Omelia per il V centenario della nascita di San Girolamo Emiliani, fondatore dei padri somaschi, Bellinzona, febbraio 1987.
San Girolamo Emiliani, un gentiluomo laico che fu contemporaneo, nei primi decenni del ‘500, di due altri rampolli della borghesia e della nobiltà delle terre venete: Gaetano da Thiene, padre dei Teatini, e Antonio Maria Zaccaria, fondatore dei Barnabiti come lui sono diventati santi e fondatori di Congregazioni o Società di chierici.
Questi tre uomini, che sovrastano i loro contemporanei per la forza e la creatività della loro fede, rivelano alcuni tratti comuni, sui quali merita riflettere anche a cinque secoli di distanza.
Vivono in una società spaccata da profonde contraddizioni: la ricchezza provocante del Rinascimento, appannaggio di pochi privilegiati, e l’estrema povertà e miseria di molti, anzi della stragrande maggioranza della popolazione, esattamente come nella nostra società moderna.
Vivono un’esperienza ecclesiale che ha come protagonista la Roma dei Papi del Rinascimento, al centro dell’ammirazione o dell’esecrazione universale. Per molti Roma rappresentava, infatti, la Gerusalemme non solo della fede, ma della civiltà e dell’arte; per altri, invece, rappresentava la Babilonia, dove si faceva mercato delle cose sacre, e, con la scusa della cultura e dell’arte, si viveva in un clima di rinnovato paganesimo.
Questi Santi non pensano né all’una né all’altra cosa, non sprecano le loro energie partecipando alle lotte ideologiche del tempo, che non hanno potuto impedire d’attecchire al seme della Riforma protestante, seme che ha rotto l’unità religiosa e politica della società europea.
Questi uomini pensano a Cristo e si mettono all’opera per salvare gli uomini e il clero del loro tempo, come Gaetano da Thiene che nel ciclone delle diatribe e polemiche pensava a Cristo e diceva: «Gesù attende e niuno si muove». Tutti e tre questi uomini hanno distribuito il loro patrimonio ai poveri e hanno speso tutte le loro risorse umane per gli emarginati del tempo, creando ospizi per i poveri, ricoveri per le persone sbandate, ospedali per gli ammalati e i moribondi di una società periodicamente flagellata da terribili carestie e dalla peste. Tutti e tre hanno creato scuole per giovani, nella coscienza che l’umanità e la società possono essere salvate solo a condizione di essere educate alla fede e ad una cultura che non elida Dio, come presupposto dei progresso sociale ed economico. Tutti e tre, questi Santi, hanno capito con intuito infallibile che il presupposto per la ripresa religiosa del popolo cristiano era quello della riforma spirituale e culturale del clero. L’hanno perciò costituito in società o fraternità, che permettessero ai preti di fare un’esperienza di comunione profonda, sottratti allo sfascio della ricchezza o della povertà, all’umiliazione della ignoranza o della mondanità, alla riduzione dell’individualismo e della solitudine.
Se guardiamo su scala mondiale la nostra società contemporanea e se dovessimo riepilogare l’esperienza ecclesiale da noi vissuta in questi ultimi venti anni, possiamo comprendere l’indiscussa attualità dell’eredità spirituale lasciataci da questi tre cristiani e l’attualità del loro metodo, dettato dalla fede nell’approccio dei problemi sociali ed ecclesiali del loro tempo.
Anche noi, pur vivendo nel benessere privilegiato delle nostre città, siamo tentati di limitarci a prendere parte, pro o contro, alle discussioni sui fenomeni di scompenso sociale, politico e culturale e sulle cause che provocano quegli squilibri spesso terrificanti, di cui i mass-media ci rendono edotti di giorno in giorno. La fede o la nostra appartenenza religiosa diventano spesso semplice occasione di schieramento a destra o a sinistra, raramente, invece, movente e motivazione di un nostro impegno personale, per alleviare, per quanto possibile, le contraddizioni immanenti anche alla nostra società del benessere in cui, come tutti sappiamo, è recentemente emersa l’esistenza di una nuova povertà. 1
Esistono indubbi sintomi che queste constatazioni siano vere. Basterebbe ricordare la questione dei rifugiati e dei richiedenti l’asilo, per accorgerci che esauriamo spesso le nostre energie attorno alla questione politica di principio, senza accorgerci che queste persone vivono comunque già in mezzo a noi e saranno sempre presenti tra di noi anche in futuro. Ignoriamo il dovere della accoglienza, che dovremmo offrire loro, come ci raccomandano i Vescovi Svizzeri nel loro rapporto e nel loro recente appello 2, prima ancora di porci le questioni di principio. Questo, anche quando non dovessimo considerare cinicamente gli asilanti come persone estranee alla nostra vita e alla nostra convivenza sociale.
Esistono molti altri bisogni sociali, sui quali abbiamo (e discutiamo) la nostra opinione, come quello della rovina fisica e morale provocata dalla droga nei ranghi della nostra gioventù; la minaccia dell’Aids, paragonabile forse a quella della peste bubbonica del ‘500; il fenomeno dei figli abbandonati a se stessi dalle loro famiglie; quello delle donne picchiate, delle persone e famiglie indebitate dal piccolo credito; quello delle innumerevoli persone sole. Ma di fronte a questi e ad altri fenomeni spesso nascosti della nostra società non abbiamo né la forza di mobilitarci con gesti concreti per darvi una risposta, né, ultimamente, la generosità per sostenere chi si impegna, come avviene per esempio grazie alle numerosissime opere assistenziali della nostra diocesi.
Ci possiamo chiedere chi tra di noi ha ancora il coraggio di sostenere con determinazione e fedeltà opere assistenziali antiche o di suscitarne di nuove. Nella migliore ipotesi registriamo il contraccolpo di queste situazioni sociali, a livello psicologico e sentimentale, ma non troviamo
il modo di agire concretamente.
Lo stesso fenomeno diventa ancora più macroscopico quando dovessimo analizzare il nostro comportamento cristiano, rispetto alle più vaste e più profonde contraddizioni sociali e politiche che dilaniano la società umana a livello internazionale. Spesso, pur essendo addolorati di fronte a queste situazioni, non sappiamo neppure offrire le briciole più piccole del nostro benessere.
L’esempio di San Girolamo Emiliani, come quello dei due preti suoi contemporanei, ci deve aiutare a capire il metodo fondamentale della nostra presenza cristiana nel mondo e nella società. Non può essere una presenza che tocchi la nostra persona solo alla superficie di se stessa, esaurendosi in una partecipazione astratta e teorica ai problemi, ma una presenza che coinvolga tutto il nostro essere.
Ciò vale anche per il modo di vivere la nostra appartenenza alla Chiesa. Ci occupiamo, magari fortemente ideologizzati, dei problemi della Chiesa, ma nella nostra astrattezza non ci accorgiamo che la Chiesa è resa presente nel mondo solo nella misura in cui noi ne realizziamo la dinamica sulla nostra persona. La Chiesa non è una realtà astratta personificata da alcune strutture, ma coincide con quella parte di umanità e della nostra persona che è realmente convertita dalla fede in Cristo.
Se questa divaricazione tra fede e prassi esiste, è perché la nostra fede rimane astratta, senza diventare l’elemento genetico della nostra esperienza di vita. Viviamo accanto alla nostra fede, non permettendo che questa investa tutti i settori della nostra vita. Rimane una forma di partecipazione intellettuale oppure semplicemente nozionistica al mistero della persona di Cristo. Ciò di cui dobbiamo preoccuparci non è tanto il fatto della divaricazione tra la nostra conoscenza del Vangelo (quando lo conosciamo) e la prassi concreta della nostra vita, perché è spesso solo l’esito della nostra fragilità morale; quanto piuttosto del fatto più profondo e incidente che teorizziamo l’esclusione dalla sfera della fede di quei settori della vita che realmente contano: quello della nostra famiglia, quello del nostro rapporto affettivo e coniugale, quello della professione e della carriera, quello dei rapporti con gli altri e quello patrimoniale, come se questi settori non c’entrassero con la fede e potessero essere vissuti secondo i modelli che la società o l’opinione dominante ci propongono.
Il desiderio della salvezza eterna della nostra anima non si traduce in desiderio di salvare il nostro modo di vivere e la nostra esistenza, dalla mondanità e dalla mancanza di identità impostaci dall’ambiente culturale in cui viviamo. La nostra fede in Cristo rimane intellettuale, senza provocare e investire la vita di tutti i giorni, quella cui veramente teniamo, che rimane così determinata da una concezione estranea alla fede. Siamo cristiani in perdita di identità, che vivono un’esperienza religiosa debole, incapace di diventare creativa. L’esperienza religiosa ricca di operosità, come quella di San Girolamo Emiliani, rimane un Girolamo Emiliani non solo ha dato i suoi beni, come Cristo ha raccomandato nel Vangelo di oggi al giovane ricco, ma ha dato tutta la sua persona. In effetti il giovane ricco non ha avuto tanta paura di perdere le sue ricchezze, quanto di perdere se stesso. È questa la paura che ci attanaglia di fronte a Cristo, quella di perdere noi stessi, di perdere uno spazio di autonomia nei suoi confronti. Non a tutti è chiesto di rinunciare concretamente a tutto o a parte di ciò che possiede, anzi a questa rinuncia Cristo invita solo pochissimi privilegiati. A tutti è chiesto invece di dare la propria persona, di non dare solo una parte di essa e di non aderire a Cristo solo astrattamente, perdendosi in una fede solo intellettualistica, facile preda alle diatribe del tempo, sempre pronte ad attribuire la colpa dei problemi personali e della società delle strutture o alla poca fede degli altri.
San Girolamo Emiliani, come i due santi suoi contemporanei, che abbiamo ricordato perché accomunati da una stessa metodologia cristiana – quella di aver affrontato la società e il mondo pieno di contraddizioni in cui hanno vissuto, non a livello di diatriba ideologica, ma di compromissione personale con i fatti sociali e le persone concrete da loro conosciute – questi Santi non hanno avuto la pretesa di salvare la loro società con un progetto politico, ma hanno operato concretamente nella breve cerchia di persone e di cose che il Signore ha permesso loro di incontrare e di toccare. Per questo il laico Girolamo Emiliani è diventato santo, non per aver creduto di avere il compito di cambiare il mondo, ma per aver creduto, invece, che solo Cristo lo può salvare e che Cristo lo salva anche se noi uomini non riuscissimo, come non riusciremo mai, a trasformarlo totalmente al profilo sociale, economico e politico, senza però rimanere con le mani in mano. Hanno fatto tutto come se tutto fosse dipeso dal doro lavoro apostolico e caritativo. Noi cristiani non siamo chiamati a cambiare il mondo da soli, perché questo compito è stato affidato da Dio nella creazione a tutti gli uomini; è il mandato culturale che incombe a tutti, indistintamente. Noi cristiani siamo chiamati a porre soprattutto segni profetici, come sono stati posti da San Girolamo Emiliani, segni che durano fino ad oggi.
Sono segni profetici che ricordano a noi stessi e a tutti gli uomini la presenza di Cristo in noi e della sua Chiesa nel mondo, presenza che permette a tutti gli uomini di buona volontà di credere che la salvezza non viene dall’uomo, non è opera delle sue mani, ma viene da Cristo, è spirituale e non coincide con la salvezza temporale e con il benessere.
1 Christian Marazzi, «La povertà in Ticino», Dipartimento Opere Sociali, 1986.
2 Dalla parte dei profughi – Per una politica d’asilo umana , Memorandum II delle tre Chiese nazionali sul problema del diritto d’asilo e dei profughi, 13 gennaio 1987.