Omelia pronunciata nella chiesa di san Nicolao della Flue a Lugano, in occasione del quinto centenario della morte del Santo, 22 marzo 1987.
Celebriamo oggi il quinto centenario della morte di San Nicolao della Flüe. Non si tratta solo di commemorare l’importanza storica e civile del suo agire e del suo operare, per la storia della nostra convivenza nazionale, bensì di fare, in primo luogo, la memoria liturgico-sacramentale di un cristiano che appartiene, con certezza, alla comunione dei Santi e perciò alla dimensione cosmica della celebrazione eucaristica stessa. I Santi sono presenti nell’Eucaristia, in cui si realizza non solo la presenza del Corpo reale di Cristo, ma anche quella di tutto il suo Corpo mistico. San Nicolao non appartiene, perciò, solo al patrimonio della nostra storia civile, ma in modo primario anche al patrimonio irrinunciabile della nostra identità cristiana, ecclesiale e cattolica. Non possiamo eliderlo dalla coscienza che di noi stessi abbiamo in quanto membra del Corpo mistico di Cristo e del Popolo di Dio; in quanto persone appartenenti alla Chiesa cattolica.
Un cristiano che, pur nel lunghissimo silenzio di 20 anni, ha sovrastato, con la sua statura di uomo spirituale, gli uomini del suo tempo.
È nato nel 1417, un anno prima della conclusione del XVI Concilio ecumenico, che aveva avuto luogo a Costanza, tra il 1414 e il 1418, a soli 200 km. in linea d’aria da Sachseln, parrocchia dei natali di Nicolao della Flüe. Un Concilio, quello di Costanza, che aveva messo fine a uno dei fatti più incresciosi della storia della Chiesa, quello della spaccatura della Cristianità secondo l’obbedienza a tre Papi, simultanei e diversi; fatto che passò alla storia con il nome di Grande Scisma, o Scisma di Occidente.
Non fu tuttavia questo Concilio che seppe ottenere una riforma dei disordini imperanti tra il clero, i religiosi, i laici e le Facoltà teologiche. La vita ecclesiastica continuò per oltre un secolo nella confusione. La riforma non venne dall’alto, ma dalla base, dai movimenti mistici che, contro tutto e tutti, prolificarono nel corso del XV secolo. La terra più ricca di queste esperienze eremitiche e mistiche, e più vicina ai Cantoni svizzeri, fu l’Alsazia. Fu con queste correnti di alta spiritualità, attraverso eremiti insediatisi nei Cantoni primitivi, che Nicolao della Flüe entrò in contatto, fin da quando era ancora giovane. Non meraviglia perciò che abbia trascorso gli ultimi vent’anni della sua vita come eremita. Ha vissuto, anche in questo, partecipando coscientemente, e come protagonista, agli avvenimenti del suo tempo, pur essendo analfabeta.
I tratti essenziali della sua vita li conosciamo: contadino possidente, fortemente radicato nella sua terra; a 30 anni, in età adulta, sposa Dorotea Wyss, a sua volta figlia di famiglia notabile e rispettata; padre di 10 figli; magistrato e capitano d’armi; soldato in quattro campagne militari oltre i confini della sua terra, che sapeva maneggiare la spada o l’alabarda meglio degli altri, ma che si sforzava anche in questi frangenti di concedere la misericordia ai soccombenti, così come hanno certificato testimoni oculari; eremita che ha rigorosamente digiunato, cibandosi solo della particola eucaristica per tutti gli ultimi 20 anni della sua vita; pacificatore silenzioso di molte situazioni familiari e comunali, in modo clamoroso, però, degli svizzeri alla Dieta di Stans.
Deriso e ammirato nel suo villaggio natale; guardato con perplessità e scetticismo da molti, ma ascoltato dall’Europa del XV secolo, dalle cui corti e dai cui governi partivano ambasciatori (come da Milano) per consultarlo sui problemi inerenti al mantenimento della pace tra i Principi o gli Stati.
I teologi del suo tempo, smarriti nelle diatribe sterili delle Università, si sono peritati di sottoporlo ad esame; l’Inquisizione lo ha fatto sorvegliare a vista per coglierlo in fallo sul digiuno; molti curiosi sono arrivati al Ranft, da lontano, nella speranza di poter incontrare o almeno spiare l’uomo che «viveva senza mangiare», con la stessa dabbenaggine di chi spera di poter vedere un vitello a due teste; moltissimi altri sono venuti invece per toccarlo, per sentire i suoi consigli e vederlo pregare.
Un uomo che come tanti altri Santi è stato tormentato dal demonio e dai suoi fantasmi, ma un Santo, tra i pochissimi nella storia della Chiesa forse l’unico, che il Signore ha condotto fin sull’orlo dell’abisso della Trinità. L’ha intravvista, folgorato da una luce che gli ha trasfigurato per sempre il viso, come era già accaduto a Mosè sul monte Sinai. Quest’uomo che si è dato nella carne a sua moglie con la passione e l’intensità di chi sa cosa significhi amare e con il trasporto di chi è cosciente di partecipare con la sua donna, nella procreazione, all’esperienza divina della paternità; quest’uomo dall’anima gigantesca ha visto svolgersi e snodarsi davanti ai suoi occhi il dramma del rapporto, eterno e immutabile, ma sempre nuovo, vivo e sfolgorante delle persone della Santissima Trinità.
In questa visione trinitaria, che supera i confini della intelligibilità umana, Nicolao della Flüe ha colto una indicazione precisa per la sua vita, quella di essere mandato a compiere una infaticabile missione di pace tra i suoi contemporanei. È diventato il Santo della pace, tra gli uomini del suo tempo, tra gli svizzeri nostri predecessori. Un Santo che non ha confuso il pacifismo con la pace, la cui attualità è perciò immensa anche per noi cristiani chiamati a vivere questo nostro tempo. San Nicolao ha dimostrato a tutti che la visione del mistero della Trinità, in se stesso inaccessibile senza una Grazia particolarissima di Dio, ma da tutti i cristiani creduto nel dono della fede, può e deve inverarsi fino a diventare norma concreta per il nostro comportamento umano.
Quel mistero della Trinità che passa davanti alla nostra mente, in una conoscenza nascosta e velata, ogni qualvolta recitiamo il Credo, simbolo della nostra fede, può diventare criterio per il nostro modo di vivere. È sufficiente recitarlo in modo cosciente, non meccanico, per scoprire in esso le coordinate fondamentali e i punti di riferimento più sicuri per il nostro vivere e per il nostro agire. Così come mi è capitato di recitarlo recentemente, questo nostro Credo, tornando più volte sui miei passi per ripetere le parole che mi venivano sulle labbra, quando mi sono inginocchiato, per la prima volta come Vescovo, davanti alla tomba di San Pietro in Vaticano in occasione della recente visita «ad limina». Di fronte alla tomba di questo Apostolo, che è diventato il primo garante infallibile della nostra fede, il Credo ha assunto una risonanza straordinaria.
Proviamo anche noi a riflettere sulle prime asserzioni di questo Credo, quelle che concernono il Figlio di Dio, ma che coinvolgono anche il Padre e lo Spirito Santo.
«Credo in un solo Signore Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero». Sono parole semplici. dal cui accostamento emerge però un significato inesauribile. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero.
Del Figlio di Dio affermiamo anche che è «generato», che «non è creato» e che non è fatto. Del Figlio di Dio diciamo ancora che «in Lui tutte le cose sono state create, prima di tutti i secoli»: prima che il mondo fosse posto in essere concretamente nella storia, dal Padre, creatore del cielo e della terra. Diciamo ancora che il Figlio di Dio «è disceso dal cielo, per la nostra salvezza e si è fatto uomo ed è stato concepito per opera dello Spirito Santo». Siamo al limite della capacità intellettiva dell’uomo, pronunciando queste parole, eppure tutto è semplice, tanto che lo possiamo intuire tutti e credere e possiamo derivarne criteri pratici di comportamento per la nostra esistenza.
Dalla contemplazione del mistero trinitario San Nicolao ha declinato criteri per essere presente in mezzo ai suoi contemporanei.
Ha preso sul serio l’affermazione che il Figlio di Dio è disceso dal cielo per la nostra salvezza e si è fatto uomo. San Paolo nella lettera ai Filippesi (2, 6-11) dice infatti, servendosi di un linguaggio simbolico, che il Figlio di Dio non ha tenuto per sé gelosamente il fatto di essere Dio, ma che per la nostra salvezza ha accettato di assumere la condizione di uomo, rinunciando al privilegio di rimanere presso il Padre. La salvezza consiste nella pace dell’uomo con Dio: nella nostra riconciliazione con Dio, che ha come conseguenza la riconciliazione con tutti gli uomini. La pace sta nell’amare Dio e il prossimo. Il pericolo per la pace nell’epoca moderna ha la sua prima radice nell’ateismo dell’uomo moderno. E un fatto culturale nuovo nella storia dell’umanità, quello che l’uomo abbia perso o stia perdendo rapidamente la coscienza di appartenere a Dio.
Nicolao della Flüe, dopo aver intravvisto come in una luce il significato storico di questo discendere dal cielo di Cristo per la salvezza degli uomini, si è prodigato, malgrado il nascondimento del Ranft, perché gli uomini del suo tempo vivessero nella pace. La sua contemplazione della Trinità si è tradotta così in missione di pace tra i suoi contemporanei. Quello che sorprende inoltre è il fatto che ha saputo esprimere questa missione attraverso una formula semplicissima, presa dal suo contesto contadino. Agli svizzeri, ingordi e triviali, disposti a battersi a sangue, piuttosto che perderci, quando si trattava di dividere il bottino delle guerre di Borgogna, l’eremita non ha fatto ricorso ad argomentazioni dotte e sofisticate, ma ha mandato a dire: «Non estendete troppo lontano il vostro steccato e non intromettetevi negli affari degli altri». II grande mistico, che aveva contemplato la Trinità, ha declinato la sua visione nella quintessenza della saggezza naturale del contadino, usando una formula perfettamente comprensibile dai suoi concittadini, anche dai meno colti. L’impulso di pace che scaturisce dalla visione del Figlio di Dio che discende dal cielo per comporre nella pace l’uomo con Dio e gli uomini tra di loro, trova la sua espressione in una formula di saggezza umana. Ciò significa che la verità presente nel cuore dell’uomo esprime sempre una scintilla della verità di Dio.
L’uomo che ha scrutato il mistero della Trinità, ha saputo leggere segni utili per una convivenza umana, nel fatto che il Figlio di Dio (che è Dio da Dio e Luce da Luce, che è Dio vero da Dio vero) è disceso dal cielo e ha dato tutto se stesso, fino a morire sulla croce, per portare la pace all’umanità. È diventato così il padre anche della nostra esperienza politica, fondata sul principio del non espansionismo e della non ingerenza.
Una esperienza di neutralità che nella nostra storia ha assunto ben presto una terza connotazione, derivante dalle prime, quella della ospitalità. Discese dal cielo per la nostra salvezza, significa che Cristo ha dato se stesso, rinunciando alla situazione di privilegio divino, in cui aveva tutto, per portare all’uomo la conoscenza del Padre e dello Spirito Santo. Per fare questo ha dovuto spogliarsi di tutto quanto possedeva e della sua vita stessa, con la morte in croce.
Dalla contemplazione del mistero della Trinità, così come ci è possibile comprenderlo quando recitiamo il Credo, possiamo anche noi, facendo la memoria liturgica di San Nicolao, trarre qualche conclusione per la nostra vita concreta e per la situazione storica in cui viviamo.
II contributo che noi dobbiamo dare oggi alla pace nel mondo non può più esaurirsi solo nel non erigere muri di cinta troppo lontani e nel non intrometterci negli affari altrui, politica che pratichiamo da tempo immemorabile. Alla luce di questo principio dovremmo, invece, giudicare e valutare il rispetto reale del principio secondo cui la Svizzera non dovrebbe vendere armi ai Paesi implicati in conflitti armati o in pericolo di esservi implicati. Dallo stesso criterio dovremmo declinare anche la convinzione che la nostra politica in favore della pace nel mondo dovrebbe tradursi anche in una più generosa politica di accoglienza degli altri, degli stranieri, dei lavoratori, dei profughi e dei rifugiati. Una politica retta da realismo, certo, ma, proprio per questo, non dettata in modo prioritario dalla paura per la nostra sopravvivenza nazionale. Una politica che non dovrebbe, neppure lontanamente, poter essere accostata a quella della «sicurezza nazionale» praticata in altri Continenti.
Cari sorelle e fratelli nel Signore, celebrando il quinto centenario della morte di un Santo che appartiene alla più grande tradizione della nostra convivenza civile; di un Santo che, pur avendo vissuto con assoluta intensità tutte le tappe della sua esistenza umana; di un Santo che, pur essendo passato attraverso l’esperienza più primordiale dell’uomo, quella del matrimonio e della procreazione, è stato elevato da Dio fino ai confini senza limiti della conoscenza del mistero del rapporto interno alle persone della santissima Trinità; di un Santo che ha realizzato in se stesso, pienamente, la coscienza di essere stato creato a immagine e somiglianza del Dio trino; celebrando la memoria di questa grandissima figura di cristiano, così familiare col mistero della Trinità, dobbiamo fare un’ultima riflessione inerente al momento storico in cui viviamo.
Se dalla recita del Credo in cui ricordiamo che il Figlio di Dio è disceso e si è fatto uomo, dando tutto se stesso fino a sacrificarsi sulla croce, dobbiamo capire con maggior senso di attualità il contributo che noi cristiani dobbiamo dare oggi alla pace tra i popoli, da un altro versetto del Credo, quello in cui si asserisce che il Figlio di Dio è stato «generato» e non fatto, dobbiamo saper cogliere un’indicazione precisa per affrontare uno dei problemi più scottanti della nostra epoca, un’epoca che, per la prima volta nella storia, ha visto l’uomo in grado di produrre l’uomo: il problema della procreazione artificiale.
L’essere stati creati a immagine e somiglianza del Dio trino, ci deve far capire che il solo modo adeguato e degno della dignità dell’uomo per trasmettere la vita è quello della generazione. Il Figlio di Dio è stato generato, non creato e non fatto. L’esperienza comune ci permette di capire cosa voglia dire generare: è il fatto di trasmettere la vita in modo immanente ad un atto di amore tra l’uomo e la donna. Se il Figlio di Dio, in cui tutti siamo stati creati e che è l’immagine di tutte le cose create, è stato generato, anche l’uomo fatto a sua immagine e somiglianza, pur essendo creato da Dio – contrariamente al Verbo – può solo essere generato e non può essere fatto. L’uomo, in quanto essere che realizza in se stesso una dimensione divina, perché porta impressa nella sua natura l’immagine e la somiglianza di Dio, non può essere prodotto come una cosa. Non è adeguato alla dignità incommensurabile della persona umana, partecipe in se stessa della dignità stessa del Dio trino, essere fatto, come qualsiasi prodotto della tecnica.
La produzione dell’uomo in vitro non è un atto di generazione, anche quando fosse omologa, come afferma il recentissimo documento del Magistero papale che porta il titolo emblematicoDonum vitae: il dono della vita. Dobbiamo imparare a tenerne conto. Devono tenerne conto anche quei genitori che nobilmente desiderano avere un figlio, non potendolo generare. Per essere facilitati a capire questa dottrina della Chiesa, dobbiamo anche sapere che non esiste il diritto dei genitori ad avere un figlio, perché la dignità della persona umana non ammette che essa possa diventare l’oggetto di diritto di un’altra persona.
L’uomo creato a immagine di Dio non può essere fatto o prodotto dall’uomo, può essere solo generato, sul modello del Figlio stesso di Dio, che è generato all’interno del rapporto trinitario. La nostra immagine e somiglianza di Dio sarebbe vana, se essa non si avverasse nell’uomo proprio al momento della sua venuta all’essere e alla vita.
Affermando queste cose, non ci siamo allontanati da Nicolao della Flüe, che vogliamo commemorare oggi nel quinto centenario della sua morte. È il Santo la cui caratteristica specifica è stata senza dubbio quella di aver avuto la visione del mistero della Trinità, come testimonia il drappo dipinto da un suo contemporaneo su indicazione del Santo stesso. Un Santo che ha capito come il mistero della Trinità non solo ci determina nella natura profonda del nostro essere, fatto a sua immagine e somiglianza, ma ci deve determinare, oggi, nel nostro rapporto con l’uomo stesso. È questo un rapporto che non possiamo degradare a un “fare” o “produrre”; deve rimanere sempre simile a quella generazione, in forza della quale il Figlio di Dio, Gesù Cristo, Dio vero da Dio vero, Luce da Luce, è generato eternamente dal Padre in un gesto incommensurabile di amore e di tenerezza divina. Anche l’uomo deve essere uomo vero da uomo vero, generato e non fatto, in un certo senso portatore in sé della sostanza, cioè della natura stessa di Dio.