale. Il diritto canonico ha una forza vincolante tanto più grande rispetto a1 diritto secolare quanto più è profondamente radicato nella normatività delius divinum, non primariamente naturale ma positivo, cioè della rivelazione. È infatti un diritto che a differenza di quello secolare non ha la pretesa di domandare un’obbedienza a livello solo etico, ma a quello del destino ultimo e soprannaturale dell’uomo, la salvezza. Esso é perciò analogico, cioè diverso da quello secolare, in tutta la totalità dei suoi elementi, non solo in quanto realtà teologica ma anche giuridica. Allo stesso modo che la sua realtà teologica è anche giuridica, così la sua realtà giuridica è anche teologica senza possibilità di dicotomia. Ciò significa che la realtà teologica non si contrappone tanto alla realtà giuridica in quanto tale, quanto ad una realtà giuridica che pretendesse di essere solo antropologico-razionale. Ogni dicotomia apre le porte al vizio di metodo che travaglia la scienza canonistica: quello cioè di credere che dopo aver dimostrato l’esistenza di uno statuto teologico del diritto canonico sia ancora possibile trattarlo dal profilo giuridico come realtà secolare. La scienza canonistica deve applicare con rigore il metodo teologico, lasciando a quello giuridico – così come è stato elaborato dalla scienza giuridica moderna – il ruolo di disciplina solo ausiliare, poiché il nesso tra il diritto divino e quello canonico-umano può essere stabilito soltanto all’interno della logica e della metodologia proprie alla fede.
I1 fine ultimo dell’ordinamento canonico non è semplicemente quello di garantire il bonum commune ecclesiae, ma di realizzare la communio. Essa infatti è la modalità specifica con la quale, all’interno della comunità ecclesiale, diventano giuridicamente vincolanti sia i rapporti intersoggettivi, sia quelli esistenti ad un livello più strutturale tra le chiese particolari e quella universale. La realtà della communio ha perciò una forza vincolante che supera i limiti tendenzialmente solo mistici della sobornost orientale. Ne consegue che il principio della communio deve essere considerato come il principio formale del diritto canonico, cioè della nova lex evangelii, a partire dalla quale deve essere declinata sia a livello formale che materiale la struttura giuridica degli istituti canonici. La certezza giuridica ultima dell’ordinamento canonico non è infatti garantita dalla. littera legis in se stessa, come negli ordinamenti statuali, dove l’epicheia giuridica non è possibile, ma dalla communio che la informa. Non si può più perciò parlare di certezza giuridica nel sistema canonico se non per analogia; anzi, se il punto di riferimento fossero gli ordinamenti statuali moderni, la si deve negare.
La diversità radicale esistente tra il bonum commune ecclesiae – inteso filosoficamente – e lacommunio, in quanto realtà teologica fondata nella rivelazione, è qualitativa, come qualitativo è lo scarto esistente nell’analogia tra la lex Moysis e lanova lex evangelii, cioè la grazia. Esso é creato dal fatto che la grazia, “incarnandosi” ontologicamente nell’uomo, lo inserisce in un rapporto nuovo con Dio e con gli altri uomini: quello della comunione.
Essa è perciò la modalità nuova, specificamente ecclesiale, dell’esistenza del ius divinum in quanto radice di una socialità visibile diversa da ogni forma di socialità solo umana, ma tanto più vincolante, a livello non solo etico ma anche strutturale, perché ha la pretesa di mediare, incarnandola attraverso l’istituzione “chiesa”, la salvezza, cioè la giustizia di Dio.
Bibliografia
I. La teologia ortodossa
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II. La teologia protestante
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