1. Esperienza fenomenologica
2. L’unità del diritto nel pensiero filosofico-teologico cristiano
1. Premesse nella filosofia greco-romana
2. Recezione eclettica della filosofia greco-romana nella patristica
3. Sovrapposizione tra diritto divino e naturale fino alla scolastica.
4. L’unità del diritto nella distinzione tra natura e soprannatura in S. Tommaso.
5. La volontà divina fonte unica dell’unità del diritto nell’occamismo.
6. La razionalità fonte ultima dell’unità del diritto nell’intellettualismo.
7. La sintesi del pensiero cristiano attorno alla formula suaresiana:
“ius divinum, sive naturale, sive positivum”.
3. L’unità del diritto secolare e canonico nella teologia protestante
1. Gli orizzonti culturali.
2. La rottura tra diritto divino e umano in Lutero.
3. Il monismo giuridico di Sohm e la negazione del diritto canonico.
4. L’unità tra diritto divino e secolare nella cristocrazia barthiana.
5. L’unità tra diritto divino e canonico nella teologia protestante moderna.
4. L’unità tra diritto divino e canonico nella teologia cattolica
1. Dualismo tra diritto naturale e divino positivo nella dottrina della “elevazione” al soprannaturale. 2. Necessità e unità del diritto divino e canonico nella tematica “Legge e Grazia”.
3. Incarnazione e sacramento come “loci theologici” dell’unità e della natura del diritto canonico.
Bibliografia
1. Esperienza fenomenologica
Il diritto è percepito dall’esperienza umana come una realtà esterna, che limita la libertà e l’autonomia della persona rendendo presente nella concretezza del quotidiano la forza coercitiva di un sistema di potere organizzato. Esso appare perciò come una realtà manipolabile, determinata dall’arbitrio di gruppi di potere e di ideologie diversi, che esprime sovente l’intolleranza di volontà imperative legate a interessi particolari. Sotto il profilo fenomenologico il diritto si manifesta inoltre come una realtà non unitaria, le cui norme, di provenienza corporativistica o statuale, religiosa o mondana, nazionale o internazionale, dettate dalla legge o dalla consuetudine, oltre ad essere sovente eterogenee, possono anche rivelarsi antinomiche.
Parallelamente a questa esperienza negativa l’uomo ne vive una positiva, poiché il diritto si rivela ultimamente lo strumento indispensabile per imporre agli altri certi limiti di convivenza a garanzia dell’ordine e della pace. Si dimostra perciò fattore sociale di primaria importanza che permette all’individuo e alla collettività di pianificare con fiducia il proprio futuro, protetto dalla continuità e dalla sicurezza giuridica. La legge è perciò colta come elemento di equilibrio e non solo come espressione di una volontà eteronoma, per cui il fatto giuridico non è vissuto soltanto come espressione dell’arbitrio del più forte, ma anche di una giustizia superiore che trascende gli interessi individuali.
Il sovrapporsi di elementi negativi e positivi spiega perché il diritto si riveli un’esperienza paradossale (Erik Wolf), i cui valori apparentemente contraddittori, sono inscindibili tra di loro. Se gli elementi negativi di questa esperienza primordiale hanno suscitato a scadenze ricorrenti il fenomeno sociopolitico dell’anarchia, l’esperienza degli aspetti positivi ha avuto come esito costante quello di rendere l’anarchia fenomeno sporadico, contenendola entro i limiti insuperabili della sua dinamica utopica e ad absurdum.
Anche l’esperienza del diritto canonico pone il cristiano in una situazione paradossale (Rouco Varela). La confessione della fede, che provoca l’uomo al fondo della sua libertà personale, è legata al rispetto della norma canonica; il diritto divino, manifestato altresì dalla profezia e dal carisma, può assumere concretezza storica solo soggiacendo all’interpretazione e alla positivizzazione del diritto umano. Pur essendo il diritto del Corpo Mistico, esso assume forme corporativistiche o statuali spesso incapaci di cogliere la natura della comunione ecclesiale nella sua verità teologica ultima. È un diritto dell’amore e dell’istituzione, della libertà e della legge, della giustizia di Dio e di quella degli uomini, insomma del Vangelo e della Legge. Il termine “canonico” evoca sovente l’idea di conformismo; quello di “continuità o sicurezza giuridica” l’idea di conservazione dello status quo, cosicché la legge appare spesso come l’ostacolo più ingombrante per il dinamico manifestarsi del carisma e dello Spirito e di conseguenza come impedimento per una missionarietà della chiesa atta a cogliere con puntualità i mutamenti e i nessi della vita socio-culturale a cui si rivolge.
Benché immediatamente meno clamorosi, gli elementi positivi dell’esperienza “canonica” risultano fondamentali per l’esperienza cristiana sia a livello individuale che a livello comunitario. Infatti la disciplina garantisce l’unità del simbolo della fede, del sacramento, della predicazione della Parola e della costituzione ecclesiale. L’oggettività dell’esperienza ecclesiale è garantita dal fatto che la disciplina canonica educa e costringe i singoli cristiani e le singole chiese particolari a superare la tentazione dell’individualismo; fa scoprire il valore insopprimibile della fedeltà alla comunione per il realizzarsi della chiesa. La possibilità che lo Spirito del Signore possa manifestarsi attraverso carismi slegati da ogni vincolo oggettivo si rivela utopica.
La paradossalità dell’esperienza canonica ha dato esca nella storia a tutti i movimenti spiritualistici (montanista, cataro, francescano e ussista) che hanno anticipato le tensioni esplose poi con la riforma protestante. Quest’ultima, lasciatasi coinvolgere dalla medesima tentazione spiritualistica si è presto disarticolata in una moltitudine di sette, incapaci spesso di garantire l’oggettività propria di una realtà pienamente ecclesiale.
Il conflitto tra il relativo e l’assoluto, il contingente e il trascendente, il particolare e l’universale, la storia e l’escatologia, hanno caratterizzato l’esperienza giuridica sia secolare che canonica. Era dunque inevitabile che questa esperienza umana paradossale, per la sua eterogeneità, stimolasse la riflessione filosofica e teologica a interrogarsi sul problema della natura, origine e unità intrinseca del fenomeno giuridico. Quello dell’unità del diritto, pertanto, è diventato il problema centrale della filosofia cristiana del diritto e della teologia del diritto canonico.
A questo punto una domanda viene spontanea. Esiste un nesso di dipendenza ontologica tra le norme umane, contingenti e mutevoli ed una forma superiore di diritto naturale o divino, che le trascenda e le giustifichi?
2. L’unità del diritto nel pensiero filosofico-teologico cristiano
1. Premesse nella filosofia greco-romana
Il bisogno di trovare una spiegazione unitaria del fenomeno giuridico è emerso nella coscienza del popolo greco molto prima del secolo VI. All’interno di un mondo culturale di tipo mitologico-sacrale e aristocratico il problema è stato risolto accettando l’idea dell’unicità del diritto. La legge (themis) è intesa da Omero come decreto sacro, rivelato dagli dei ai re ed alla classe superiore, con il compito di custodirlo. Anche quando ad essa viene progressivamente affiancata una legislazione propriamente umana, la giustizia (dike) continua ancora ad essere prevalentemente uno strumento soprannaturale della divinità più che una realtà umana.
Nella visone mitologico-poetica di Esiodo, quando i giudici emettono sentenze ingiuste, Dike, figlia di Zeus, va a sedere piangendo presso il padre per raccontagli i pensieri iniqui degli uomini.
L’idea dell’esistenza di un fondamento assoluto delle leggi positive, come problema specifico del rapporto di dipendenza della legge positiva statuale da norme superiori, si precisa per la prima volta nella tragedia greca del secolo V. Nell’Antigone di Sofocle (ca. 405), l’eroina accetta la morte piuttosto che disobbedire alle “leggi non scritte”, superiori e divine, eterne ed immutabili. Da sempre gli assertori dell’esistenza di un fondamento assoluto e supremo delle leggi umane hanno ravvisato in questa visione poetica il primo esempio dell’emergere nel popolo greco della coscienza di un “diritto naturale” (Fassò).
Prescindendo dalla questione se la filosofia presocratica abbia operato una trasposizione dall’ordine cosmico a quello sociale e giuridico (Verdross), oppure, al contrario, dall’esperienza etico-politica propria dell’uomo all’ordine dell’universo fisico, concepito talvolta addirittura come ordine “democratico” (isonomia), bisogna prendere atto che la sua preoccupazione di fondo fu sempre quella di stabilire perlomeno un nesso tra i due ordini, anche quando il problema specifico della loro dipendenza intrinseca, cioè dell’unità del diritto, non era ancora esplicitamente emerso.
Questa preoccupazione è già presente in Parmenide (prima metà del secolo V), là dove afferma che non esiste solo una necessità assoluta della realtà cosmica di essere sempre uguale a se stessa, ma anche un “dover essere” etico-giuridico a livello dei rapporti sociali. La stessa preoccupazione di trovare un principio unificatore tra tutti gli ordini della realtà, domina il pensiero di Pitagora (n. ca. 582), per il quale sia l’ordine armonico del mondo fisico, sia la virtù della giustizia sono retti dal rapporto matematico, dunque da un unico principio di natura razionale (Steffes).
Eraclito (n. ca. 500) accusa Omero ed Esiodo di aver antropomorfizzato la divinità e polemizza con Pitagora contrapponendogli l’esperienza di un mondo visibile impegnato in una lotta di tutti gli esseri, continua e spietata (polemos). Evita però di dissolvere , come faranno Democrito ed Epicuro, la realtà visibile in un fatto di aggregazione accidentale privo di ordine provvidenziale o razionale, sostenendo che dietro la realtà degli esseri, continuamente fluida nel suo divenire, esiste un’armonia nascosta. E’ un’armonia garantita dal logos eterno che per Eraclito si identifica panteisticamente con Dio o almeno con un’emanazione di esso (Verdross).Questa ragione universale essendo principio ordinatore di tutta la realtà cosmica è fondamento anche della convivenza umana. Infatti non esiste un regno autonomo della giustizia, essendo le leggi umane (nomoi) comprese in un’armonia che le inserisce in un’unità superiore: “Tutte le leggi umane si nutrono di un’unica legge divina” (Fr. 114). Eraclito tuttavia non precisa la natura intrinseca del nesso che unifica la realtà visibile e quella nascosta, se non affermando che l’uomo può cogliere il logos divino, sostanza e principio di tutta la realtà, nel profondo della sua psiche, e questo grazie alla filosofia con la quale “passa dal sonno alla veglia”.
a) L’unità del diritto attorno al concetto stoico di natura
Il primo grande spostamento dalla realtà oggettiva a quella soggettiva si sviluppa dopo l’avvento di Alessandro Magno († 323) e l’evolvere della civiltà greca fondata sulla polis verso il cosmopolitismo ellenistico, dove l’individuo, diventato estraneo all’impegno etico-politico globale della città-stato, abbraccia un ideale di vita più tranquilla e serena (ataraxia) (Fassò). In sintonia con questa nuova situazione culturale, Epicuro († 270) erige la “vera natura dell’uomo” – costituita dall’istinto del piacere, del potere e dall’individualismo – a fondamento di tutto il pensiero filosofico. Il “giusto naturale” non è più cercato in una realtà autonoma ed esteriore rispetto all’uomo, ma in ciò che gli uomini decidono contrattualisticamente in funzione del loro utile. Questa spinta soggettivistica, che potrebbe sfociare in un positivismo disgregatore, non è ancora tale da rompere l’unità del diritto, poiché le leggi umane esigono, per loro necessità intrinseca, di essere elaborate utilitaristicamente in funzione della “vera natura dell’uomo” in quanto realtà oggettiva (Flückiger).
Con lo stoicismo, che introduce un nuovo elemento di natura psicologica, la filosofia greca si stacca ulteriormente dall’impostazione oggettivistica tradizionale. Il senso del giusto e dell’ingiusto non è più considerato una predisposizione istintiva, come in Epicuro, bensì razionale e innata nell’uomo. La massima di Zenone († 264) “vivere in conformità con se stessi”, o “con la natura” (Cleante † 223), ha dato corpo a questa nuova corrente filosofica (Welzel). La predisposizione razionale dell’uomo coincide con la natura, o legge universale e necessaria che regola il cosmo, la quale a sua volta si identifica panteisticamente con la divinità che compenetra il mondo con forze corrispondenti ai diversi ordini: quello organico con la physis, quello animale con la psyche, quello umano con il logos (Stiegler). Nella propria natura razionale l’uomo trova già preordinate la norma morale e quella giuridica. Benché l’unità del diritto sia formalmente salvata dall’affermazione che il diritto umano deve essere una traduzione positiva della ragione universale, essa resta ultimamente astratta ed estrinseca, poiché la ragione universale non impone né esige l’abolizione delle diversità socio-giuridiche esistenti tra gli uomini. Indipendentemente dal suo statuto politico concreto, l’uomo sa infatti di esser membro di un regno spirituale che non gli può esse strappato (Verdross).
Con Crisippo († 207) fa la sua apparizione un concetto di legge (nomos) che sembra essere superiore al logos eraclitiano. È la ragione universale che guida il corso di tutte le cose – e perciò anche quelle divine – con la stessa logica di ferrea necessità propria del destino, con il quale si identifica. Essa sembra inserirsi come terza forma di diritto nel tradizionale binomio della filosofia greca, legge naturale (o divina) e legge positiva, da Crisippo chiamata non più nomos ma thesis.
Questa trilogia ancora confusa, che forse era già affiorata in Aristotele, si articola più chiaramente nella dottrina della lex aeterna di Cicerone († 43 d.C.). È dalla retta ragione divina che dipendono sia la legge della natura, preposta agli essere irrazionali, sia quella etico-giuridica (o diritto naturale) che ordine il bene e il male. Questa legge etico-giuridica non esiste solo nello spirito divino, ma si manifesta pure nella ragione umana, la quale non conosce il diritto empiricamente a partire dal quello pisitivo, ma nella natura dell’uomo. Malgrado la sua valenza panteistica, la dottrina della lex aeterna ha potuto essere recepita, per la sua intrinseca unità e dopo essere stata filtrata da Lattanzio e S. Agostino, nel sistema teistico cristiano (Fassò), proteso a stabilire un nesso di dipendenza ontologica tra il ius divinum, il ius naturale e quellohumanum.
Il fascino esercitato dalla lex aeterna ha spinto Seneca († 65 d.C.) ad affermare che anche il fondatore e reggitore dell’universo è sottomesso alla legge superiore della necessità razionale, creando così quel dilemma tra verità delle cose e libertà di Dio che oltre un millennio più tardi diventerà il contenuto della contrapposizione tra volontarismo e intellettualismo (Stiegler).
Mentre in Grecia il problema del diritto, affrontato generalmente all’interno dell’etica, era rimasto feudo dei filosofi, a Roma, dove la giurisprudenza e l’elaborazione dottrinale del diritto raggiunse apici di grandissima perfezione, divenne la prerogativa dei giuristi che subirono soprattutto l’influsso dello stoicismo.
Al posto del tradizionale binomio physis-nomos, già sconvolto dalla lex aeterna ciceroniana, subentra in epoca tardiva la trilogia ius naturale, ius gentium e ius civile. Il ius naturale definito a volte con criteri razionalistici come da Paolo (secolo III), a volte con criteri naturalistici come da Ulpiano († 228), non è più ora considerato come un diritto assoluto ed estratto posto fuori della storia, come aveva fatto il giusnaturalismo greco, sofista e stoico, ma come diritto effettivamente esistente e praticato dai popoli e non legato a presupposti metafisici assoluti (Fassò). Definendo il ius gentium, in quanto viene applicato presso tutti i popoli, come diritto che “la ragione naturale stabilisce per tutti gli uomini”, Gaio (secolo II) ha istituito un parallelismo con il diritto naturale, che per lo stoicismo stava ad indicare una norma dettata dalla ragione.
Fu pertanto inevitabile che ius naturale e ius gentium venissero sempre più sovente confusi l’uno con l’altro fino a quando Giustiniano († 565), nelle Istitutiones stabilì tra i due un’identità perfetta.
Anche il problema dell’unità del diritto venne posto dai romani in termini non filosofici ma concreti e pragmatici. Infatti il diritto naturale non è mai contrapposto al ius gentium o a quello civile(prerogativa di ciascuno Stato) come ideale o limite della loro validità, perché tutti e tre coincidono nell’essere una forma di diritto storico-positivo. L’aequitas romana consiste perciò in una applicazione del diritto a partire da principi che , essendo razionali e avendo come punto di riferimento la natura razionale dell’uomo, non trascendono, ma rimangono immanenti al fenomeno giuridico stesso (Fedele).
Ulpiano, applicando i parametri propri alla filosofia stoica definisce la iurisprudentia come conoscenza delle cose umane e divine, scienza del giusto e dell’ingiusto.
b) Eterogeneità del diritto nel pluralismo sofista
Le difficoltà incontrate dalla filosofia greca nel tentativo di garantire in modo ontologicamente indissolubile l’unità del diritto a partire dal concetto centrale di natura (physis), sono documentate dal dilagare, dal secolo V in poi, della sofistica, che, malgrado le sue contraddizioni interne, ha come denominatore comune il fatto di affrontare epistemologicamente la realtà con un criticismo razionale paragonabile a quello dell’illuminismo europeo moderno (Hegel). La sua culla culturale è la democrazia ateniese il cui presupposto era una grande fiducia nella ragione e la conseguente fondazione razionale ed umanistica di tutti i valori. La retorica, che non è solo l’arte di discutere e persuadere l’assemblea dei cittadini – cui incombe il dovere di elaborare l’ordine positivo dello Stato – ma anche strumento per far prevalere una determinata opinione facendola apparire come vera, sacrifica i valori assoluti ed universali (Fassò). Sottoponendo per la prima volta non solo singole leggi particolari, ma tutto l’ordinamento giuridico dello Stato al proprio criticismo razionale, la sofistica ha clamorosamente provocato la rottura – laddove la tensione era sempre stata latente – tra l’ordine della natura e quello giuridico positivo dello Stato. Da allora la contrapposizione tra natura e legge, tra giusto per natura e giusto per legge – che troverà un’analogia a livello teologico nella tematica di Lutero “Legge e Vangelo” – ha polarizzato l’attenzione della filosofia del diritto.
Contrariamente ad Eraclito e a Pitagora, come alla filosofia oggettivistica tradizionale, preoccupata di stabilire un nesso o almeno una convergenza tra i due ordini, i sofisti hanno ripreso in termini filosofici il problema, emerso nell’Antigone di Sofocle, della validità delle leggi positive contrarie a quelle “non scritte”, divine o naturali. Essi non si sono limitati ad opporre il “giusto per natura” al “giusto per legge”, proponendo soluzioni o relativiste o giusnaturaliste, ma nono giunti talvolta ad opporre il secondo al primo dando esca ad una prima forma di positivismo giuridico (Verdross).
Un relativismo fondato sul principio homo-mensura ha avuto Protagora († 411) come maestro. L’uomo è la misura di tutti i valori, non tanto come singolo o come genere umano, quanto nel senso che l’opinione dell’assemblea dei cittadini, riformabile nel tempo, fu considerata come l’unico criterio di validità del diritto positivo. Non essendoci più spazio per un diritto divino o uno naturale, l’esito sarebbe stato quello di un radicale positivismo se Protagora non avesse temperato la sua dottrina con un elemento capace di garantire un residuo di unità oggettiva. Infatti egli considera il senso della giustizia comune (ethos) alla coscienza di tutti gli uomini, come patrimonio che se non permette di declinare norme positive univoche, accettabili da tutti, permette di creare, con l’aiuto dei retori più saggi, perlomeno il diritto migliore.
Solo occasionalmente la sofistica è giunta a soluzioni di sicura estrazione positivistica, identificando il diritto umano con la giustizia. Trasimaco fu, al dire di Platone, tra coloro che hanno stabilito un equipollenza tra la legge e la giustizia, mentre Archelao (secolo V-VI), che non fu di scuola sofistica, ha dato la prima enunciazione precisa del positivismo giuridico – articolato in sistema dottrinale solo nell’epoca moderna -, sostenendo che non esiste un “giusto per natura” ma soltanto un “giusto per legge”.
Se nella concezione religioso-mitologica, essenzialmente volontaristica, si è cercato di garantire l’unità del diritto affermandone l’unicità, cioè considerando il diritto divino o naturale e umano, come realtà globale unica, nel positivismo si è cercato l’unità in modo ancora più formale ed estrinseco affermando l’unicità del diritto positivo che, essendo fondato soltanto sulla volontà del legislatore umano, non poteva sfuggire alla logica, piena di contraddizioni, del proprio pluralismo interno.
La corrente sofistica giusnaturalista, opposta a quella relativista e positivista, ha come capostipite Ippia (n. ca. 460). Alla precarietà del diritto umano Ippia oppone l’esistenza di leggi “non scritte”, rifiutando di mettere sullo stesso piano ciò che è giusto (dikaion) e ciò che è conforme alla legge positiva (nomimon). All’interno di questa corrente il diritto naturale è concepito a volte in modo naturalistico, come nell’attribuzione fatta da Platone a Callicle nel dialogo Gorgia, dove i1 diritto di natura è identificato con il diritto del più forte, per cui le leggi che cercano di neutralizzarlo essendo contrarie alla natura sono ingiuste; a volte, invece, in modo razionalistico, cioè come espressione della ragione umana. In questa versione che rappresenta l’apice della formulazione data dalla filosofia greca presocratica, il diritto naturale non è più considerato come una realtà oggettiva comune a tutti gli esseri e perciò esteriore anche all’uomo, bensì come norma che l’uomo attinge dalla propria essenza razionale (Fassò).
In Ippia come in Alcidamante (n. ca. 350) il diritto positivo, considerato ormai come frutto esclusivo dell’arbitrio umano, è criticato a partire da un diritto naturale (tendenzialmente anche cosmopolitico), che nella sua astrattezza era però spesso il risultato di un ideale soggettivo dei singoli filosofi. Non essendo riuscita né a chiarire il concetto formale di diritto, né a dedurne contenuti oggettivi validi per tutti, la sofistica ha finito per confondere il diritto naturale con un diritto ideale ed utopico, ultimamente incapace di stabilire un nesso d’unità ontologica con il diritto positivo umano (Verdross).
c) Fondamento metafisico dell’unità del diritto nelle sintesi di Platone e Aristotele
Rispetto ai sofisti suoi contemporanei, che avevano invano cercato di risolvere l’antitesi physis-nomos stabilendo o un rapporto di dipendenza meccanico tra l’ordine della natura fisica e quello giuridico oppure una dipendenza più intrinseca, ma ancora astratta, come nella versione del giusnaturalismo razionalista, Socrate († 399) ha fatto un passo avanti creando un nesso tra morale e diritto. Sottomettendosi alla ingiusta sentenza che lo condannava a morte egli ha voluto dimostrativamente riaffermare l’autorità dello Stato, minato dalla critica distruttiva dei sofisti. Con questo gesto, tuttavia, Socrate non intendeva affatto sostenere la priorità assoluta della legge positiva – anche se ingiusta – sul diritto naturale, né appellarsi al diritto naturale contro di essa. Egli voleva soltanto affermare che l’obbedienza alla legge positiva non si fonda sull’autorità oggettiva e intrinseca della stessa, che le deriverebbe da una sua presunta corrispondenza con un diritto naturale sofisticamente inteso come realtà astratta e astorica posta al di sopra dell’uomo. La legge comprende e investe infatti anche la dimensione morale dell’uomo, con i doveri che ne possono derivare in una determinata situazione storica, come quello della riconoscenza verso lo Stato ateniese o quello della solidarietà imposta dal fatto di avere contrattualisticamente accettato l’ordine democratico.
Con Platone e Aristotele il problema del diritto è stato definitivamente spostato non solo dall’ordine fisico a quello razionale e morale, ma a quello più propriamente metafisico (Stiegler).
Platone († 247) costruisce la sua metafisica sull’identificazione dell’idea trascendente del bene con l’essere. Le singole cose partecipano in modo precario e imperfetto (come “tracce”) all’essere assoluto delle idee o essenze trascendenti.
Il sistema non si risolve in un puro dualismo estrinsecistico, da una parte perché, se nelle cose sensibili non è immanente l’idea, lo è almeno il fine (telos), cioè la tensione verso l’idea trascendente; dall’altra, perché Platone, facendo un’opzione volontarista, afferma nel Timeo, che il Demiurgo, o Dio, ha voluto che il mondo determinato dalle idee fosse il più possibile simile a lui (Verdross). La natura è per Platone la vera essenza ideale e superindividuale che trascende laphysis sensibile. Il giusto e la giustizia non sono costituiti dalle singole decisioni storiche, ma dalla natura metafisica dell’idea trascendente di diritto, la quale comprende quella di giustizia, di politica e di etica. Esiste perciò in ultima analisi solo un unico vero diritto, poiché ogni realizzazione naturale e positiva, pur rapportandosi necessariamente, per essere vera, con l’idea trascendente, rappresenta solo un’imitazione e una traccia dell’archetipo.
Benché nel sistema filosofico di Platone non venga riservata molta attenzione al diritto, il problema dell’unità dello stesso vi trova una soluzione molto organica. Infatti non può esistere contraddizione tra il diritto positivo (nomos) o naturale (physis) e l’idea trascendente di giustizia, poiché la legge positiva è vera solo nella misura in cui è conforme al diritto naturale fondato nella natura razionale dell’uomo. La natura razionale dell’uomo, d’altra parte, è un riflesso dell’idea trascendente di giustizia, derivata a sua volta dall’idea di bene. Questa posizione di fondo, astratta e prevalentemente etica come quella di Socrate, spiega come Platone abbia potuto dedurre a priori, per reminiscenza innata delle essenze intelligibili, la propria concezione di Stato, senza riguardo alcuno all’esperienza storica e come abbia potuto attribuire alla legge, più che una funzione giuridica, un compito prevalentemente di natura etico-pedagogica (Fassò).
Il pericolo dualistico-estrinsecista presente nel sistema di Platone (che aveva arrischiato di dissolvere gli esseri visibili in una realtà inconsistente) è stato superato da Aristotele († 322) con l’attribuzione della realtà dell’essere – conosciuto non come in Platone per reminiscenza di nozioni già apprese in una precedente vita, ma a posteriori per la via dell’esperienza empirica elaborata concettualmente dall’intelletto – non alle idee universali e trascendenti (universalia ante rem), ma alla forma sostanziale immanente alle singole cose (universalia in re). Per conseguenza esistono realmente solo gli enti singoli. La forma che determina i singoli enti facendoli passare dalla potenza all’atto è, nella sua immanenza agli stessi, l’idea che li spinge verso il loro fine (entelèchia). Solo nel raggiungimento di questo fine gli esseri realizzano la loro vera natura e gli uomini la moralità della loro esistenza. Tuttavia gli esseri non realizzano pienamente il fine loro proprio che tendendo contemporaneamente verso la loro causa finale ultima. Malgrado che l’atto puro (Dio) sia l’atto propriamente causante il passaggio, negli enti composti, della potenza da un atto all’altro, manca in Aristotele il concetto di creazione, per cui egli, meno coerentemente di Platone (Verdross), non dice da dove le idee o forme provengano. Ciò avrebbe introdotto il concetto ebraico-cristiano di creazione. Dato che il perfetto precede l’imperfetto e che Dio in quanto realtà eterna non composta di materia ha la pienezza dell’essere e pensa solo se stesso, egli vede in se stesso anche le forme.
Nel quadro di questo sistema fondato sull’unità tra causa efficiente e finale si pone anche il problema del diritto (Welzel). La giustizia è una virtù essenzialmente sociale, fondata sulla relazione di eguaglianza o proporzione ad alterum. Non è più come in Platone la virtù morale totale, perfezione dell’anima; di conseguenza per Aristotele lo Stato non si costituisce come modello di un ideale assoluto di giustizia, bensì come realizzazione di un ordine non tanto morale, ma giuridico, atto ad assicurare le condizioni per l’avverarsi del bene comune. Conseguentemente il problema non è quello della forza etico-pedagogica della legge, ma quello di educare i cittadini alla legge su cui si fonda lo Stato (Fassò). All’interno del diritto pubblico Aristotele distingue un diritto naturale ed uno positivo. Il primo è valido ovunque, indipendentemente dal fatto che sia o meno conosciuto ed è dedotto dalla natura razionale dell’uomo; il secondo è fondato invece sulla legge positiva il cui compito specifico è quello di declinare storicamente i valori che a livello di diritto naturale sono indifferenti (bona per aliud, non bona per se). Con la distinzione tra giustizia distributiva e commutativa, nonché con quella – nella dottrina sull’imputazione penale – tra errore (iuris et facti) e ignoranza, Aristotele ha dato un grande contributo allo sviluppo della dottrina giuridica, pur senza arrivare alla definizione del concetto di diritto e all’elaborazione di una teoria generale.
Sembra che Aristotele abbia intravisto anche l’esistenza di un diritto (divino) per gli dei, di carattere positivo (Stiegler). Comunque lo Stagirita non si è pronunciato esplicitamente né sulla dipendenza interna e sull’unità di questa eventuale trilogia, né sul problema tradizionale del rapporto tra physis e nomos. Ha posto però le premesse metafisiche che solo la scolastica elaborerà compiutamente (Sauter). Nella dottrina sull’epicheia (o equità) Aristotele lascia intravvedere il rapporto esistente tra il diritto naturale e quello positivo. Il diritto naturale – di cui Aristotele non sviluppa analiticamente i contenuti – , in quanto espressione della natura razionale, essenzialmente sociale dell’uomo, esercita una funzione di norma (forma) su quello positivo, che deve essere intrinsecamente razionale. Nella dottrina dell’epicheia emerge la fondamentale differenza esistente tra Platone e Aristotele circa il modo di concepire il diritto. Il maestro, occupandosi dell’epicheia solo di striscio, la considera come corruzione o concessione misericordiosa, opposta al vero diritto, poiché, in quanto interpretazione restrittiva della legge, essa si allontana ancor di più dalla norma ideale, per sua natura generale. I1 discepolo la considera invece come emendamento positivo, poiché creando un diritto storicamente più adatto al fine specifico e concreto del singolo soggetto, realizza un diritto ancor più vero (Hamel). Di conseguenza l’epicheia è contraddittoria solo rispetto al diritto scritto (Wittmann).
Questo profondo senso della dimensione concreta e storica delle cose, che Aristotele ha in comune con Socrate e che lo ha spinto a cercare l’esistenza dell’essere non nelle idee trascendenti di Platone, ma nella loro forma individuale e concreta, oltre ad avergli fatto superare la concezione astratta e razionalistica del diritto naturale propria dei sofisti, sembra averlo parimenti indotto ha considerare il diritto naturale non come realtà assoluta e fissa, ma storicamente mutabile. Ciò spiega come Aristotele abbia potuto accettare l’istituto della schiavitù che solo lo stoicismo ha messo seriamente in discussione (Fassò).
Concludendo si deve constatare che la nozione di natura, poliedrica e inesauribile nel suo significato e nei suoi contenuti, è stato il dono imperituro della cultura greca alla filosofia occidentale del diritto. Nella sua accezione più globale essa abbraccia la totalità degli esseri, da quelli materiali e senza vita a quelli spirituali, fino ad assurgere al concetto astratto di essenza di tutte le cose. La filosofia greca se ne è impossessata per farne il fondamento di un diritto naturale (o divino) neutro – indipendente da ogni fede in un essere personale – fonte ed origine di un ordine giuridico.
In questa concezione metafisicamente aperta, sta tutta la forza dell’idea classica di natura, che dopo il superamento della crisi della sofistica – spesso però ingiustamente enfatizzata (Rommen) – e dopo la mediazione di Platone ed Aristotele, i quali in luogo della physis hanno posto come fondamento della realtà giuridica la metaphysis, è maturata a tal punto da non più essere incompatibile con l’esistenza di un diritto propriamente divino (Stiegler). L’apparizione di quest’ultimo, con l’avvento del pensiero cristiano, nella filosofia del diritto, ha rilanciato nuovamente il problema dell’unità del diritto, che i greci avevano risolto spesso solo formalmente o estrinsecamente, anche a livello del rapporto di dipendenza tra physis e nomos, cioè tra diritto naturale e positivo.
2. Recezione eclettica della filosofia greco-romana nella patristica
a) L’incontro del diritto divino positivo con il diritto naturale stoico
Il contributo più prezioso dato dal pensiero giuridico veterotestamentario è stato quello di aver presentato Dio come fonte immediata e personale del diritto. Benché la storia del popolo ebraico si estenda sull’arco di oltre un millennio, la determinazione senza compromessi e l’energia con la quale ogni norma giuridica è stata costantemente riferita a Jahvé, rappresenta un fenomeno straordinario di continuità culturale (Rapport). La legge ebraica non è più il logos eterno, immutabile e nascosto nella natura cosmica o in quella razionale dell’uomo, ma una legge rivelata da Dio come sua volontà e comando, comunicata a Mosè e ai profeti e compendiata nei dieci comandamenti.
Nella concezione ebraica non c’é posto per l’idea di un fondamento razionale del diritto (Schönfeld), e, conseguentemente, per una distinzione tra il diritto naturale e positivo. Mentre le sovrapposizioni legalistiche dei rabbini hanno offuscato il carattere essenziale e sintetico proprio della legge ebraica, l’intervento dei profeti ne ha approfondito ulteriormente il carattere religioso-sociale. Predicando la conversione del cuore e la santità hanno smantellato il ruolo della pratica esteriore provocando un’interiorizzazione della esperienza etico-giuridica (Stiegler). Questo processo di approfondimento interiore ha però eliminato ogni traccia giusnaturalistica e accentuato l’aspetto volontaristico del diritto fino ad identificare la pratica della legge con l’obbedienza alla volontà di Dio (Fassò).
L’idea dell’immediatezza divina nella produzione del diritto è ripresa nel Nuovo Testamento dove Cristo, logos eterno incarnato, è venuto per restaurare la natura (o legge) originaria, con il potere di prolungare norme etico-giuridiche vincolanti per il nuovo popolo di Dio (Lämmle). Avendo recepito e riassunto il decalogo nel precetto dell’amore di Dio e del prossimo – che ha continuato a trovare la sua formula di espressione nella “regola d’oro” – il Nuovo Testamento ha permesso il rilancio della questione di un fondamento razionale della legge positiva.
S. Paolo ha svalutato la funzione della legge – opposta alla giustizia di Dio – ma non ha negato la possibilità di una conoscenza razionale di Dio e della legge naturale (Fuchs). Di conseguenza il problema del valore razionale della legge, lungi dall’essere stato eliminato, fu inserito, agli albori del cristianesimo, nel grande tema teologico centrale del rapporto paradossale natura-grazia, carico di polarità antinomiche. Tale polarità ha subito una frattura in due direzioni opposte: prima con Pelagio e poi con la tematica “Legge e Vangelo” di Lutero.
Con il progressivo sviluppo dell’organizzazione costituzionale e disciplinare della chiesa – che ha espresso un proprio diritto canonico, affine in quanto diritto e in quanto istituzione a quello romano – e con l’affermarsi, più lento ma irreversibile, di una nuova società cristiana, il confronto filosofico-teologico con l’esperienza paradossale del fenomeno giuridico e con la cultura greco-romana divenne inevitabile. L’istintiva ripulsa dei primi movimenti antilegalistici (Marcione), spiritualistici (Montano) e millenaristici (Papia); l’innata ostilità iniziale verso lo Stato romano, pagano, ma soprattutto persecutore, e la coscienza di possedere una propria concezione soprannaturale dell’etica, hanno suscitato nei Padri della chiesa, dai primi apologisti in poi, una estrema vigilanza e criticità verso la giurisprudenza romana e la cultura filosofico-giuridica dell’antichità. Questa posizione di vigilanza è evoluta solo lentamente, man mano che l’impero recepiva l’influsso cristiano, ed è sfociata solo occasionalmente in forme di ottimismo ingenuo, come per es. in Gregorio Taumaturgo.
Sicuri della copertura dottrinale garantita da S. Paolo (Schilling), i Padri greci, più giusnaturalisti di quelli latini, finirono per recepire sia pure limitatamente e in modo eclettico, assieme a molti istituti del ius gentium e civile, anche l’idea greca di diritto naturale, dettato dalla ragione.
Evidentemente la dottrina ebraico-cristiana della creazione del mondo, tradottasi in un orientamento fortemente volontaristico del diritto, rappresentò nel processo di recezione del giusnaturalismo razionalista, ad un tempo l’ostacolo più grande ed il correttivo più efficace. L’esito fu quello di permettere a Tertulliano († dopo il 220) – che fu il primo autore cristiano ad usare il concetto di diritto naturale -, ad Origene († ca. 254), a Lattanzio († prima metà del secolo IV), a Clemente Alessandrino († ca. 216/217) e a Giovanni Crisostomo († 407) di elaborare una sintesi audace tra la concezione giudaico-sacrale e quella stoica. Tertulliano concepì la legge promulgata da Dio (l’aveva già fatto Filone Alessandrino [† ca. 50 d.C.] nel suo ebraismo ellenisticizzante) come codificazione positiva del diritto naturale. I Padri cominciarono così a distinguere un diritto naturale primario, valido prima del peccato originale, e un diritto naturale secondario, conseguente allo stesso.
La componente individualistico-stoica fu corretta dando al diritto naturale una dimensione più altruistica e sociale, mentre quella nazionalistica veterotestamentaria fu eliminata, riconoscendo, sul modello stoico del logos, una validità universale alla legge etica (Flückiger). Analogamente alla maggioranza dei filosofi presocratici e stoici, i Padri dei primi secoli non hanno sviluppato una dottrina organica capace di rendere metafisicamente plausibile il loro discorso sul diritto. Ciò emerge anche a proposito del problema centrale dell’unità del diritto. Tertulliano, come Origene, Cirillo Alessandrino († 444) e Gregorio Nazianzeno († 390), lo hanno risolto con una recisa negazione della forza vincolante del diritto statuale difforme da quello naturale. Ma il problema è posto in termini più etici (Tertulliano parla di offesa fatta a Dio), che giuridico-ontologici.
Sintomo dell’affermarsi del diritto canonico come realtà giuridica specifica cristiana è l’opinione di G. Crisostomo, secondo il quale una deroga al diritto positivo è possibile, non solo quando l’esigesse il bene dell’uomo, ma anche quando lo richiedesse l’utilità della chiesa, che così incomincia ad essere considerata criterio di misura del diritto positivo e naturale.
La problematica è ripresa da S. Ambrogio († 397). Benché persuaso, in omaggio al suo illustre passato di alto funzionario imperiale, della profonda armonia fra diritto romano e diritto naturale, egli difese con fermezza la priorità del diritto canonico (censio ecclesiastica) su quello imperiale (v. Campenhausen) e sostenne, contro Ulpiano, che il principe non è legibus solutus.
La dipendenza da Seneca, dal quale ha ripreso – iscrivendolo definitivamente nell’etica cristiana – lo schema delle quattro virtù cardinali, e dal De Officiis di Cicerone, hanno sviluppato in S. Ambrogio un senso spiccato dell’unità tra diritto e morale, alla quale però egli ha impresso una valenza più sociale che utilitaristica.
L’elaborazione di un diritto naturale cristiano, affinatasi al contatto con lo stoicismo, ha favorito l’inserimento della chiesa nel mondo greco-romano, provocando però un progressivo acutizzarsi del problema della compatibilità di tale diritto con quello della grazia (o divino), la cui funzione salvifica arrischiava di essere esautorata. S. Ambrogio lo risolse senza scavare in profondità, nel segno di una concordanza tra Legge e Grazia, sostenendo che la prolungazione della legge positiva di Dio era diventata necessaria dopo che gli uomini avevano abbandonato la pratica del diritto naturale.
b) L’unità del diritto nella sintesi metafisico-religiosa di S. Agostino
Anche S. Agostino († 430) risente dell’influsso di Cicerone, ma evolve a contatto con Pelagio (secolo V). Dal primo riprende la nozione di lex aeterna e, trasformandola teisticamente, le conferisce quella agibilità cristiana che le permetterà – attraverso la mediazione di Pietro Lombardo († 1160) – di diventare il concetto chiave della filosofia medioevale del diritto. Rompendo con lo stoicismo, che aveva identificato la lex aeterna con la lex naturae e concepito quest’ultima come emanazione sostanzialmente uguale della ragione divina nella ragione umana, S. Agostino ha tracciato una netta distinzione tra ratio divina e ratio humana. La lex aeterna, immutabile come Dio stesso, non è più né l’idea trascendente di Platone, né il fatum o ragione universale e impersonale e autonomamente esistente di Cicerone; è invece il piano per la creazione e il governo del mondo contenuto nell’intelligenza di Dio (Wolfson). La ragione umana creata da Dio conosce la lex aeterna come in un a priori soggettivo, scoprendone il riflesso nella lex naturalis, che S. Agostino identifica con il ius gentium. La legge naturale non è più uguale alla lex aeterna ; è solo un’impronta o trascrizione razionale che l’uomo, ferito dal peccato originale, arriva a conoscere nei suoi tratti essenziali (extrema lineamenta). La legge eterna diventa perciò l’ordo ordinans del diritto naturale (ordo ordinatus) (specificato da Dio prima con la lex hebraeorum e poi con la lex veritatis del NT), che a sua volta è l’ordo ordinans della lex temporalis o statuale (Verdross).
All’ interno di questa ispirazione metafisica di estrazione platonica, ma senza precisarne ulteriormente la dinamica ontologica, S. Agostino ha stabilito un rapporto di unità del diritto, subordinando rigorosamente la lex temporalis a quella naturalis e ambedue a loro volta a quellaaeterna. Ciò gli ha permesso di negare la validità di un diritto positivo non conforme a quello naturale o alla lex aeterna.
Mentre quest’ultima tende verso la realizzazione della vita eterna, il diritto positivo tende a creare un ordine mondano. L’ordine etico generale si divide perciò in due ambiti distinti che preannunciano la chiara distinzione fatta da S. Tommaso tra ordine naturale e soprannaturale. La morale è l’ambito verticale in forza del quale l’uomo tende interiormente verso il dovere assoluto, cioè verso la lex aeterna; il diritto è l’ambito orizzontale ed esterno, che non genera amore e il cui fine può eventualmente essere conseguito anche con la coercizione. Anzi, lo Stato, il cui compito è ormai puramente terreno, non deve più punire ogni peccato ma solo i delitti che disturbano la pacifica convivenza degli uomini. Attribuendo alla sanzione penale uno scopo preventivo, S. Agostino ha sintetizzato le posizioni precedenti che l’avevano considerata come mezzo medicinale (Platone), educativo (Aristotele) o come uno strumento da usare con mitezza (stoicismo) (Stiegler).
Pur avendo distinto con estrema chiarezza il diritto dalla morale, S. Agostino non ha provocato nessuna spaccatura. Il diritto infatti non è soltanto un settore della morale, ma un completamento della stessa poiché la rende vincolante anche nell’ambito esterno (Schilling). Ne è scaturita per contro una demitizzazione dell’idea di Stato, così come essa era presente nella filosofia greca. Esso non è più la comunità sacrale che con la sua fondamentale valenza etica – resa più specificamente giuridica solo da Aristotele – investe tutti i rapporti umani, poiché la gestione del fine spirituale interiore e soprannaturale è passata ormai alla chiesa (Fassò).
Nell’evoluzione del pensiero agostiniano ha avuto grande importanza anche lo scontro frontale con Pelagio, che aveva affermato la bontà della natura umana e la validità delle opere compiute in base al diritto naturale razionale per ottenere la salvezza, senza il soccorso della Grazia. Persuaso che il giusnaturalismo poteva condurre al pelagianesimo, S. Agostino – contrariamente a quanto aveva fatto in precedenza – non accentua più la normatività della lex aeterna, intesa come ragione, ma in modo unilaterale quella della volontà di Dio.
Questo sviluppo volontaristico si riflette nelle oscillazioni di S. Agostino quando nel De Civitate Dei valuta la funzione dello Stato e della Chiesa. A volte sembra negare ogni valore alla città terrena, definita anche civitas diabuli, a volte le riconosce una certa consistenza, ma solo a condizione che essa realizzi la giustizia cristiana, obbedendo alla volontà di Dio. Anche la chiesa appare ora come Corpo mistico e comunione dei santi, ora come istituzione visibile e storica. In questa visione dai contorni talvolta imprecisi – in cui Lutero ha trovato ampie possibilità d’ispirazione per la dottrina dei due regni e delle due chiese – emerge la tensione, latente nel pensiero cristiano fin dai primi tempi, tra escatologia e storia, fede e ragione, grazia e natura.
S. Agostino pur definendo il peccato sia in rapporto alla legge eterna sia in rapporto alla volontà di Dio, non ha disgiunto in Dio ragione e volontà e tanto meno le ha contrapposte l’una all’altra. Ciò spiega come abbia potuto influenzare in uguale misura sia le correnti intellettualistiche che quelle volontaristiche del medioevo.
3. Sovrapposizione del diritto divino e naturale fino alla scolastica
Da una parte la traduzione in latino delle collezioni dei canoni conciliari orientali e la raccolta delle decretali papali del secolo V (384-498), che hanno meritato a Dionisio Esiguo († ca. 550) il titolo di “padre della canonistica” (Peitz e Ebers), dall’altra il grande compendio eclettico della dottrina giuridica cristiana precedente fatto da Isidoro di Siviglia († 636) nelle Etymologiae, in cui, oltre alle sentenze dei Padri della chiesa, vengono per la prima volta ampiamente elaborate quelle dei giureconsulti romani, e, da ultimo, l’impatto del pensiero cristiano con lo spirito del diritto germanico, hanno segnato profondamente la fine dell’antichità classica e l’inizio del primo medioevo.
La forte componente religioso-sacrale emersa negli istituti del “giudizio di Dio” o della tregua Dei(Nottarp), ma soprattutto nelle leges barbarorum in cui si dichiara in modo programmatico la dipendenza del diritto da Dio; la priorità assegnata al diritto consuetudinario sulla legge scritta; il carattere concreto del diritto, non più considerato astrattamente, come presso i romani, ma in quanto attributo delle cose e delle persone; la componente sia popolare (in forza della quale il principe non è più considerato, come l’imperatore romano, legibus solutus), sia nazionale, ma potenzialmente anche cosmopolita (favorita dalla struttura non più verticistica, ma solo orizzontalmente gerarchizzata della società feudale), sono gli attributi fondamentali del diritto germanico (Meyer). Essi furono facilmente integrati – provocando ulteriori sviluppi – dal pensiero giuridico cristiano, fondato sull’immediatezza divina del diritto e sull’unità dello stesso, sulla forte valenza teologica della tradizione e sulla struttura ad un tempo universale e particolare della chiesa.
È sintomatico che già Isidoro di Siviglia, riprendendo un’idea di S. Agostino, abbia espressamente sottolineato – come più tardi Graziano († ca. 1142) e Sicardo da Cremona († 1216) – l’elemento consuetudinario-dinamico del diritto germanico, sostenendo che la dipendenza del diritto positivo da quello naturale non poteva essere stabilita astrattamente – derivando il primo dal secondo -, senza tener conto delle esigenze e dei costumi dei singoli popoli o delle singole nazioni. D’altra parte non fu senza rapporto con la materiale concretezza del diritto germanico il fatto che dal primo medioevo fino alla scolastica sia perdurato l’equivoco naturalistico, stoico-ulpianeo, consistente nel concepire il diritto naturale come istinto della natura. Anche su questo punto Isidoro di Siviglia ha compiuto però un primo passo avanti, tralasciando dalla definizione ulpianea il riferimento agli animali. Ciò ha permesso di avviare, magari involontariamente, un processo di decantazione del concetto naturalistico di diritto naturale, che assieme alla sua valenza panteistica aveva rappresentato uno degli ostacoli più difficili alla recezione della physis greca nella dottrina cristiana. Stefano di Tournai († 1203) eliminerà, sei secoli più tardi, ogni possibilità di equivoco negando con fermezza la capacità giuridica degli animali.
Conseguenze storiche più rilevanti ebbe comunque il fatto che Isidoro di Siviglia, nella scia religioso-sacrale dei Padri (Fassò), ai quali non era riuscita una netta distinzione tra filosofia e teologia, abbia ancora una volta identificato il diritto naturale con quello divino. Nel segno di questa sovrapposizione anche Graziano continuerà sorprendentemente a definire il ius naturalecome diritto quod in lege et evangelio continetur (Wenger). A partire da questa premessa era inevitabile che egli facesse, anche a livello dell’etica e del diritto, un’opzione sacrale e volontarista, affermando in un altro dictum che nel diritto naturale “nihil aliud praecipiatur, quam quod Deus vult fieri, nihilque vetetur, quam quod Deus prohibet fieri” (c. 11 D 9).
Nel solco della tradizione agostiniana Graziano ha però anche fatto progredire il fenomeno di interiorizzazione del diritto, sia mettendo a punto la distinzione tra peccato e delitto (non più definito in rapporto al disordine sociale, bensì allo scandalo provocato nella chiesa), sia stabilendo come momento fondamentale del diritto penale canonico il principio nulla poena sine culpa. Sostenendo inoltre che la coercizione non è essenziale alla nozione di diritto, Graziano ha contribuito a fissare definitivamente questa dottrina nel pensiero giuridico cristiano (Stiegler).
Anche nel corso del primo medioevo emerge con insistenza negli autori la preoccupazione di garantire l’unità del diritto. Ciò risulta dal fatto che essi, pur facendo, in modo non sempre consapevole, opzioni di fondo diverse – chi intellettualistiche chi volontaristiche – non hanno negato la possibilità di coesistenza del diritto divino e di quello naturale. Del resto fu largamente ribadita sia l’invalidità delle leggi positive contrarie al diritto naturale – definite vana et irrita da Graziano -, sia l’impossibilità di dispensare da esso, come per es. ha sostenuto Uguccio († 1210).
Fu compiuto anche un vasto tentativo, che ha visto impegnati S. Anselmo († 1109), Ugo da S. Vittore († 1141), Alessandro di Hales († 1245) e altri, di sintetizzare il diritto naturale – nella scia della più autentica tradizione biblica – attorno ad un unico, supremo principio (E. Wolf), dal quale derivare progressivamente norme sempre meno generali. Ciò ha evidentemente stimolato, all’interno di una struttura feudale articolata per gradi, lo sforzo già intrapreso dalla patristica, di articolare il diritto naturale secondo un ordine gerarchico. Guglielmo di Auxerre († 1231/1237) distinse per es. tra un ius naturale generalissimum, generalius et speciale, mentre S. Bonaventura·(† 1274) affermò l’esistenza di principi validi in assoluto e di principi validi in funzione dell’economia della salvezza, necessari solo per la situazione di prima e dopo il peccato originale. Questo sforzo speculativo di reductio ad unum fatto sulla base di una scala di valori sempre più precisa (Flückiger), fu del resto concomitante al formarsi della coscienza dell’unità religioso-politica del sacrum imperium romanum, che ebbe come risvolto giuridico la teorizzazione – secondo la formula attribuita ad Irnerio (secolo XII) dell’unum esse ius, cum unum sit imperium – della necessità di un unico diritto comune, valido per tutti i popoli. L’unità giuridica della cristianità fu raggiunta infatti quando, dopo un lungo contrasto, il diritto canonico fu accettato accanto a quello romano-giustinianeo come diritto universalmente valido. La formula dell’utrumque iuris espresse così la convinzione dell’esistenza di un duplice ma unico diritto, in entrambi i casi universale e fondato nel diritto divino (Fassò). Comunque l’impossibilità di raggiungere una sintesi perfetta attorno alla “regola d’oro”, se non addirittura come nel caso di Simone da Bisignano († inizio secolo XIII) attorno al concetto teologico di caritas, fu senza dubbio causata anche dall’incapacità del primo medioevo di dare una definizione unitaria del diritto naturale e di distinguerlo dal ius divinum positivum, di cui fu Abelardo († 1142) ad usare per primo la formula.
Infatti i teologi e i canonisti prescolastici hanno continuato a veicolare nelle loro opere, come nel Decreto, tutte le nozioni di diritto naturale elaborate dai greci e filtrate dai Padri, spesso senza accorgersi della reciproca incongruenza esistente tra la nozione sacrale (che identifica il diritto naturale con il diritto divino), quella naturalistica (che lo identifica con l’istinto) e quella razionalistica (che lo definisce come diritto dettato dalla ragione umana).
Con l’affermarsi dell’aristotelismo ad opera di S. Alberto Magno († 1280) fu possibile elaborare una più chiara distinzione non solo tra la ragione e la fede e tra la filosofia e la teologia, ma anche tra il diritto naturale e quello divino positivo, la cui diversità del resto era già stata colta da Rufino († 1192) un secolo prima. L’operazione di assegnare un ambito scientifico proprio alle varie concezioni del diritto fu compiuta da S. Alberto Magno stesso. Il diritto naturale di estrazione platonica, concepito come “giustizia naturale” (cioè come giustizia naturale cosmica), fu attribuito per la sua rilevanza etica alla metafisica o scienza della natura; quello naturalistico di memoria stoico-ulpianea, filtrato da Isidoro di Siviglia e da Graziano, fu eliminato perché incompatibile con il carattere esclusivamente antropologico del diritto; quello di estrazione razionalistica, inteso come norma dettata dalla ragione e ritenuto ormai da S. Alberto Magno unica vera forma del diritto naturale – fu assegnato alla filosofia, mentre il ius divinum positivum, pure di provenienza isidoriano-grazianea, fu attribuito alla teologia (Fassò).
Il problema del rapporto e dell’unità tra diritto naturale e divino sarà risolto in maniera ontologicamente plausibile solo da S. Tommaso d’Aquino († 1274), il quale, facendo la sintesi tra il metodo empirico-concettuale aristotelico e quello teologico e platonizzante di S. Agostino si è meritato non solo il titolo di doctor angelicus, ma anche quello di doctor communis (Verdross).
4. L’unità del diritto nella distinzione tra natura e soprannatura in S. Tommaso
S. Tommaso assume da Aristotele il sistema ilemorfistico privilegiandone la causa finale. L’entelèchia intrinseca alla natura delle cose è il principio dominante la struttura degli esseri (Verdross). Questa tensione ontologica che spinge l’essere imperfetto verso la propria perfezione metafisica diventa fondamento dell’etica. L’uomo può realizzare pienamente la propria identità etico-metafisica solo raggiungendo il suo fine ultimo: Dio che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. La teleologia aristotelica sfocia in S. Tommaso nella trascendenza (Coreth).
Da Cicerone e S. Agostino, l’Aquinate riprende invece l’idea della lex aeterna, che coincide con il piano razionale con cui Dio conduce il mondo verso il suo fine ultimo. L’uomo a differenza dei beati, conosce la lex aeterna solo mediatamente, attraverso l’irradiazione ontologica che di essa trova nella propria natura razionale.
D’altra parte, interpretando le inclinazioni fondamentali della propria natura razionale – che la ragione deve vagliare servendosi del principio dell’uguaglianza e della proporzione, ma tenendo conto anche delle circostanze storico-ambientali – l’uomo formula dinamicamente le norme della legge naturale. Anche S. Tommaso nel solco della tradizione precedente ha elaborato un principio supremo e sintetico della legge naturale, individuandolo nel duplice dovere dell’amore verso Dio e verso il prossimo (che precede logicamente quello della “regola d’oro”) e dal quale devono essere derivate le altre norme, già presupposte, del resto, oppure già contenute, esplicitamente o implicitamente, nel decalogo.
Dalla legge naturale – a cui S. Tommaso assegna a volte anche il ius gentium – viene derivata per modum conclusionis e determinationis o, nel caso di valori indifferenti, per modum additionis, la legge umana. Essa non scaturisce perciò con la stessa “meccanicità” della legge naturale dalla natura delle cose, ma dall’accordo comune o dal comando (ragionevole) del principe. Ciò non impedisce che una legge umana contraria a quella naturale, oltre a non avere forza vincolante etica, non esista, almeno logicamente, neppure come legge: è una corruptio legis che si pone al di fuori della sfera giuridica.
S. Tommaso, indulgendo a un certo ottimismo intellettuale (Utz), assegna alla ragione un primato sulla volontà. L’attività volitiva presuppone infatti quella della ragione. Ritenendo però che la volontà è necessaria per la promulgazione della legge – definita come ordinatio rationis -, l’Aquinate assegna anche alla volontà un suo primato in ordine alla libertà dell’azione umana (Manser), evitando di misura un intellettualismo rigido.
Il presupposto ontologico di questo equilibrio è l’identità in Dio tra volontà e ragione, per cui Dio può volere solo ciò che è razionale. A livello umano, dove volontà e ragione sono due facoltà diverse, l’unità è garantita dal fatto che la retta ragione pratica – che è precisamente ciò per cui l’uomo partecipa all’essenza divina – non può proporre alla volontà una legge diversa da quella dettata dalla ragione stessa divina.
L’innegabile inclinazione razionalista di S. Tommaso affiora anche dalla visuale prevalentemente metafisica con la quale egli affronta il discorso sulla lex aeterna, quasi che essa – come la legge naturale – fosse preposta al mondo solo per dirigerlo verso il suo fine naturale. In realtà, anche se l’Aquinate non stabilisce – come farà tre secoli e mezzo più tardi Suarez – un rapporto gerarchico esplicito tra la lex aeterna e il ius divinum (articolato in ius naturale e divinum positivum), è però cosciente che la lex divina, come quella naturalis, consiste in una partecipazione – più alta – allalex aeterna: “lex divinitus data, per quam lex aeterna partecipatur altiori modo” (I-II, q. 91, a. 5).
All’unità metafisica della trilogia lex aeterna – naturalis – humana, frutto della simbiosi del sistema ilemorfistico con quello teonomico cristiano, l’Aquinate affianca quella teologica, esistente tra lex aeterna e divina (positiva), rivelata da Dio oltre che per guidare l’uomo al suo fine soprannaturale anche per sopperire alle imperfezioni delle leggi umane. Il loro rapporto ontologico più che da una riflessione esplicita dell’Aquinate, risulta globalmente dal suo sistema teologico, fondato sull’affermazione della connaturalità della ragione rispetto alla fede e della superiorità della seconda sulla prima, espresso dal principio gratia perficit, non destruit naturam (Stoeckle). La ragione è chiamata a preparare i preambula della fede e a chiarirne le verità. Negativamente questo rapporto di unità si declina nel fatto che S. Tommaso è categorico nell’affermare che una legge umana contraria a quella divina nullo modo licet observare.
Distinguendo coraggiosamente tra i due piani, quello naturale e quello soprannaturale, l’Aquinate, oltre a sciogliere il dubbio sollevato dai Padri circa la compatibilità della legge naturale con quella divina (positiva), ha definitivamente eliminato la possibile valenza panteistica nascosta nell’identificazione del diritto naturale con quello divino, così come era operata da Isidoro di Siviglia e da Graziano. Con questa distinzione S. Tommaso ha salvato sia l’istanza razionalistica del diritto naturale stoico, sia quella religioso-sacrale della tradizione ebraico-cristiana (Fassò). Non bisogna dimenticare comunque che quest’ultima istanza era già stata recepita nel concetto patristico-scolastico di lex aeterna, che implica l’affermazione di Dio come fonte immediata e personale del diritto. Distinguendo tra il diritto – il cui ambito intersoggettivo regola le azioni esteriori dell’uomo – e la morale, ma riaffermandone comunque l’unità di fondo grazie al principio che le leggi umane obbligano anche in forum conscientiae; ritenendo d’altra parte la coercizione elemento non essenziale alla nozione di diritto, ma solo momento di necessità condizionale; differenziando tra diritto oggettivo e soggettivo, tra subiectum (solo l’uomo) e obiectum (ad esclusione dell’uomo), titulus e terminus iuris (punto di riferimento per l’obbligazione giuridica); riconoscendo di conseguenza al diritto le note della socialità, dell’uguaglianza (che si articola nella giustizia distributiva, commutativa e legale), e della necessarietà, S. Tommaso ha raggiunto l’apice della riflessione scolastica sul problema del diritto (Schönfeld).
5. La volontà divina fonte unica dell’unità del diritto nell’occamismo
L’equilibrio tra ragione e volontà stabilito dall’Aquinate fu quasi immediatamente rotto dal radicalizzarsi delle istanze volontaristiche. L’ordine giuridico è una realizzazione immutabile dellalex aeterna esistente nell’intelletto di Dio, oppure il risultato mutevole del comando positivo della sua volontà, slegata dalla ratio divina? Mentre il razionalismo metterà a repentaglio la libertà di Dio, il volontarismo correrà il rischio di negare la verità intrinseca delle cose (Stiegler).
Il volontarismo ha radici filosofiche nel nominalismo di Boezio († 524) che, applicando un rigido realismo di estrazione neoplatonica, aveva negato ogni contenuto reale alle categorie aristoteliche. Gli universalia, di cui parlerà il medioevo, sono solo nomina, cioè nozioni convenzionali e astratte dell’intelletto, prive di entità reale. Solo gli individui esistono realmente (universalia post rem). Al posto della metafisica subentra un sistema in cui l’essenza delle cose è stabilita volta per volta dalla volontà di Dio. Infatti non è che Dio voglia una cosa perché è buona, ma una cosa è buona perché è voluta da Dio: quod Deus vult, hoc est iustum! Il telos aristotelico-tomista, posto intrinsecamente da Dio negli esseri da lui creati (entelèchia), è sostituito con una finalità estrinseca. Di conseguenza anche l’etica non è più fondata nella metafisica, ma nella obbedienza alla volontà di Dio.
Il nominalismo volontarista – nato come reazione contro il carattere potenzialmente impersonale e neutrale del diritto naturale stoico-razionalista, che aveva a tratti inquinato anche certi settori della scolastica oltre ad aver avuto il merito di ricuperare in tutta la sua potenza l’idea biblica della immediatezza di Dio nella produzione giuridica, ha anche orientato la ricerca teologica verso lo studio positivo, come pure quella profana verso l’analisi empirica della natura, creando i presupposti culturali per la nascita della scienza sperimentale moderna. L’oggettivismo medioevale fu sostituito con un soggettivismo che ha conferito una dimensione più esistenziale all’etica e permesso una valutazione più circostanziata dell’individuo concreto e della storia.
L’innesto del volontarismo religioso francescano, di ispirazione agostiniana, sul filone nominalista attraverso Roscellino da Compiègne († 1120/1125), Abelardo († 1142), S. Bonaventura († 1274) e Bacone († ca. 1292), ha visto maturare con Duns Scoto († 1308) una prima elaborazione sistematica.
Contro l’Aquinate, che aveva qualificato come astrazione fittizia la possibilità che de potentia absoluta Dio potesse agire contro l’ordine della propria sapienza, Duns Scoto ha sostenuto che Dio non agisce de potentia ordinata, non essendo sottomesso a nessuna legge e perciò neppure alla lex aeterna. Dato che la voluntas è superiore alla ratio, Dio vuole ciò che vuole senza avere altro motivo che il proprio volere, i cui limiti formali sono fissati solo dal principio di contraddizione.
La categoria centrale del sistema del doctor subtilis non è la ragione, come per S. Tommaso, ma l’amore. La poliedricità metafisico-religiosa di questa categoria ha impedito a Duns Scoto di sconfinare in un radicale positivismo. L’amore, che risiede nella volontà di Dio, è il principio etico superiore. Esso si declina però a livello di diritto naturale, in senso astratto, solo nei primi due precetti del decalogo, da cui Dio – che può mutare tutte le altre norme sociali – non può dispensare. Il fondamento di questi due comandamenti più che la ragione sembra comunque essere ancora l’obbligo di obbedire alla volontà di Dio (Fassò). Benché abbia salvato in extremisl’esistenza del diritto naturale e l’unità del diritto grazie al principio che le norme umane, per essere valide, devono essere consona primis principiis, cioè all’amore di Dio, il doctor subtilis ha sfiorato comunque il positivismo con la tesi secondo cui l’obbedienza ad una legge umana ingiusta è prioritaria rispetto all’obbligo di seguire la propria coscienza erronea.
L’empirismo nominalista ha subito un irrigidimento con Guglielmo d’Occam († 1349). Strumento della conoscenza non è più come per il tomismo la capacità di astrazione della ragione, ma l’esperienza empirica (Grabmann), per cui Dio e le verità soprannaturali, che sfuggono all’indagine filosofica, possono essere accettati dall’homo in via solo per fede. Esse possono essere veramente conosciute solo nella visione beatificata, cioè dall’homo in patria. La recta rationon è più lo strumento autonomo con cui l’uomo, conoscendo le essenze delle cose, conosce anche Dio, ma lo strumento con cui Dio rende nota all’uomo la propria volontà. Ha perciò essenzialmente il compito di rendere plausibile il fatto che bisogna obbedire alla volontà assolutamente libera ed arbitraria di Dio (Fassò). La moralità sta dunque esclusivamente nell’obbedire alla volontà di Dio.
Nelle espressioni più polemiche del suo pensiero (cfr. Kölmel) sembra che l’Occam abbia eliminato anche gli ultimi resti di un diritto naturale razionale. Infatti, rispetto a Duns Scoto ilvenerabilis inceptor fa un radicale passo avanti sostenendo il carattere contingente e positivo anche dei primi due precetti del decalogo. Non essendoci contraddizione logica, Dio potrebbe comandare anche di odiarlo (Verdross). Il diritto naturale è tutto contenuto esplicitamente o implicitamente nelle S. Scritture per cui non si diversifica più dal diritto divino. Ogni diritto, proveniendo ultimamente dalla volontà di Dio, può essere chiamato diritto divino.
A parte il fatto che è categorico come tutti i medioevali nell’affermare la nullità delle leggi umane, civili o canoniche non conformi alla legge divina, ma anche ad una ragione “aperta” (ratio apertaeo rectae) – dimostrando così di non essersi potuto liberare totalmente dalla tradizione tomista (Ott) – l’Occam ha salvato l’unità del diritto non tanto stabilendo un rapporto intrinseco di natura metafisica tra il diritto divino, naturale e umano, ma spostando il problema sull’unicità dello stesso. Il diritto divino, infatti, infatti, investe come espressione d volontà di Dio tutte le cose.
Benché l’Occam sia indotto ad affermare nominalisticamente e concettualisticamente che non esiste nesso ontologico tra la immanenza e la trascendenza, tra il mondo e Dio (dove il rapporto non è stabilito dalla ragione ma dalla fede), egli non arriva a separare intrinsecamente (come farà due secoli più tardi Lutero) il diritto umano da quello divino. La dottrina tomista della natura non deleta e l’ambiente culturale dell’alto medioevo in cui egli è ancora immerso, malgrado la sua contestazione politica, costringe l’Occam a salvare almeno formalmente il rapporto intrinseco tra la trascendenza e il mondo, al di là di ogni sfiducia metafisica.
Era inevitabile che lo squilibrio prodotto dall’irrigidimento volontaristico della via moderna, visceralmente antimetafisica, sconfinasse dall’ambito filosofico a quello teologico. Gabriele Biel († 1495) – volontarista puro in etica, ma intellettualista nella fondazione del diritto naturale – ha consumato, un secolo e mezzo dopo l’Occam, il passaggio alla soteriologia, precorrendo Lutero, su cui del resto ha avuto una grandissima influenza (Ott).
Se il peccato non si qualifica a partire dalla immoralità intrinseca dell’azione, bensì dalla disobbedienza in quanto tale alla volontà di Dio, allora la giustificazione non potrà essere il premio (anche) di un merito qualsiasi umano, ma solo una non imputazione della colpa da parte di Dio. La dottrina protestante della predestinazione – già anticipata per altro da Wyclif(† 1384), sarà l’estrema conseguenza di questo occamismo radicale (Rommen).
6. La razionalità fonte ultima dell’unità del diritto nell’intellettualismo
Il tentativo di Gregorio da Rimini († 1358), di ripristinare l’equilibrio ricuperando all’interno del volontarismo elementi razionalistici della via antiqua, ha fatto registrare un contraccolpo intellettualista. Distinguendo tra la lex indicativa, che mostra il bene e il male, e la lex imperativa, che comanda di farlo o di tralasciarlo, Gregorio da Rimini è arrivato alla conclusione che il peccato si realizza già violando la lex indicativa, prima ancora che Dio intervenga con il comando della sua lex imperativa.
Anzi, formulando un’ipotesi (divenuta celebre non solo perché sarà ripresa dal Biel e tre secoli dopo da Ugo Grozio († 1645) – fondatore del diritto naturale razionalista moderno -, ma soprattutto perché essa, all’inizio del basso medioevo, non suonava già più come blasfema), il discepolo dell’Occam sostenne che la violazione di una recta aliqua ratio, angelica o umana, costituisce peccato anche se “per impossibile ratio divina sive Deus ipse non esset” (Sent. I, d. 34, a. 2). All’inizio del basso medioevo inizia per l’etica (o il diritto naturale che dir si voglia) quel processo di secolarizzazione che sarà consumato solo dal razionalismo e dal positivismo giuridico moderno, con l’eliminazione definitiva di Dio quale fonte immediata del diritto naturale.
Un’ulteriore progressione fu compiuta da Gabriele Vazquez († 1601) separando la ragione, in quanto elemento soggettivo, dalla natura razionale dell’uomo e sostenendo che il criterio ultimo della moralità non è la ragione (tomisticamente intesa) – poiché troppo facilmente sottoposta ad errore – ma la natura razionale dell’uomo, in quanto realtà oggettiva. Conseguentemente è morale e giusto solo ciò che corrisponde alla natura razionale umana.
Non potendo evidentemente regredire alle posizioni razionalistiche della filosofia greco-romana del diritto naturale, poiché glielo impediva sia la dottrina biblica della immediatezza di Dio nella produzione giuridica, sia quella patristico-tomista dell’unità del diritto, il gesuita spagnolo – fautore convinto in teologia della nozione di natura pura (De Lubac) – distinse tra una lex naturalis primaria, data dalla natura razionale dell’uomo, e una lex naturalis secundaria, data dalla ragione. In forza di questa distinzione egli sostenne che la legge naturale primaria, e le singole essenze delle cose, anche se hanno origine in Dio, sono preordinate alla sua ratio. Esistono cioè come realtà razionali autonome, indipendentemente dal fatto che Dio le voglia e le conosca. La libertà di Dio consiste solo nel fatto che egli può decidere se crearle o meno, ma nella prima ipotesi deve rispettare il loro modello già precostituito. Anche l’unità del diritto non è più garantita, come nel tomismo, dal fatto che la legge naturale primaria, o natura razionale umana, consista in una partecipazione ontologica alla lex aeterna, bensì dal fatto che lo Spirito divino illumina direttamente il giudizio dell’intelletto umano, cioè la legge naturale secondaria. Come più tardi anche in Biel, l’immediatezza di Dio nella produzione giuridica e l’unità del diritto non sono più legate direttamente, nel rapporto intrinseco esistente tra la lex aeterna e la lex naturalis, ma solo indirettamente tramite l’illuminazione divina della ragione umana.
Le ultime logiche conclusioni di questo intellettualismo limitante la libertà di Dio furono ancora una volta formulate in Spagna dal giurista Fernando Vazquez de Menchaca († 1589), con la tesi che ragione e diritto naturale coincidono, cosicché il secondo è il prodotto autosufficiente della prima.
Alla fine del medioevo venne così consumata – come nel modello stoico-ciceroniano – la separazione del diritto dalla metafisica. Ciò ha preparato la strada a Grozio che si ispirerà ampiamente al tomismo attraverso la mediazione della teologia morale spagnola, protesa umanisticamente ad approfondire la dimensione antropologico-soggettiva dell’etica, ma segnata da un forte estrinsecismo teologico nel concepire il rapporto tra natura e Grazia (Le Bachelet). Grozio getterà le basi del nuovo diritto naturale, diverso da quello della scolastica perché non più considerato come frutto della partecipazione ontologica della natura razionale dell’uomo alla lex aeterna, ma come prodotto esclusivo di una ragione umana slegata non solo dall’intelletto e dalla volontà, ma dall’esistenza stessa di Dio e perciò da ogni presupposto soprannaturale e teologico (Fassò).
Il passaggio dall’intellettualismo filosofico alla teologia soteriologica fu preparato ancora una volta dal Biel. Dato che la promulgazione divina di una legge non fa che confermare ciò che l’uomo già conosce attraverso la sua scintilla conscientiae o sinderesis, il decalogo, che vincola in forza della sua intrinseca razionalità, è materialmente diritto naturale e solo formalmente diritto divino positivo (Ott). Di conseguenza anche la legge dell’AT, ma ultimamente tutto il ius divinum positivum, diventa vincolante solo perché percepito interius in corde, cioè soggettivisticamente, come corrispondente (consonans) alle esigenze del diritto naturale o natura razionale dell’uomo.
Combinando un radicale volontarismo – conseguente alla dottrina preannunciatasi già nell’occamismo della natura totaliter deleta, che elimina ogni possibilità di diritto naturale razionale – con il soggettivismo emerso nell’intellettualismo di Gabriele Biel, Lutero radicalizzerà la problematica. La rivelazione in quanto tale, cioè la lex Dei o Christi (cioè il ius divinum) è una Parola pronunciata da Dio non più ad nos, con forza vincolante formale oggettiva (come continuerà a sostenere la teologia cattolica), ma un Verbum Dei in nos, la cui forza vincolante risulta dipendente dall’accoglienza fattale nella fede dall’uomo, interius in corde.
Con gli assiomi sola fide, sola gratia, e sola scriptura inizia il vero e proprio radicale volontarismo religioso (Rommen). Una volta rotto il rapporto ontologico intrinseco tra la ragione e la fede, tra la natura e la soprannatura, la filosofia del diritto diventa incapace di inserirsi come ancilla nel mistero della salvezza. Dall’umanesimo e dalla riforma in poi, essa ha ripreso bensì il cammino, sostenuta solo dalla ragione, ma per sfociare recidivamente nel positivismo giuridico.
Separando il diritto divino da quello umano a livello teologico e rendendo così impossibile un’incarnazione del primo nel secondo, Lutero ha esasperato l’antinomia tra fede e ragione, chiesa invisibile e visibile e tra diritto e amore, obbligando per la prima volta il pensiero cristiano ad affrontare il problema del diritto non più in chiave filosofico-teologica, ma esclusivamente teologica. Egli ha creato inconsapevolmente i presupposti per una teologia del diritto che diventerà anche teologia del diritto canonico, dapprima in campo protestante e poi, dopo che Rudolph Sohm (1917) non avrà creato una insanabile antinomia tra chiesa e diritto, in quello cattolico.
7. La sintesi del pensiero cristiano attorno alla formula suaresiana:
“ius divinum, sive naturale sive positivum”
Quando Francesco Suarez († 1617) ha fatto la sintesi del pensiero giuridico cristiano nel suo poderoso Tractatus de Legibus ac Deo Legislatore (1612), Gabriele Vazquez aveva già posto il principio della immanenza dell’etica alla natura umana, identificata con la ragione, e Martin Lutero aveva già negato il carattere soteriologico della chiesa visibile, rendendo incompatibile il diritto divino con quello umano.
La preoccupazione di correggere il razionalismo intellettualista del primo e di controbattere controversisticamente lo spirito del secondo, hanno permesso al doctor eximius di elaborare una sintesi tra tomismo e occamismo.
L’illusione ancora esistente di un’unità politico-religiosa della cristianità, che la pace di Augusta (1555) non aveva dissipato, ma soprattutto l’idea della dipendenza globale di tutte le cose dalla volontà di Dio e perciò tendenzialmente anche dal ius divinum, avallata dall’occamismo e consolidatasi con la dottrina dei riformatori, affiorano nel verticismo, di taglio ormai più teologico-morale che filosofico, nella cui prospettiva Suarez costruisce il suo sistema.
La lex aeterna, che si identifica con Dio e regola tutte le sue opere ad extra, è posta gerarchicamente come in S. Tommaso, al centro della nuova sintesi. Tuttavia essa, pur essendout sic obligativa (cioè sufficiente per obbligare), vincola exterius solo se promulgata da un’altra legge. La legge che la promulga ad extra – e da cui perciò essa è formalmente distinta – è il ius divinum, dal quale derivano, come partecipazione a livello naturale e soprannaturale (participatio excellentior), il ius naturale e quello divinum positivum. La triade suaresiana ius divinum, sive naturale sive positivum, sostituisce quella tomista, diventando patrimonio comune della teologia e della canonistica cattoliche, così da essere recepita dal Codex Iuris Canonici (cc. 27, 2, 1509).
La priorità del fine soprannaturale su quello naturale, già affermata dall’Aquinate, viene spontaneamente tradotta dal Suarez a livello istituzionale, in conformità allo spirito del tempo: se lo Stato ha il compito di educare buoni cittadini, la Chiesa – che gode di un potere indiretto sul primo (Bellarmino) – ha quello di rendere buoni gli uomini.
A livello di analisi più metafisica che politico-istituzionale, Suarez riesce a mantenere un grande equilibrio tra volontarismo e intellettualismo. La legge infatti è considerata come il risultato congiunto dell’intelletto e della volontà, che in Dio sono un actus simplex.
Conseguentemente il doctor eximius afferma, contro Gregorio da Rimini, che la legge naturale non solo è indicativa boni et mali, ma anche imperativa. La ragione umana, infatti, può concepire Dio solo come colui che obbliga ad osservare ciò che è dettato dalla sua stessa ragione divina (De legibus, II, 6 e I, 5). Attorno a questo punto Suarez sintetizza con profonda unità logica la dottrina tradizionale, già affacciata nei Padri. Dal momento che il diritto naturale contiene anche un vero e proprio obbligo, esso è vincolante prima ancora di essere promulgato da una legge umana, per cui rende invalida qualsiasi norma positiva contraria e non dà mai luogo a dispensa.
Polemizzando con il Vazquez, Suarez ricupera una posizione metafisica più tomista, negando che il diritto naturale possa essere l’espressione esclusiva ed autonoma della natura razionale dell’uomo, concepita separatamente dalla ragione umana, o legge naturale secondaria. Per il Suarez il nesso ontologico con la lex aeterna non è garantito indirettamente. tramite l’illuminazione divina dell’intelletto umano, ma direttamente, poiché il diritto naturale non esisterebbe si Deus non daretur.
La ragione è solo l’organo della natura razionale dell’uomo; ha il compito di scoprire in essa i principi fondamentali del diritto naturale a cui appartengono però, come parte integrante, anche le conclusioni logicamente necessarie. Nel solco di S. Agostino, di S. Tommaso e della teologia morale spagnola del suo tempo, Suarez, che ha un profondo senso della realtà individuale, evita ogni astrattezza (Fassò). Sia sul problema dell’unità intrinseca del diritto naturale, sia su quello della sua validità assoluta, egli formula la dottrina diventata classica nel pensiero cattolico posteriore. Il diritto si articola in tre gruppi di norme: quelle generali (honestum est faciendum), quelle più particolari (Deus est colendus) e quelle più difficili da conoscere (condanna dell’adulterio). Ribadendo con fermezza l’immutabilità, l’universalità e l’inderogabilità del diritto naturale, il Suarez afferma che, a seconda delle circostanze umane a cui esso deve essere applicato, i primi principi, pur restando uguali, possono ordinare cose diverse.
Con S. Tommaso il bonum commune era diventato il criterio fondamentale del diritto naturale. Rispondendo infatti a S. Agostino, che aveva platonicamente creduto che esistessero in Dioplures rationes rerum, l’Aquinate sostenne che la lex aeterna è unica perché anche il bonum commune, di cui essa è la ratio, è unico; ad esso infatti, devono essere ordinate tutte le cose. Suarez sviluppa questo concetto approfondendone l’analisi. Da una parte sostiene che il bonum commune non comprende solo il bonum communitatis, ma anche la felicitas singulorum e, corrispettivamente, che la felicitas singulorum non è concepibile se non in rapporto al bonum communitatis; dall’altra, che non esiste solo un bonum commune, ma anche un bonum commune omnium nationum.
Il Suarez riprende e sviluppa così la problematica che si era aperta al pensiero giuridico cristiano con la scoperta del nuovo mondo e con la riforma protestante e che era stata affrontata per la prima volta – sul terreno del diritto naturale – da Francesco de Vitoria († 1546), diventato padre del diritto internazionale moderno per aver trasformato il ius gentium in ius inter gentes(Verdross). Il doctor eximius sostiene che i popoli della terra non rappresentano solo un’unità fisica ma anche morale e politica, per cui necessitano di un ordine giuridico. Sembra però che il teologo di Coimbra, che con grande chiaroveggenza preconizza la costituzione di un’istanza internazionale munita di potere coercitivo, intenda, a differenza del Vitoria, fondare il diritto internazionale più sul diritto consuetudinario posto dai vari Stati, che su quello naturale (Fassò).
Rivelandosi profondamente inserito nel processo culturale del suo tempo, che sta maturando il concetto moderno di Stato territoriale assolutista, come pure un’ecclesiologia unilateralmente orientata verso i problemi istituzionali, il Suarez concede grande rilievo, nel processo della produzione giuridica, al ruolo del legislatore umano, secolare ed ecclesiastico (Stiegler). Anche in questo settore egli porta però a compimento il pensiero cristiano precedente, lasciando affiorare nello stesso tempo la sua propensione volontaristica, sollecitata a livello filosofico anche dal fatto che mentre in Dio l’unità tra ragione e volontà è perfetta, essendo atto semplice, nell’uomo è complessa, potendo egli procedere solo cum successione et discursu.
I1 Suarez sostiene, in contrasto con la dottrina del Defensor Pacis sull’origine divina solo mediata del potere statuale, che il legislatore umano, considerato ancora minister Dei(Reichmann), riceve il potere di governare lo Stato, in quanto societas perfecta, immediatamente da Dio. Conseguentemente Suarez, nel solco della tradizione cristiana più autentica, oltre a considerare il principe legibus non solutus, gli attribuisce anche il potere di vincolare i suoi sudditi in coscienza. Anzi, seguendo Castro († 1558) e Medina († 1578) gli attribuisce il potere di far dipendere dalla propria intenzione anche la natura (sub gravi o sub levi) dell’obbligo imposto dalla legge, oppure la non obbligatorietà in coscienza della stessa (leges mere poenales).
Nella stessa linea biblico-cristiana di interiorizzazione del diritto, ma non senza sovrapporre il piano morale a quello giuridico, Suarez introduce l’exceptio a voluntate principis, di chiara intonazione platonico-volontaristica, come terzo caso di epicheia, accanto ai primi due, di natura oggettiva, elaborati da Aristotele e S. Tommaso, e fondati sulla exceptio a potestate (Hamel).
In polemica con Marsilio da Padova († 1342/43), Jan Hus († 1415) e i riformatori protestanti, Suarez si industria come aveva fatto per il legislatore secolare, di dare un assetto teorico anche al potere di quello ecclesiastico. La sua argomentazione teologica trova nelle S. Scritture più un avallo a posteriori che un locus theologicus capace di generare una concezione ecclesiologica originale. Era perciò inevitabile che la differenza tra il potere del legislatore secolare e di quello ecclesiastico si compendiasse nella dottrina – recepita del resto anche dal Codex Iuris Canonici(c. 593) – che solo la chiesa ha il potere di esigere dai propri sudditi il compimento di atti interni.
Con Suarez il pensiero giuridico cristiano – che da sempre aveva affrontato il problema del diritto secolare e canonico a partire dallo stesso concetto formale di diritto e applicando lo stesso procedimento metodologico – ha raggiunto l’apice del suo sviluppo. Il concetto formale di diritto elaborato dalla teologia e canonistica medioevale sulla base di un’ontologia e gnoseologia sostanzialmente filosofica, alla quale fu applicato come correttivo il criterio della “elevazione” al soprannaturale ogni qual volta il problema sconfinava in campo teologico, è diventato tramite la mediazione del Suarez, il concetto soggiacente a tutto il sistema giuridico del Codex Iuris Canonici.
Dal Tridentino in poi esso non ha subito sostanziali modificazioni, malgrado la neoscolastica abbia tentato di riproporlo in veste nuova, più consona alle esigenze del pensiero moderno. Il magistero della chiesa ne ha fatto ampio uso nel Sillabo e nelle encicliche sociali, nel tentativo spesso polemico di dialogare con le moderne correnti della filosofia del diritto (Stiegler).
Data la premessa più o meno esplicita valida dal primo medioevo in poi, che il diritto canonico è un diritto valevole non solo per la chiesa, ma anche per la cristianità, la consapevolezza di dover elaborare una dottrina teologica del diritto canonico – libera dalla preoccupazione di essere contemporaneamente filosofia (o eventualmente teologia) anche del diritto secolare – ha potuto affiorare solo in questi ultimi vent’anni. Determinante è stato lo stimolo venuto dalla teologia protestante e l’apertura pluralistica instaurata dal Vaticano II.
3. L’unità del diritto secolare e canonico nella teologia protestante
1. Gli orizzonti culturali
La specificità delle diverse risposte date dalla teologia ortodossa, protestante e cattolica alla questione della natura del diritto canonico può essere colta solo tenendo conto delle opzioni culturali di fondo in cui esse – salvando in modo diverso la sostanza di un discorso cristiano – si iscrivono storicamente.
Due sono stati gli sbocchi ricorrenti, pur nella varietà delle forme e dei contenuti, del tentativo dell’uomo di eludere “il circolo diabolico delle apparenze cosmiche”, senza indugiarvi “come il serpente che si morde la coda” (von Balthasar). La prima via è quella orientale che, di fronte all’assolutezza dell’essere, accetta la assoluta relatività della realtà e della storia e tenta perciò un’uscita dalla contingenza della storia verso l’alto, per ritornare all’originaria purezza del “divino”, concepito come realtà indistinta, omogenea e infinita, trascendente tutto ciò che è umano. Questa elevazione filosofica, perpendicolare alla direzione orizzontale della storia, permette platonicamente di superare le contraddizioni terrene, ma tradisce ultimamente il destino dell’uomo di appropriarsi il mondo, vivendo un’escatologia senza storia (Evdokimov). La seconda via, quella occidentale, fa leva invece sulla volontà dell’uomo di cogliere nel concreto della propria storia il destino ultimo di sé e della realtà. Essa tende a identificare Dio con la storia, intesa come progetto messo in atto dall’uomo, all’interno del quale esso vive una storia priva di escatologia. Questo tentativo, iniziato con il messianismo giudaico, è stato ripreso in occidente da Marx, il quale radicalizzando l’idea del progresso ha dato corpo alla forma più consapevole e scaltrita del mito prometeico.
Il cristianesimo preclude, con il principio dell’“incarnazione” qualsiasi possibilità di fuga dal mondo verso l’alto e verso l’avanti. Il cristiano è chiamato ad assumere il mandato mondano senza soggiacere alla tentazione di procurarsi la salvezza con la propria forza, ma inserendosi nel piano di salvezza del Dio incarnato.
Il principio dell’incarnazione deve però essere interpretato con tutto il rigore proprio della tradizione cattolica. Sulla base dello spunto metafisico ilemorfistico aristotelico-tomista, enucleato nel principio universalia in rebus, la teologia cattolica attua con estrema coerenza dottrinale e senza soluzione di continuità sia il passaggio dalla cristologia calcedonese – comune a tutte le grandi confessioni cristiane – alla chiesa come istituzione, sia quello dalla Grazia increata alla Grazia creata. Solo evitando evasioni esplicite o implicite di natura monofisistica o nestoriana, è possibile valutare la dimensione istituzionale-giuridica della chiesa, come necessaria incarnazione della forza vincolante formale della Parola e del Sacramento. Questa dimensione non può essere ridotta ad un sistema di norme giuridiche sempre scavalcabili in nome di un’altra realtà teologica (principio della “economia”), come avviene nella teologia orientale-ortodossa (sul problema cfr. E. Corecco, Teologia del diritto canonico, in: “Dizionario Enciclopedico di Teologia Dogmatica”, Roma 1977) e neppure a fenomeno sociologico, intrinsecamente non necessario per la salvezza nella fede, ma inevitabile in quanto prassi umana per ferrea necessità storica (“mit eisern der Notwendigkeit”: Sohm) come avviene per contro nella teologia classica protestante.
2. La rottura tra diritto divino e umano in Lutero
L’incapacità ultima della teologia protestante di riconoscere al diritto canonico una valenza salvifica ha la sua profonda radice nella contrapposizione che Lutero ha stabilito a livello soteriologico tra “Legge e Vangelo”. Questa contrapposizione si è declinata a livello di storia della salvezza nella visione cosmica dei due regni e a quello ecclesiologico nell’insanabile dualismo tra chiesa abscondita e chiesa universale o visibile.
La “iper-escatologia” (Evdokimov) immanente alla separazione tra Legge e Vangelo è sfociata, a livello giuridico (per la legge dei contrari) nel razionalismo e positivismo, privi di ogni dimensione escatologica, e, a livello ecclesiologico nella chiesa abscondita, escatologicamente tanto spirituale da trascendere completamente quella sociologica o visibile. D’altra parte la priorità logica goduta – nell’impianto teologico volontarista della riforma – dalla dottrina cosmica dei due regni rispetto a quella delle due chiese, spiega perché il protestantesimo, fino ai tempi più recenti, si sia chinato di preferenza, contrariamente alla tradizione cattolica, sulla teologia del diritto invece che su quella del diritto canonico.
a) La disarmonia tra “Legge e Vangelo”
Lutero ha notoriamente ravvisato nella tematica “Legge e Vangelo” il punto centrale del mistero della salvezza (Joest). La preoccupazione della teologia agostiniano-tomista, protesa a stabilire una corrispondenza tra la natura e la Grazia, era stata quella di sottolineare la continuità dei contenuti della legge antica e di quella nuova. La legge antica non si contrappone a quella nuova perché i suoi contenuti essenziali perdurano anche nel regime della Grazia. La legge nuova invece si diversifica da quella antica perché non è più extrinsecus, ma intrinsecus data assieme alla Grazia che infonde la forza per adempiere la Legge nella gioia e nella libertà dell’amore. S. Tommaso stabilisce addirittura un’identità tra la Legge e il Vangelo, usando la formula sintetica della nova lex evangelii. La Grazia è comunque legge solo in senso analogico perché l’essenza della nuova Legge non sta più formalmente nel carattere legale, ma nel fatto di essere donata come Grazia, allo stesso modo della Fede e dello Spirito Santo. Nel definire Cristo come Grazia la teologia cattolica ha inteso sottolineare il fatto che il processo della giustificazione trasforma interiormente l’uomo.
Nel definire Cristo come Vangelo, Lutero, che si muove dentro l’orizzonte nominalista e volontarista del tardo medioevo, ha voluto invece sottolineare con forza la non imputatio del peccato. La Grazia è solo una presenza estrinseca, anche se salvifica, di Cristo nell’uomo. Sostituendo il binomio agostiniano-tomista “Legge e Grazia” con “Legge e Vangelo”, Lutero, per il quale la “suprema arte della cristianità” consisteva nel saper distinguere tra i due elementi, ha voluto opporsi al fatto che l’economia della sola Gratia venisse snaturata e ridotta a sistema religioso fondato ancora sulla Legge, dove le opere della Legge naturale, anche se compiute con l’aiuto della Grazia, fossero richieste necessariamente per la giustificazione. Le opere della Legge naturale non sono buone in se stesse: esse sono buone solo in quanto compiute in obbedienza a Dio che ci ha salvati; quindi non trasformano interiormente l’uomo, ma servono solo a rendere palese agli altri il miracolo compiuto da Dio nella remissione dei peccati. Le opere e la legge non sono perciò necessarie per la salvezza neppure a posteriori.
La discussione sorta nella seconda metà del secolo XVI attorno al tertius usus legis (ritenuto da Calvino(† 1564) l’usus praecipuus) – pericolosamente vicino alla concezione cattolica della gratia elevans, perché provoca il credente in forza della presenza e dell’aiuto di Cristo ad una vita nuova – ha spinto gli epigoni di Lutero a radicalizzare le posizioni dichiarando le opere a volte nocive per la santificazione (Amsdorf † 1565) a volte necessarie (Major † 1574) oppure superflue (Poach † 1585), separando così il processo della giustificazione da quello della santificazione. Era inevitabile perciò che il tema della Legge, eliminato dal contesto soteriologico ed ecclesiologico, scivolasse prima verso la teologia morale poi verso la filosofia del diritto. Quest’ultima a partire da Grozio fu progressivamente confiscata dal giusnaturalismo moderno, che con Cristiano Tomasio († 1278) giunse alla negazione di ogni forma di diritto divino. La tematica “Legge e Vangelo” scomparirà così dalle grandi opere teologiche del secolo XIX, come in quelle dello Schleiermacher, del Ritschl e dell’Harnack (Iwand).
Nello stesso momento è avvenuta una svolta radicale della escatologia, sia nella teologia che nel pensiero filosofico-sociale di estrazione protestante. L’escatologia di Lutero, drammaticamente contenuta nella sua dottrina del simul iustus et peccator (Prenter), era la conseguenza diretta della contrapposizione tra “Legge e Vangelo”. Attraverso la mediazione sia delle tesi dell’irreparabile corruzione della natura umana e del regno della mano sinistra (e di riflesso del diritto umano o statuale), sia di quella della totale alterità della chiesa abscondita rispetto a quella visibile, Lutero ha avallato una concezione profondamente pessimista non solo del mondo e del suo diritto, ma anche della chiesa visibile e del diritto canonico. Ciò ha posto le premesse per il progressivo scivolamento del protestantesimo verso una concezione della storia priva di escatologia.
Infatti essa rimase appannaggio dell’ortodossia protestante, oppure, soprattutto nelle sue espressioni chilianiste-apocalittiche, del pietismo e dei movimenti di fronda rispetto alle chiese nazionali ufficiali. La teologia dominante, invece, entrata in contatto con il razionalismo illuminista e liberale ha spiritualizzato così radicalmente l’escatologia da privarla di ogni incidenza non solo culturale, come in larghi strati del pietismo, ma anche teologica. Ciò ha permesso al cosiddetto protestantesimo culturale – incline all’evoluzionismo darwinista e a un socialismo cristiano (Prenter) e rappresentato dai teologi e pensatori più illustri del secolo scorso, come il Weiss, l’Albrecht e il Sohm (oltre a quelli citati sopra) – di sostituire all’escatologia la storia, identificando il regno di Dio con il progresso religioso-culturale-politico e sociale immanente al destino del mondo (Philipp).
b) II dualismo cosmico-soteriologico dei due regni
Il medioevo, in continuità con la dottrina gelasiana dei “due poteri”, aveva elaborato un sistema unitario con il quale spiegare l’ordine del mondo. Per la comunità dei cristiani Dio ha istituito un unico regno spirituale-temporale, la repubblica christiana, all’interno del quale esistono due strutture diverse, ma reciprocamente ordinate. La gerarchia ecclesiale, culminante nel romano pontefice – capo supremo della chiesa universale – guida la cristianità nell’ambito spirituale, mentre la gerarchia temporale, rappresentata dall’imperatore del sacrum romanum imperium, la guida nell’ambito secolare. A questo sistema teologico-politico, la cui unitarietà è garantita dalla superiorità della fede sulla ragione e, a livello istituzionale, da quella, almeno spirituale se non necessariamente giuridico-politica (Gregorio VII), dell’altare sul trono, corrisponde come si è visto, sia pure all’interno di opzioni diverse – tomista-suaresiana, occamista o intellettualista – una concezione unitaria anche del diritto.
Ispirandosi alla distinzione agostiniana tra la civitas Dei e la civitas terrena e subendo l’influsso del nominalismo volontarista, Lutero ha introdotto un sistema dualistico. La lex aeterna – di origine razionalistica stoico-ciceroniana – attorno alla quale la teologia tomista-suaresiana aveva fatto l’unità del proprio sistema, ricongiungendo in esso, o nella ratio Dei, la distinzione medioevale tra natura e soprannatura – accettata da tutta la teologia – è sostituita con un unico ordine: quello della salvezza fondato nella volontà di Dio. Esso si articola in due regni: quello spirituale governato da Dio con la mano destra e nel quale sta il credente, è fondato sulla fede e guidato dalla carità; quello temporale, governato da Dio con la mano sinistra e nel quale vive il non credente, è retto dalla ragione, la quale però non è più fonte di una conoscenza razionale valida della verità naturale, ma totaliter deleta. Tra il regno della mano destra o Corpus Christi Mysticum e il regno della mano sinistra o Corpus babilonicum, creato da Dio nella sua ira misericordiae solo dopo la caduta originale per impedire all’umanità di cadere nel caos totale, esiste perciò un abisso incolmabile.
Il dualismo immanente a questo sistema è superato volontaristicamente. L’unità dei due regni, che comunque non esistono semplicemente come due realtà eterogenee (cfr. però le due interpretazioni diverse date da Heckel e Wolf), è garantita in modo estrinsecistico dalla volontà di Dio che li ha creati.
A questo dualismo corrisponde una concezione altrettanto dualistica del diritto. Nel regno di Dio vige la lex charitatis, seu spiritualis, o lex Christi, che, indirizzata all’homo interior, è percettibile solo con l’intellectus fidei. Questa lex fidei, totalmente spirituale (Verbum Dei in nos), esige una conversione solo interiore, di cui il comportamento esterno è semplicemente la derivazione spontanea (libertà cristiana). Nel regno degli increduli o regnum diabuli, invece, la lex Christi non è più capita. Di conseguenza il diritto prodotto dallo Stato, non essendo più radicato nell’amore ma fondato sulla Legge e sul potere, è rivolto all’homo exterior ed esige solo un comportamento esteriore.
In quanto diritto esso è considerato solo un’umbra ingannevole di quello divino, poiché non esercita nessun influsso intrinseco sullo stesso, allo stesso modo che la chiesa invisibile non si “incarna” in quella visibile.
Contrariamente al medioevo Lutero parla perciò di due diritti naturali: quello spirituale e quello secolare. Il primo non è più un ius divinum fondato nella ratio Dei, ma nella volontà giuridica di Dio che comanda e giudica alla fine del mondo; è perciò un diritto escatologico con il quale Dio può raggiungere l’uomo, anche se diventa vincolante solo con l’adesione interiore dell’uomo, come aveva insinuato Biel. Il diritto naturale secolare prodotto dalla ragione, che non può più raggiungere Dio, è totalmente segnato (anche se voluto da Dio) dalla logica umana e dalla giustizia dell’uomo. Anche la lex Moisi, cioè la giustizia del decalogo, non appartiene per Lutero al diritto naturale divino essendo solo un’immagine antropomorfica e torbida della giustizia di Dio.
L’esito religioso-culturale, nei secoli posteriori alla riforma, di questa separazione tra diritto e Vangelo, fu caratterizzato da tendenze contrastanti a livello teorico, ma, per molti aspetti, paradossalmente convergenti in una prassi di abbandono progressivo del mondo alla sua dinamica di secolarizzazione. Da una parte non sono mancate correnti che all’interno del movimento pietista hanno teorizzato la necessità di ritirarsi dall’impegno politico-mondano per coltivare un’interiorità soggettiva in un’attesa escatologica; dall’altra si sono imposti i progetti politici nati dall’incontro del protestantesimo con il razionalismo e l’illuminismo e realizzati dallo Stato territoriale e assolutista, dove lo Stato e il diritto furono considerati positivamente – al di fuori di ogni preoccupazione teologica -come ambiti esclusivi della ragione umana sovrana e immanente. Teologi come il Troeltsch e il Naumann, continuando ad interpretare la dottrina dei due regni come totale separazione tra cristianesimo e politica, hanno sostenuto che se nel primo vale il Discorso della Montagna, nel secondo deve dominare il potere del diritto (Schüller).
c) II dualismo ecclesiologico tra chiesa invisibile e visibile
Parallelamente alla dottrina dei due regni Lutero ha stabilito anche una profonda separazione tra la chiesa abscondita o spiritualis e quella universale, che solo la dottrina posteriore ha però contrapposto nel binomio chiesa invisibile e chiesa visibile. La chiesa spirituale è la comunità cui appartengono i giusti, iniusti iustificati, conosciuti solo da Dio; essa va distinta nettamente dall’organizzazione esterna e sociologica della cristianità che è la chiesa universale o visibile, alla quale appartengono tutti i battezzati anche peccatori, iniusti non iustificati. Nella prima vige solo il diritto divino (Ecclesia vivit iure divino) che è in rapporto solo con la sfera interiore dell’uomo. La chiesa invisibile non può porre atti giuridici perché non ha un potere proprio e si limita, nella penitenza e nella scomunica, a promulgare il giudizio di Cristo. Sarebbe errato derivarne dei compiti anche per l’organizzazione esterna e giuridica della chiesa universale, dove vige il diritto umano o canonico, con riferimento esclusivo solo all’uomo esteriore. Dato che per Lutero la chiesa visibile non si identifica con il regno della mano sinistra, poiché in essa vivono non solo coloro che hanno perso la fede ma anche i cristiani credenti ( è un corpus permixtum), il diritto canonico è necessario solo per ragioni socio-empiriche e non ha nessun valore in ordine alla salvezza. Per Lutero, ma soprattutto per Calvino, il diritto canonico conserva tuttavia un certo spessore ecclesiale proprio in quanto la sua forza vincolante non viene dal carattere formale della legge né da quello dell’autorità, ma dalla carità. Mentre Hobbes († 1679) potrà direauctoritas, non veritas facit ius, per Lutero bisognerebbe dire caritas, non auctoritas facit ius(Heckel). Ultimamente però esso si situa sullo stesso piano del diritto statuale. Di conseguenza il diritto canonico è un diritto sui generis: ha in comune con quello divino della chiesa invisibile il fatto di essere un ordine dell’amore; è simile a quello statuale perché si riferisce solo all’homoexterior; si distingue, infine, da tutte e due perché, in quanto legge solo umana, non vincola i credenti in coscienza. Pur riconoscendo la necessità concreta di un diritto canonico Lutero lo ha separato irreparabilmente da quello divino sottraendolo al contenuto della fede. Il credoEcclesiam catholicam vale solo per la Ecclesia abscondita.
3. Il monismo giuridico di Sohm e la negazione del diritto canonico
Soprattutto in seguito all’influsso pietistico di C. Tomasio – che aveva negato l’esistenza di ogni forma di diritto divino – la dottrina del diritto canonico ha subito nei quattro secoli seguenti una profonda trasformazione, che può essere formulata come segue: la chiesa invisibile è priva di ogni diritto divino e umano; quella visibile deve accettarlo per ragioni empiriche, ma è un diritto puramente umano perché l’unica fonte del diritto è lo Stato (Ernst Wolf).
Sotto il profilo pratico il passaggio dell’organizzazione giuridica della chiesa visibile nelle mani dello Stato – durato in Germania fino alla prima guerra mondiale – dopo che Lutero nel 1525 aveva chiamato il principe, in quanto membro della chiesa (Melantone dirà, come membrum praecipuum Ecclesiae), ad intervenire per salvarla dal disordine interno, ha fatto subire al diritto canonico una profonda trasformazione anche a livello istituzionale. Oltre ad essere stato sottoposto ad un processo di penetrazione scientifica, attraverso il metodo pandettistico e storico, il cui esito fu quello di eliminare ogni differenza formale tra diritto canonico e statuale, il diritto canonico fu addirittura sostituito con quello ecclesiastico (Staatskirchenrecht).
L’inevitabile ipertrofia subita dal diritto ecclesiastico – inversamente proporzionale ormai al suo valore ecclesiale – ha permesso un progressivo assorbimento anche della chiesa visibile nelle strutture statuali, fino a trasformarla in chiesa di Stato (Staatskirche). Il diritto umano, in tutte le sue forme – statuale, ecclesiastico e canonico -, essendo stato separato all’interno dell’unico ordine della salvezza dal ius divinum, non poteva più vincolare il cristiano in quanto tale, per cui era inevitabile che l’antinomia tra diritto e carità, tra chiesa del diritto e dell’amore, tra Legge e Vangelo, riemergesse in modo clamoroso.
Il merito di aver attirato l’attenzione della teologia su questo stato di cose spetta a Rodolfo Sohm († 1917) che prese lo spunto da due presupposti ideologici diversi ma profondamente radicati nell’animo religioso e volontarista del protestantesimo: da una parte quello spiritualista, secondo cui la chiesa è una realtà puramente carismatica; dall’altra quello positivista, secondo cui il diritto è una realtà monistica. Sohm, essendo convinto che non esiste diversità di natura tra il diritto canonico e quello secolare – poiché lo Stato è fonte unica del diritto (Hegel) – ha esplicitato rigorosamente le implicazioni dottrinali contenute nel sistema disarmonico dei due regni, traendone tutte le inesorabili conseguenze. Da una parte ha sostenuto contro Lutero che non esiste diversità tra la chiesa visibile (o universale) e il regno della mano sinistra, identificando la chiesa sociologica con il mondo: dall’altra ha coerentemente negato che la chiesa carismatica potesse accettare non solo un diritto divino, che ormai era già stato eliminato dalla scienza giuridica, ma anche un diritto umano, potendo essere quest’ultimo solo statuale (Rouco-Varela). Con la tesi centrale del suo Kirchenrecht (vol. I, 1892), secondo cui “la natura del diritto canonico è contraddittoria alla natura della chiesa”, Sohm ha posto per la prima volta nella storia della teologia il problema teologico del diritto canonico in termini così radicali ed espliciti da non più lasciare requie né alla canonistica protestante né a quella cattolica fino ad oggi (Mörsdorf).
4. L’unità tra diritto divino e secolare nella cristocrazia barthiana
Oltre che da questa provocazione scientifica la necessità di chiarire il problema fu posta alla teologia protestante dal mutamento dei rapporti tra Stato e Chiesa provocato dagli avvenimenti politici a partire dalla rivoluzione francese. La caduta dell’ancien régime ha messo anche le chiese protestanti nella necessità di trovare un nuovo punto di partenza storico-istituzionale. Il principio della separazione tra Stato e Chiesa proclamato dalla rivoluzione liberale (Costituzione di Francoforte 1848), ma realizzato in Germania solo dopo la prima (Costituzione di Weimar 1918) e la seconda guerra mondiale (Costituzione di Bonn 1949, art. 140), e soprattutto la dura esperienza fatta, grazie al proprio positivismo giuridico, sotto il regime nazista, hanno messo la chiesa protestante, dopo quattro secoli di unione con lo Stato, nella necessità di promulgare costituzioni proprie non più fondate sul diritto statuale (Rouco-Varela).
I primi tentativi teorici compiuti da G. Holstein e H. Liermann – preceduti nel protestantesimo dalla riscoperta di una propria coscienza ecclesiale al tempo del romanticismo – di dare una legittimazione teologica al diritto canonico, rimasero nel solco della dottrina dualistica luterana. La profonda disarmonia (Erik Wolf) di quest’ultima, che considera chiesa visibile e Regno della mano sinistra come realtà non adeguatamente distinte, ha però impedito loro di staccarsi da una concezione sociologica o “additiva” (Dombois) del diritto canonico, ultimamente ritenuto simile ancora al diritto secolare che, in quanto diritto del regno della mano sinistra, è voluto anche esso da Dio (sul problema cfr. E. Corecco, Diritto canonico, in: “Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale, Roma 19743).
Il dualismo di Lutero fu superato solo da Carlo Barth. Nel solco della teologia dei riformatori egli ha posto ancora una volta come problema centrale della teologia del diritto non quello del diritto canonico, ma quello del diritto statuale; ha invertito però i termini della questione, sostituendo la tematica “Vangelo e Legge” a quella luterana “Legge e Vangelo”. Due anni più tardi (1932) egli riprese il tema nel programma “Giustificazione e Legge” dove Chiesa e Stato, con i rispettivi ordinamenti giuridici, vengono collocati unitariamente all’interno dell’unica realtà esistente, quella salvifica della Giustificazione nel Cristo (Schüller).
Barth, che si pone in diretta polemica con lo storicismo e il positivismo giuridico, ha come orizzonte quello della teologia dialettica dove il problema centrale è quello di stabilire la natura del rapporto Dio-uomo a partire non dalla theologia naturalis, ma dalla constatazione che Dio è Dio in quanto pone l’uomo di fronte ai propri limiti. Per cogliere questa alterità di Dio l’ontologia razionale e il diritto naturale non servono: solo la rivelazione può formulare affermazioni vincolanti.
Nessuna metafisica umana – quella di Platone come quella di Aristotele o di Hegel (Ernst Wolf aggiungerà quella razionalistica dello stoicismo, congenita al calvinismo!) – è capace di dire cosa sia lo Stato e il diritto (de Quervain). La realtà può essere conosciuta solo con la fede e non con la filosofia per cui l’analogia entis è sostituita con l’analogia fidei.
La giustificazione avviene attraverso Cristo che oltre ad essere il fondamento ontologico è anche il principio gnoseologico di tutta la realtà creata. Nel solco della tradizione più calvinista che luterana, Barth abbandona perciò la dottrina dei due regni e delle due chiese per sostituirla con la visione di un solo ed unico regno di Dio, al cui centro sta Cristo e attorno al quale è situata in circoli concentrici tutta la realtà: all’interno la chiesa e all’esterno lo Stato. Non esiste perciò più differenza assoluta tra Chiesa e Stato, né il loro rapporto può essere concepito, nel segno della tradizione cattolica, come se la chiesa fosse fondata sul diritto divino e lo Stato su quello naturale.
Come ogni forma di diritto, anche quello canonico è irreparabilmente umano poiché vale solo per il tempo che separa la chiesa dall’escatologia. A differenza di quello statuale esso non ha forza vincolante giuridico-formale perché il soggetto operante nella chiesa non è la comunità dei credenti, ma Cristo stesso. È perciò solo una Kirchenordnung. Per contro il diritto ecclesiastico è incapace di organizzare la chiesa perché essendo statuale nasce da una lontananza più grande da Cristo. Senza affrontare direttamente il problema se il diritto canonico, dal profilo formale, sia una realtà sostanzialmente diversa da quello statuale, Barth afferma che è un diritto sui generis, essendo essenzialmente un diritto liturgico, soggetto all’indicazione biblica, valido solo come “servizio” alla communio sanctorum e come profezia rispetto a quello statuale.
Per superare la contraddizione nella quale Barth e Ernst Wolf sono caduti, negando da una parte ogni consistenza al diritto naturale, ma facendo dall’altra larghe concessioni alla concettualità naturale e alla immanente razionalità del pensiero teologico (Schüller), Ellul cerca di sbarazzarsi di tutti i presupposti di estrazione intellettualistica facendo una rigorosa opzione nominalista-volontaristica. In particolare egli cerca di eliminare tutti i presupposti – emersi nella tradizione scolastica con G. Vazquez ed in quella del diritto naturale moderno con Grozio – che avevano permesso di affermare che etsi non daretur Deus, esset tamen iustitia (Schüller). L’unità del diritto non è stabilita a livello metafisico, ma gnoseologico. Infatti il diritto naturale, come lo Stato e la religione, esiste come fenomeno umano indipendentemente da ogni riflessione teorica. Determinante perciò non è il suo valore naturale, ma quello che esso ha in rapporto al piano salvifico di Dio. Di conseguenza esso non può essere valutato con la ragione umana totaliter deleta, ma solo con la fede. La giustizia umana non esiste se non come espressione del giudizio di Dio. Essa però non è statica ma dinamica, perché si manifesta nel giudizio attuale e concreto di Dio sulle cose ed è puro atto di Grazia (volontarismo dinamico).
Avendo eliminato il diritto naturale e la filosofia del diritto, Barth non è riuscito a ristabilire l’unità tra diritto divino e umano così come l’aveva sostenuta la tradizione cristiana precedente alla riforma. Pur capovolgendo la tematica “Legge e Vangelo” e abbandonando il dualismo cosmologico dei due regni di Lutero, invece di superarlo egli ha accentuato il dualismo protestante tra natura e soprannatura e tra ragione e fede, di cui la separazione tra il diritto divino e umano è solo una conseguenza a livello istituzionale. Quest’ultimo resta una realtà solo umana, rispetto alla quale il diritto divino è totalmente trascendente.
5. L’unità tra diritto divino e canonico nella teologia protestante moderna
Nel tentativo di superare l’aporia in cui era sfociato il programma barthiano “Giustificazione e Legge” condannando inesorabilmente il diritto naturale, alcuni giuristi del dopoguerra, intuendo l’impossibilità di elaborare una teologia del diritto sia statuale che canonico a partire dalla sola rivelazione senza riconoscere nessuna consistenza alla metafisica, hanno cercato nuovi spunti metodologici, lasciando implicite le altre questioni fondamentali tradizionali della teologia protestante. Essi hanno in comune il fatto di affrontare direttamente il problema della teologia del diritto canonico senza passare attraverso la mediazione di quella del diritto statuale (Steinmüller).
Ma neppure questi tentativi recenti di Erick Wolf e Hans Dombois (cfr. E. Corecco, Teologia del Diritto Canonico, o.c.) riescono a risolvere il problema. In essi emerge una componente platonica laddove il diritto divino – strutturato come “Signoria fraterna” di Cristo o come “relazione trinitaria” – è considerato solo come modello secondo cui il diritto umano deve modellarsi con l’aiuto esterno della indicazione biblica (biblische Weisung), che a partire soprattutto da Calvino ha sostituito nella teologia protestante il principio della incarnazione. In sostanza il diritto divino è inteso dalla teologia protestante – da Lutero ai moderni – in un senso così spiritualizzato che non si vede come possa essere vincolante per la chiesa storica. La teologia protestante non riesce a stabilire un rapporto vincolante tra la chiesa e il cristiano ma solo un rapporto diretto tra Dio e la coscienza dell’uomo. Il punto centrale di convergenza della moderna teologia protestante del diritto canonico con quella cattolica è dato dall’affermazione che il diritto canonico è una dimensione della chiesa indissolubilmente legata al dogma. Come realtà ecclesiale appartiene perciò al contenuto della fede, da cui Lutero l’aveva estromesso. Il merito di Barth è stato quello di aver fatto rientrare il diritto canonico (assieme a quello secolare) nei contenuti della fede, facendo un grande passo avanti verso la concezione di S. Agostino e S. Tommaso della nova lex evangelii (Söhngen). Tuttavia né il capovolgimento della tematica “Legge e Vangelo”, né la ricerca di nuovi loci theologici (propria degli autori successivi a Barth), sono bastati per dare una consistenza soteriologica reale al diritto canonico. Esso resta inesorabilmente diritto umano, separato dal diritto divino, incapace di vincolare la coscienza del cristiano non da ultimo perché, non avendo una consistenza naturale, non può avere (in quanto realtà anche antropologica) neppure una consistenza ecclesiale salvifica. In sostanza il dualismo ecclesiologico è stato semplicemente spostato a livello giuridico (Rouco-Varela). Anche il problema del valore del diritto canonico non è perciò risolvibile se non risolvendo quello del rapporto tra ragione e fede, natura e soprannatura e tra storia e escatologia.
Concludendo si deve constatare che anche nella migliore tradizione protestante – quella che ha preso le distanze dal razionalismo liberale dei secoli XVIII e XIX (che aveva eliminato la dimensione escatologica dalla storia) – persiste una visione dell’escatologia proiettata unilateralmente verso il futuro, la quale ingenera, rispetto al fatto giuridico, un positivismo analogo a quello esistente nella teologia ortodossa orientale, dove l’escatologia tende a risolversi come una fuga verso l’alto e la trascendenza. La propensione di ambedue è quella di abbandonare la storia alla propria logica mondana.
Il problema posto dal protestantesimo è, da una parte, quello di sapere se è possibile fare teologia del diritto prescindendo da ogni orizzonte ontologico-filosofico, cioè eliminando il diritto naturale; dall’altra, se la teologia del diritto debba essere primariamente teologia del diritto secolare o del diritto canonico.
4. L’unità tra diritto divino e canonico nella teologia cattolica
1. Dualismo tra diritto naturale e divino positivo nella dottrina
della “elevazione” al soprannaturale
La teologia cattolica ha veicolato fino ai nostri giorni senza sostanziali cambiamenti la concezione tomistico-suaresiana del diritto. Negli ambienti della filosofia sociale cristiana si incomincia a porre il problema di una teologia della società e, conseguentemente, dello Stato e del diritto (Nell-Breuning); ma una risposta teologica che dal profilo metodologico si stacchi dalla concezione scolastica o neoscolastica, non è ancora stata elaborata, pur non essendo mancate le sollecitazioni storiche.
Nel settore del diritto canonico, invece, si è formato dopo il Tridentino, come scienza nuova, diversa dalla canonistica classica, il ius publicum ecclesiasticum (IPE). Esso è nato verso la metà del secolo XVIII dalla sfida lanciata alla canonistica dalla scienza giusnaturalistica del ius publicum: strumento con cui lo Stato illuminista ha imposto l’esclusività della propria sovranità territoriale-giuridica in tutti i settori della vita non solo socio-politica ma anche ecclesiastica (De la Hera). Applicando il concetto di ius publicum al diritto della chiesa la scuola del IPE ha posto in modo nuovo il problema della natura del diritto canonico (non più trattato solo come settore del diritto generale) ed ha aperto nuove prospettive a livello della costituzione della Chiesa e dei suoi rapporti con lo Stato, superando così lo status quaestionis medioevale (Rouco-Varela). Dal profilo metodologico il IPE si è limitato tuttavia a fare una sintesi eclettica delle opzioni tomista-realista e volontarista del medioevo.
La categoria centrale del IPE, così come è stata elaborata dal Tarquini e dal Cavagnis nella seconda metà del secolo XIX e dall’Ottaviani prima del Vaticano II, è quella della societas perfetta. Sia perché di evidente estrazione giusnaturalistica, sia perché presuppone, come maggiore del sillogismo con cui conclude all’esistenza del diritto pubblico della chiesa, l’assioma pure giusnaturalistico ubi societas, ibi et ius, il IPE usa in ultima analisi il medesimo concetto formale di diritto elaborato dalla tradizione filosofico-cristiana fino a Suarez. Non è perciò in grado di mediare una nuova comprensione teologica del diritto della chiesa.
La fondazione scritturistica dei trattati del IPE rimane infatti giustapposta. Più che a fondare tende a confermare, con i cosiddetti passi “gerarchiologici” del NT, i principi fondamentali della filosofia dello Stato, per applicarli alla chiesa grazie al processo teologico della elevazione al soprannaturale, dentro una concezione controversistico-bellarminiana o magari anche secolare del diritto e della costituzione ecclesiale. Il nesso tra la chiesa in quanto società perfetta e il diritto canonico non è derivato dalla struttura teologica interna della chiesa, ma in modo volontaristico ed estrinseco dalla volontà di Cristo, che ha voluto la chiesa come società giuridica e perfetta. Anche il problema dell’unità del diritto viene perciò risolto secondo la dinamica della distinzione classica ius divinum, sive naturale sive positivum, dove però il termine di riferimento prioritario è – in omaggio al giusnaturalismo razionalista moderno – il diritto naturale.
Gli stessi limiti metodologici di fondo sono riscontrabili anche nei tentativi di rifondazione teologica della canonistica coeva e posteriore. Sia la categoria biblica e romantica di regnumusata da G. Philipps – non senza influsso della nuova ecclesiologia della scuola di Tubinga -, sia quella di “ordinamento giuridico primario” presa a prestito dalla pandettistica moderna nella scuola canonistica laica italiana, sia l’analisi della struttura della società presa da W. Bertrams dalla filosofia sociale del Gundlach, non si staccano ultimamente dal metodo del IPE, anche se ne tentano un superamento. Non si tratta di negare i meriti sostanziali che questi grandi maestri hanno avuto nel far avanzare la canonistica a livello scientifico o teologico, liberandola da troppo riduttive preoccupazioni esegetiche, ma semplicemente di constatare che dal profilo metodologico questi tentativi non possono essere inscritti, sia pure tenendo conto della loro diversa sensibilità teologica, come scienza teologica del diritto canonico. In essi la teologia rimane il limite formale estrinseco entro il quale la canonistica deve muoversi. Anche i canonisti di Navarra, che riprendono l’idea di ordinamento canonico imprimendole però una certa carica teologica, usano in ultima analisi un concetto nomistico di diritto che li costringe ad affermare che dal profilo epistemologico il diritto canonico non è una scienza teologica ma giuridica.
Evidentemente più gravi sono i limiti del programma di deteologizzazione e degiuridizzazione, proposto dopo il Vaticano II dalla rivista “Concilium” – nel tentativo di dare una nuova comprensione teologica dei limiti del diritto canonico – per l’eclettismo dottrinale in cui esso rimane imbrigliato. La nozione formale tradizionale di diritto è sostituita dai teorici della rivista, nel solco della teologia protestante moderna, con la categoria di “servizio” e di “ordine ecclesiale” (Kirchenordnung); di essa però è assunta anche la valenza dualistica che obbliga i canonisti di “Concilium” a giustificare l’esistenza del diritto canonico umano a partire da considerazioni solo empirico-sociologiche . Il diritto canonico umano non sembra più essere una “incarnazione” delius divinum positivum. (Su tutti questi tentativi cfr. E. Corecco, Teologia del Diritto Canonico, o.c.).
Il limite del IPE e delle correnti che ad esso fanno metodologicamente riferimento, è il medesimo di quello che ha impedito alla prima ed alla seconda scolastica di distinguere dal profilo scientifico la fondazione del diritto secolare da quella del diritto canonico, trattando quest’ultimo come parte del primo. Se è comprensibile che l’unità del diritto secolare (appartenente all’ambito della natura) con quello divino debba passare attraverso la mediazione del diritto naturale, non è però necessario passare da questa mediazione per stabilire l’unità ontologica del diritto canonico umano con il diritto divino. La chiesa non può infatti essere definita come società naturale elevata al soprannaturale (Aymans). Il merito della riforma è stato quello di aver sollevato il problema. Volendo perciò fare una teologia del diritto canonico non si può non accogliere questa provocazione metodologica (senza con questo voler negare l’esistenza del diritto naturale in quanto tale, come hanno fatto Lutero e Barth) distinti, come ha fatto la scolastica, i due piani: quello della natura e quello della soprannatura.
Il dualismo ecclesiologico e giuridico della riforma protestante ha la sua radice nella contrapposizione stabilita da Lutero tra natura e Grazia, ragione e fede, storia e escatologia, “Legge e Vangelo”. La costante specifica della tradizione cattolica sta invece nell’aver salvato, pur nella varietà delle interpretazioni, l’unità di questi elementi, che non è estrinsecamente garantita dalla volontà di Dio, bensì ontologicamente intrinseca.
Il fatto che la legge sia sempre stata considerata condizione indispensabile per la salvezza spiega perché la chiesa cattolica “non ha mai vissuto da un punto di vista costituzionale su basi giuridiche precarie” (Rouco-Varela). Non fa perciò meraviglia che la chiesa cattolica, sia in regime di cristianità che in regime di assolutismo statale, abbia sempre rivendicato il possesso di una struttura costituzionale e di un ordinamento giuridico propri, radicati nel diritto divino e perciò autonomi di fronte al potere secolare, a dispetto delle sovrapposizioni avvenute, a livello istituzionale tra Chiesa e Stato, e, a livello scientifico, tra teologia e filosofia giusnaturalistica. Anche la crisi di antigiuridismo che ha colto la chiesa moderna non ha messo in discussione l’esistenza dell’istituzione e del diritto, ma ne ha reclamato vuoi una riformulazione storica vuoi una risignificazione teologica.
Se è vero perciò che il problema primario della teologia cattolica non è quello di produrre la prova teologica dell’esistenza del diritto canonico – che in ultima analisi non è neppure dottrinalmente messo in discussione – quanto piuttosto quello dell’analisi della natura teologica intrinseca dello stesso, è essenziale riprendere alla radice anche la questione della fondazione teologica dell’esistenza del diritto canonico, perché le conseguenze che ne derivano a livello metodologico non possono essere sottovalutate. Si tratta di giustificare il diritto canonico non più a partire da presupposti giusnaturalistici o sociali ma da uno spunto nettamente teologico, che sappia individuare con precisione il locus theologicus del diritto ecclesiale all’interno del nexus mysteriorum, per eliminare in sede di riflessione esplicita l’esistenza, affermata almeno nel comportamento pratico e nella pubblicistica divulgativa, di una antinomia tra diritto e libertà, istituzione e carisma, “Legge e Grazia”. Il problema del diritto tocca infatti, come quello delle opere, il fondo del problema della giustificazione.
2. Necessità e unità del diritto divino e canonico nella tematica “Legge e Grazia”
Cosa significa per la teologia cattolica “Legge e Vangelo”? Gottlieb Söhngen è tra i rarissimi autori cattolici che abbiano affrontato il tema analiticamente e in dialettica con il protestantesimo. Secondo il teologo tedesco la prima constatazione che si impone è che anche per la teologia cattolica la congiunzione “e” non significa “è anche”, poiché la natura intrinseca delle due realtà non è identica. L’essenza della Legge sta nel suo carattere imperativo, mentre quella del Vangelo e della Grazia sta in una partecipazione di Dio nel cuore dell’uomo. Perciò non esiste un’analogia nominum per cui si possa dire che la Legge è anche Vangelo e che il Vangelo è anche Legge, ma solo un’analogia relationis (Barth) stabilita dal fatto che l’imperativo della nuova legge – che non è Legge solo in forza del suo essere legge – ha come fondamento la Grazia e la Carità. Tommaso d’Aquino adoperando la formula nova lex evangelii, con cui ha sintetizzato la tradizione antecedente espressa nel da quod iubes et iube quod vis di S. Agostino, ha usato l’analogia in questo senso. Infatti la novità della nuova legge non sta nella maggiore perfezione rispetto a quella antica, ma nel fatto che è data come pienezza della carità: lex nova est ipsa gratia (seu ipsa praesentia) Spiritus Sancti quae (qui) datur Christifidelibus (I-II, q. 106, a. I). Non esiste perciò analogia nominum neppure tra la Legge antica e quella nuova, perché se è vero che Cristo, come afferma il concilio di Trento, non è solo mediatore, ma anche legislatore (Sess. IV de iustif., can. 31), non lo è nello stesso senso di Mosè. Non si può perciò giustificare l’esistenza del diritto canonico, come ha fatto Lutero, allo stesso modo della Legge antica: solo come argine contro la concupiscenza e il peccato. Esso appartiene all’esperienza cristiana positivamente, nel segno della pienezza della Carità e della Grazia. Vi appartiene perciò allo stesso titolo del dogma, che non è una realtà eterogenea rispetto al diritto. Infatti allo stesso modo che la salvezza non proviene dalla forza formale imperativa dell’ordinamento giuridico della chiesa, essa non proviene neppure da quella pedagogia del dogma, ma dalla Grazia. La Grazia comprende la Legge e non viceversa, poiché l’adempimento della Legge non è causa efficiente della Grazia.
Se è vero che il Vangelo non è “anche” Legge, esso però non esiste neppure “senza” Legge. Come già nell’AT, la legge non è data senza la promessa della Grazia e la Grazia non è data senza i precetti di Dio. Nel NT la Grazia non può restare senza le opere della Carità. Del resto neppure per Lutero il principio sola fide significa che la Fede possa esistere senza le opere. La differenza tra la dottrina dei riformatori e quella Cattolica fissata dal Tridentino (can. 29 e 30) sta nel fatto che le opere non sono solo una conseguenza necessaria della Fede, ma una vera e propria condizione per la salvezza. Nelle due posizioni teologiche esiste perciò un doppio punto di convergenza: che la salvezza è data dalla Grazia e che le opere sono necessarie. Per i riformatori le buone opere – che comunque non sono buone perché salvano ma solo perché compiute in obbedienza a Dio – sono necessarie solo come conseguenza. Inoltre esse non sono a vantaggio di chi le compie, ma degli altri che possono così vedere il miracolo compiuto da Dio nella salvezza. Per i cattolici invece sono necessarie come condizione a posteriori – anche se possono essere poste dal credente solo con l’aiuto della Grazia – affinché la salvezza non si ritorca in dannazione. Ciò significa che Dio non perdona il peccato all’uomo dopo che questi lo ha perdonato agli altri, ma è in forza del fatto che Dio gli ha perdonato che l’uomo diventa capace e deve perdonare (Söhngen).
Questa diversità nel concepire la conditio deriva dal modo diverso di comprendere la Grazia. Anche per la dottrina protestante, soprattutto moderna, la Grazia non è una semplice non imputatio del peccato, ma una presenza personale esterna di Cristo che pur lasciando l’uomo interiormente non cambiato (simul iustus et peccator), lo coinvolge e lo fa diventare capace di amare, in quanto è Cristo stesso che opera in lui (Pannenberg).
Per la teologia cattolica invece la Grazia è una realtà soprannaturale creata e infusa nell’uomo come qualità inerente (gratia creata habitualis), contrariamente alla dottrina orientale ortodossa, non si identifica con Dio (energie). Essa è una forza in base alla quale l’uomo agisce collaborando con Dio (fides charitate formata), meritandosi anche un aumento della stessa. La nozione protestante della non imputatio non nega l’efficacia reale della Grazia, ma il fatto che sia in qualche modo causale e che sia una realtà ontologica inerente all’uomo. L’uomo vi è implicato solo come strumento dell’azione di Dio, non come collaboratore. Del resto la medesima concezione è riscontrabile nel protestantesimo a livello ecclesiale, dove la chiesa non ha una soggettività propria, poiché il solo soggetto operante è Cristo e lo Spirito Santo.
Avendo posto la premessa che la Grazia non si “incarna” ontologicamente nella natura dell’uomo come gratia creata e che la chiesa abscondita non si compenetra con quella universale e visibile, la teologia protestante si trova nell’impossibilità di stabilire un ponte tra il diritto divino e quello canonico umano. Come le opere sono solo una conseguenza esterna della Grazia così il diritto canonico è solo una conseguenza esterna della chiesa abscondita. È necessario, ma a livello sociologico, non ontologico, per cui, come le opere, non ha in se stesso nessuna valenza salvifica. Parallelamente al sacramento è solo un signum fidei senza essere causa strumentale efficace della Grazia. Evidentemente tra diritto e sacramento esiste solo un’analogia, che impedisce di applicare al primo il principio dell’ex opere operato.
La tradizione cattolica – che ha trovato nella metafisica ilemorfistica aristotelico-tomista un orizzonte ontologico ed uno strumento logico particolarmente congeniali per conferire una plausibilità razionale al proprio modo di credere il mistero della salvezza – ha declinato, sia pure in modo analogico e differenziato (Congar e Mühlen), il principio “incarnazione”, realizzatosi nella sua pienezza paradigmatica in Cristo, a tutti i livelli dell’economia della salvezza. Lo applica perciò rigorosamente non solo alla Grazia (creata), alla chiesa e al sacramento, ma anche al diritto canonico. Il diritto divino non è presente in quello canonico solo come orizzonte formale (Rahner), da cui deriva l’indicazione parenetica, ma anche come substrato ontologico. Del resto se tutte le realtà istituzionali in cui si “incarna” la Grazia (come la chiesa, il sacramento, il dogma e il diritto) sono solo signa fidei – come S. Tommaso dice dei sacramenti -, lo sono in quanto segni strumentalmente efficaci, se pur in modo diverso, della Grazia, di cui Dio solo dispone.
Grazie a questa consequenzialità nell’applicare il principio “incarnazione”, la tradizione cattolica ha potuto concepire anche l’escatologia – con rigore più grande di quella ortodosso-orientale e a differenza di quella di larga parte del protestantesimo – non solo come una realtà presente nella storia, ma anche come una dimensione intrinseca costitutiva della verità ultima della stessa.
3. Incarnazione e sacramento come “loci theologici” dell’unità e della natura del diritto canonico
Nella linea di questa opzione teologica di fondo, rilanciata genialmente nel secolo XIX dalla scuola di Tubinga – rivalutata dalla Mystici Corporis -, alcuni teologi e canonisti moderni come il Salaverri (prima del Vaticano II), lo Sticker e l’Heimerl, hanno scelto il mistero dell’Incarnazione come locus theologicus dal quale derivare – all’interno di un processo metodologico che tenta di rimanere totalmente immanente alla gnoseologia teologica – il nesso tra la struttura socio-sacramentale della chiesa e il diritto canonico. L’incarnazione del Figlio di Dio è la radice ultima del carattere sociale, visibile e giuridico della chiesa poiché Cristo, incarnandosi, ha coinvolto la natura umana con tutte le sue dimensioni, compreso quella socio-comunitaria, che raggiunge la sua pienezza di espressione nella chiesa.
In questa medesima linea metodologica si muove anche il Vaticano II (Lumen Gentium, n. 8 eOptatam totius, n. 16), affermando l’esistenza di una unità indissolubile tra la dimensione socio-visibile della chiesa – totalità del mistero dell’incarnazione – e la dimensione giuridico-canonica.
L’insegnamento del Concilio, perfettamente valido a livello di contenuto, non rende tuttavia plausibile in sede di argomentazione teorica l’esistenza del diritto canonico. Se è vero infatti che il mistero dell’Incarnazione postula la socialità e la visibilità della chiesa, non è altrettanto scontato che la visibilità postuli la giuridicità. Sohm aveva, infatti, potuto affermare che la chiesa ha carattere solo carismatico. Ne consegue che in questi tentativi la normatività giuridica viene ancora postulata a partire dalla struttura sociale della convivenza umana in quanto tale, preesistente alla sua assunzione nel mistero dell’Incarnazione, per cui riemerge in profondità il pensiero giusnaturalistico del IPE.
I termini del problema non cambiano anche se al mistero dell’Incarnazione si dovesse sostituire quello della presenza dello Spirito Santo nella chiesa, come il magistero stesso ha fatto recentemente (discorso di papa Paolo VI al II Congresso Internazionale di Diritto Canonico del 1973). Per risolvere il problema non è sufficiente affermare che “tutti gli elementi istituzionali e giuridici” (come del resto anche quelli carismatici!) “sono sacri perché vivificati dallo Spirito Santo” (“Osservatore Romano” 1973, n. 213), perché questo discorso presuppone il fatto dell’esistenza del diritto ecclesiale. D’altra parte il diritto canonico non può neppure essere direttamente derivato dallo Spirito Santo senza la mediazione istituzionale della chiesa. Non si può perciò prescindere dal constatare che, in queste due posizioni metodologiche, né la dinamica teologica (che riemerge tra le righe) della elevazione della chiesa – in quanto società umana – alla sfera soprannaturale, né la soluzione volontaristica secondo cui sarebbe Cristo o lo Spirito Santo a volere direttamente la giuridicità della chiesa, vengono superate. Senza dire poi che esse continuano a definire il diritto con la categoria formale dell’iustum o dell’obiectumvirtutis iustitiae, che, essendo di estrazione filosofica, non può dare indicazioni specifiche sulla natura teologica del diritto canonico (Rouco-Varela). Evidentemente non sarebbe neppure possibile dimostrare che la dimensione giuridica della chiesa e già presente negli elementi strutturali attraverso i quali Cristo e lo Spirito Santo – in obbedienza alle modalità specifiche con le quali il Padre è manifestato nella storia – sono presenti e vivificano la chiesa, senza chiedersi poi perché Dio ha voluto e scelto queste modalità. Il problema si ripropone perciò più a monte, e viene a coincidere con la questione ultima di ogni sistema teologico, alla quale alternativamente e da sempre è stata data una risposta realistica oppure volontaristica. Si tratta nella fattispecie di evitare una soluzione volontaristica di comodo, facendo dipendere l’esistenza del diritto nella chiesa – in quanto problema isolato e particolare – dalla volontà di Cristo, perché non si riesce ad offrire una risposta organica all’interno di un’altra opzione teologica di fondo.
Evitando la soluzione sia volontaristica che giusnaturalistica Klaus Mörsdorf ha cercato l’aggancio teologico del diritto ecclesiale negli elementi costitutivi della chiesa stessa, vale a dire nella Parola e nel Sacramento. Cristo, ponendosi necessariamente dentro la dinamica della storia della salvezza in cui Dio si era già manifestato attraverso parole e fatti simbolici – strutture primordiali di comunicazione anche umana – ha conferito ad essi pienezza di significato, imprimendovi, nel segno della locutio Dei attestans, valore definitivo per l’esistenza umana. La Parola e il Sacramento, che non obbligano l’uomo a dare la sua adesione in forza della loro verità intrinseca, soggettivamente percepita (Sohm), ma per il fatto stesso che Dio ha parlato e si è manifestato, hanno perciò forza vincolante formale. Essi generano a partire dalla loro struttura intrinseca una nuova forma di aggregazione sociale, quella della chiesa, destinata in quanto tale ad essere nell’economia della Salvezza segno necessario della presenza di Dio nel mondo. Il principio “incarnazione” trova la sua realizzazione nella chiesa – sia pure senza relazione di identità totale con l’incarnazione di Cristo – attraverso la mediazione della Parola e del Sacramento, dando a tutta la realtà ecclesiale una valenza sacramentale primordiale. Esso garantisce perciò il rapporto di necessarietà e di unità esistente tra la chiesa, fondata nel ius divinum (“Ecclesia vivit iure divino”: Lutero) e il diritto canonico umano.
Il merito del Mörsdorf non sta solo nell’aver individuato un locus theologicus sicuro – anche se non esclusivo – ma anche e soprattutto nell’aver applicato di fatto un metodo rigorosamente teologico, senza fare concessioni a postulati filosofici. In sede teorica rimane per contro aperto il problema della natura teologica della nozione formale di diritto e del suo statuto epistemologico. Che anche il Mörsdorf non abbia risolto in modo del tutto soddisfacente il problema emerge dalla citatissima definizione da lui data al diritto canonico che sarebbe eine theologische Disziplin mit iuristischer Methode. Se è vero che per non incorrere in un’opzione positivistica il metodo deve essere definito a partire dalla natura dell’oggetto e non viceversa, in che senso è possibile applicare il metodo giuridico ad una realtà teologica?
Questo punto è stato precisato recentemente da Antonio Rouco Varela con la tesi che è necessario abbandonare la preconcezione filosofica, veicolata fino ad oggi nella nozione formale del diritto canonico, per sostituirla con una nozione che definisca teologicamente lo “statuto ontologico ed epistemologico” del diritto della chiesa. Il diritto canonico, infatti, non è generato dal “dinamismo spontaneo (biologico) della convivenza umana”, ma da quello inerente alla natura della chiesa, la cui socialità è prodotta geneticamente dalla Grazia ed è conoscibile solo attraverso la fede.
Secondo il vescovo ausiliare di Santiago de Compostella, il nesso tra chiesa e diritto canonico non deve essere stabilito a partire da un solo aspetto particolare del mistero della chiesa (come il principio dell’incarnazione, della sacramentalità ecc.), ma tenendo progressivamente conto di tutte le categorie teologiche essenziali di cui è costituita la realtà ecclesiale, che sono il “Popolo di Dio”, il “Corpo Mistico di Cristo”, la “Parola e il Sacramento” e la “Successione apostolica”. Non si tratta di derivare l’esistenza del diritto canonico dalla categoria “Popolo di Dio”, facendo ancora una volta ricorso al principio giusnaturalistico ubi societas, ibi et ius, bensì di dare al diritto della chiesa quella connotazione antropologica necessaria per superare lo scoglio della spiritualizzazione; scoglio sul quale è naufragata la teologia protestante, cercando l’aggancio teologico del diritto nelle categorie trascendentali della cristologia o del mistero trinitario. Dalla categoria “Corpo Mistico di Cristo” deriva la visibilità propria, di natura sacramentale, della chiesa, profondamente diversa da quella dello Stato e, di conseguenza, la connotazione specifica del suo diritto. Dalla “Parola e Sacramento” deriva il carattere vincolante, non solo interiore, ma anche esteriore del diritto canonico, mentre dalla “successione apostolica” la garanzia dell’autenticità della intimazione giuridica della chiesa di oggi.
Restando nella linea metodologica del Mörsdorf, Rouco Varela ha fatto fare un passo avanti alla questione, pur non avendo osato elaborare una definizione teologica del diritto canonico.
Ci sembra comunque che la definizione teologica del concetto formale di diritto canonico non possa essere ricavata solo dagli elementi sopra citati, perché se le categorie “Popolo di Dio”, “Corpo Mistico” e “Parola e Sacramento” hanno un contenuto materiale valido per la fondazione dell’esistenza del diritto ecclesiale – connaturandone nello stesso tempo la specificità teologica -, la “Successione apostolica” ha carattere formale e presuppone l’esistenza dell’intimazione giuridica materialmente garantita dalle altre categorie. Una definizione deve far perno attorno ad una categoria capace di cogliere sinteticamente la dimensione trascendente e immanente della intimazione giuridica propria alla socialità specifica della chiesa. Già la canonistica laica italiana, infatti, ha utilizzato la nozione medioevale della salus animarum, nel tentativo di qualificare in modo sintetico la finalità religiosa da cui deriva la natura specifica dell’ordinamento canonico (Fedele).
Oltre che per la sua valenza individualistica ed escatologica la salus animarum pecca però di estrinsecismo sia ecclesiologico che giuridico. Il principio attorno al quale deve convergere il sistema giuridico ecclesiale, per riceverne l’impronta fenomenologico-giuridica specifica, non può essere di natura paragiuridica o extraecclesiale; deve rimanere immanente alla chiesa stessa. Per questa ragione la scuola italiana stessa (D’Avack), ma soprattutto quella romana (Bigador, Bertrams e Robleda) hanno cercato di sostituire la salus animarum con il concetto di bonum commune Ecclesiae, la cui provenienza giusnaturalistica però è troppo palese per poter essere considerata pertinente.
Il concetto di communio, che a livello costituzionale del rapporto tra chiesa universale e particolare si realizza come communio Ecclesiarum, sembra invece cogliere la sostanza specifica della convivenza ecclesiale, attraverso cui si realizza e si anticipa già nella storia la salvezza escatologica. Questa categoria cogliendo l’aspetto escatologico in quanto immanente alla chiesa, sembra essere capace di esprimere la fisionomia inconfondibile della costituzione e degli istituti canonici che regolano la vita ecclesiale.
La communio è ad un tempo la realtà da realizzare e la modalità secondo cui il diritto canonico deve strutturarsi per realizzarla. Essa è, inoltre, il risultato della convergenza delle categorie “Popolo di Dio”, “Corpo Mistico” e “Parola e Sacramento”, fondanti l’esistenza del diritto canonico stesso. Ne consegue che la communio, in quanto causa materiale, formale e finale del diritto della chiesa, è per se stessa giuridicamente vincolante.
La natura teologica dello statuto ontologico del diritto canonico impone che esso sia trattato teologicamente anche dal profilo epistemologico. Al metodo storico-sistematico non può perciò essere concessa quell’autonomia razionale che esso gode nella scienza giuridica secolare; deve costantemente essere giudicato e controllato a partire dall’objectum quo, che è la fede. Benché il metodo storico-sistematico possa assumere nella canonistica solo il ruolo di disciplina ausiliare, è però sufficiente per garantire alla stessa un’autonomia specifica all’interno della scienza teologica.
Ogni dicotomia tra statuto ontologico (teologico) ed epistemologico apre la porta al vizio di metodo espresso dalla massima medioevale: legista sine canonibus parum, canonista sine legibus nihil valet. E l’equivoco di credere che, dopo aver affermato la natura teologica del diritto canonico, sia ancora possibile trattarlo dal profilo giuridico come realtà puramente umano-razionale.
Concludendo si deve affermare che la teologia del diritto canonico, cioè la canonistica, deve liberarsi dal tipo di dipendenza dalla filosofia avuta nel regime medioevale di cristianità, quando ilius canonicum aveva, oltre alla propria funzione ecclesiale, anche quella di essere ius commune, per cui era trattato dal profilo giuridico come realtà che aveva in comune con il diritto secolare o statuale la medesima nozione formale di giustizia.
Ciò non significa che la canonistica, in quanto disciplina teologica, possa sussistere slegata da ogni orizzonte filosofico-metafisico, come è avvenuto nella teologia protestante. Questa infatti avendo sostituito l’analogia entis con l’analogia fidei, ha disincarnato e separato il diritto canonico umano dal diritto divino, istituendo un dualismo metodologico che è inevitabilmente sfociato nel positivismo giuridico. La canonistica deve perciò abbandonare ogni preconcezione giusnaturalistico-filosofica del diritto, non solo di estrazione razionalistica ma anche cristiana, come quella elaborata dal pensiero medioevale nella sintesi tomistico-suaresiana. Questa nozione formale di diritto era stata elaborata in funzione di un sistema filosofico o teologico in cui il diritto era considerato primariamente come fenomeno antropologico-naturale.
L’unità tra il diritto divino-positivo e quello canonico-umano non può perciò essere stabilita attraverso la mediazione del diritto naturale. Infatti non si tratta più di stabilire il nesso tra una realtà divina, conosciuta solo razionalmente, ed una naturale, ma tra la realtà divina, soprannaturale e trascendente, conoscibile solo per fede, con quella ecclesiale, che per definizione è già una realtà sacramentale, vale a dire una realtà soprannaturale immanente – perché incarnata – nella storia, ma non conoscibile razionalmente.
L’unità tra diritto divino e canonico si pone all’interno dell’economia della salvezza, la quale essendo fondata sulla Grazia e sulla Fede ha uno statuto ontologico ed epistemologico soprannaturale. In essa la filosofia ha soltanto il compito di elaborare i praeambula fideifacendone comprendere le verità, e non quello di determinare la natura ontologica e epistemologica delle realtà che vi appartengono.
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