Omelia per la festa di San Carlo Borromeo, patrono della Diocesi, tenuta in Cattedrale il 9 novembre 1986.
«Le anime si conquistano con le ginocchia», ripeteva S. Carlo Borromeo, e in effetti, scrive Piero Bargellini, Carlo Borromeo fu uno dei maggiori conquistatori di anime di tutti i tempi. Figlio dei Conti Borromeo, padroni e Signori del Lago Maggiore e delle terre rivierasche, fu già tonsurato quando aveva solo 12 anni, in omaggio alla carriera riservata ai secondogeniti delle famiglie nobiliari. A soli 22 anni ricevette dallo zio Papa Pio IV il cappello cardinalizio, sul quale piovvero abbondanti onori e prebende. Carlo Borromeo prese però le cose sul serio, scoprendo, nella sua rapida ascesa nepotista, la chiamata di Dio. Dopo la morte prematura del fratello primogenito rinunciò perciò alla successione quale capo della famiglia Borromeo, rimanendo nello stato ecclesiastico. A 27 anni entra trionfalmente a Milano, quale arcivescovo di una Diocesi, vasta come un regno, che si estende su terre lombarde, venete, genovesi e svizzere. Un’arcidiocesi che conta 5000 preti secolari e religiosi e 3500 religiose, ma che, per non aver visto, per ben 80 anni, risiedere i propri Vescovi, mondanamente occupati presso sfarzose corti rinascimentali italiane, si trovava in uno stato di corruzione morale generale, del popolo, del clero e della fede.
Nel breve volgere dei 19 anni del suo episcopato, il giovane Vescovo, che morì a soli 46 anni il 3 novembre 1584, visitò l’arcidiocesi in ogni suo angolo. Per ben sette volte percorse a cavallo le nostre terre ticinesi passando cinque volte nelle Tre Valli.
Conquista le anime dei suoi fedeli con la preghiera e la penitenza, ma questo rigore personale, che lo preserva da ogni ambizione di potere mondano, lo sollecita anche a impugnare tutti i problemi del suo tempo, con la forza e la decisione di un protagonista.
La fede di Carlo Borromeo non si esprime solo nell’ascetismo austero della sua vita privata, quella che ci imprime tanta paura e tanto sgomento, ma si declina anche come presenza storica, nei tre ambiti fondamentali della vita pubblica, quello ecclesiastico, quello politico e quello sociale.
Si è inserito come protagonista, superando tutti i suoi contemporanei, nel processo di riforma cattolica della Chiesa, dedicando la sua vita di pastore all’applicazione, prima su se stesso che sugli altri, delle direttive di rinnovamento della vita ecclesiale, promulgate dal Concilio di Trento cui egli stesso aveva appena preso parte. Divenne così il modello del Vescovo tridentino, al quale tutti i riformatori cattolici e i santi dell’epoca hanno guardato con ammirazione e consolazione. La sua attività pastorale fu prodigiosa; come organizzatore, ispiratore e fondatore di opere, di iniziative; come legislatore sapiente e minuzioso, grazie alla convocazione di ben sei Concili provinciali ai quali convennero non solo i vescovi della provincia di Milano, ma quelli di tutta l’Italia settentrionale. Gli atti di questi Concili milanesi vennero richiesti in centinaia di copie dagli arcivescovi di Lione e Toledo, e S. Francesco di Sales scrive da Ginevra che «lo studio di quelle pagine era indispensabile per ogni vescovo».
Sul piano politico si impegnò, da una parte, lottando contro le prepotenze dei Signori e le angherie dei Governatori spagnoli di Milano, così come ci ricorda il Manzoni nei Promessi Sposi; dall’altra, cercò nei Cantoni Svizzeri e nei Comuni grigionesi il contatto e la collaborazione delle personalità politiche più eminenti per impedire che i Governi di quei Paesi, resi arbitri della fede dei loro sudditi dalla Pace di Augusta del 1555, decidessero di introdurre la riforma protestante. «L’uomo più austero di questa epoca», constata ancora S. Francesco di Sales, quasi suo contemporaneo, «non ha esitato, con senso inaspettato di una santa libertà, a brindare con molti uomini politici, più di quanto non lo richiedesse la sua sete, per cattivarsi la loro sequela al suo progetto di salvaguardia della fede cattolica».
In campo sociale profuse a piene mani le ricchezze di famiglia fino all’esaurimento, in favore dei poveri, creando ospedali e ospizi, istituzioni di assistenza di ogni sorta, collegi per l’istruzione dei meno abbienti, di cui hanno beneficiato largamente anche gli svizzeri: a Milano con il Collegio Elvetico, a Pollegio con il Collegio di S. Maria e ad Ascona con il Papio. Tre istituti tuttora esistenti.
Durante la durissima carestia del 1569 procurò ingenti acquisti di farina, di riso e di legumi; ordinò che si tenessero caldaie piene di cibi caldi, sotto i portici del palazzo arcivescovile, al quale non era impedito a nessuno l’accesso. Più di 3000 persone al giorno vennero nutrite dall’Arcivescovo durante i lunghi mesi della carestia, inducendolo a indebitarsi e a mendicare lui stesso presso altri ricchi. L’apice del suo altruismo eroico nell’attività sociale fu toccato nel 1577, anno della terribile peste che coinvolse gran parte dell’Italia settentrionale, tanto che prese il nome di «peste di San Carlo». È. ancora il Manzoni che ricorda «che tra le memorie così varie e così solenni di un infortunio generale… quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora dei mali». Mentre molte personalità autorevoli, come il governatore spagnolo, fuggivano da Milano in posti più sicuri, Carlo Borromeo decide di rimanere accettando l’eventualità della morte. Stila infatti il suo testamento in cui lascia erede universale dei suoi beni personali l’Ospedale Maggiore. Fa costruire 200 capanne per accogliere gli appestati, al di fuori di ciascuna porta della città; manda il suo domestico friburghese in Leventina, presso gli Svizzeri, per farsi dare 70 uomini e donne e alcuni preti che lo aiutino a Milano ad assistere gli appestati; adopera gli arazzi e le tappezzerie del suo palazzo e distribuisce 1500 braccia di panno per confezionare vestiti da distribuire ai poveri durante quell’inverno di particolare rigore; esce ogni giorno a visitare di persona gli appestati, raggiungendo anche Brissago dove entra nelle case di ciascuno, distribuendo a tutti denaro.
Se commemoriamo San Carlo come patrono principale della nostra Diocesi è perché oggi possiamo ancora, attraverso questi brevi profili della sua persona, trarre insegnamento per la nostra presenza di cristiani nella società moderna, di cui respiriamo a pieni polmoni la cultura. Non è al Cardinale Arcivescovo in quanto tale; non è all’uomo ricchissimo che può aiutare con dovizia i poveri e non è neppure al Santo in quanto tale, un Santo quasi intangibile per la nostra sensibilità edonista, che dobbiamo guardare in primo luogo. È a Carlo Borromeo quale cristiano, quale battezzato che vive la sua esistenza a partire dalla fede in Cristo, che dobbiamo guardare, perché questa fede è l’unico punto comune tra noi cristiani del XX secolo e lui cittadino del XVI secolo. Malgrado le insormontabili differenze di origine, di funzione, di censo, malgrado i mutamenti radicali intervenuti nella situazione culturale, politica e sociale, abbiamo con lui il fatto comune di essere anche noi cristiani.
L’attualità della sua testimonianza non è sorprendente, poiché consiste nel fatto che a distanza di quattro secoli anche noi, come lui, siamo cristiani, persone che credono in Cristo. Non ci dobbiamo lasciare ingannare dalle differenze, perché sono solo estrinseche; sono quelle derivanti dalla diversa situazione personale, familiare, sociale e culturale. L’elemento comune sta nella possibilità di utilizzare la fede per vivere il nostro destino di uomini. Carlo Borromeo non è grande perché è stato uno dei protagonisti europei del suo tempo, poiché molti altri furono i protagonisti di quell’epoca. È grande perché ha capito che abbandonando i parametri di vita e di comportamento dei suoi contemporanei in nome di Cristo, quelli di una situazione economica e sociale molto privilegiata, poteva porsi nella società di allora con una nuova identità umana, capace di portare un messaggio nuovo nei confronti del mondo ecclesiastico, politico e sociale del suo tempo.
In questo senso la sua testimonianza è perenne e vale anche oggi, per qualsiasi cristiano e per ciascuno di noi, indipendentemente dalla situazione culturale, patrimoniale e sociale irreversibilmente diverse. Ci aiuta a capire che la fede in Cristo può diventare anche per noi principio di identità della nostra persona. Vale anche per noi e, nello stesso tempo, mette a nudo la nostra debolezza. Essa sta nel fatto che, a differenza di Carlo Borromeo, ci lasciamo determinare acriticamente, sia che siamo ricchi, sia che siamo meno ricchi o poveri, dall’ambiente culturale e sociale in cui viviamo, incapaci di esprimere a livello dell’ascesi personale e del nostro impegno professionale una identità che trovi, nella fede e nell’appartenenza a Cristo, il principio per un’esistenza diversa da quella che conduciamo. Siamo cristiani a religiosità debole, che rincorrono il desiderio di appartenenza a Dio, ma restiamo disassociati, perché viviamo una fede ed una ascesi intimistiche, estranee al mondo; oppure perché viviamo proiettati negli impegni professionali e sociali, censurando l’impeto della nostra famiglia, dell’educazione dei nostri figli, della scelta della nostra carriera e dello svolgimento della nostra professione, della fruizione del tempo libero, dei mezzi di comunicazione, della scelta delle nostre amicizie, dell’uso dei nostri beni materiali, del nostro modo di pensare la vita privata e quella sociale.
L’assoluta priorità costantemente data da Carlo Borromeo alle persone più deboli della società di allora ci deve far riflettere in questa domenica dedicata la tema del migrante, al modo con il quale ci rapportiamo con gli stranieri che operano in condizioni molto più difficili della nostra nel nostro contesto economico-sociale, di cui siamo i beneficiari privilegiati. Ci deve far riflettere sul modo con il quale pensiamo e operiamo concretamente con i rifugiati e i candidati all’asilo, la cui presenza spaventa e raggela irrazionalmente il nostro cuore.
In effetti, viviamo tutte queste cose, che tessono il contenuto della nostra vita reale, quella che conta ai nostri e agli occhi del mondo, come se la nostra fede in Cristo non c’entrasse.
San Carlo «ha salvato le anime con le ginocchia»; ha salvato cioè i suoi contemporanei, riconvertendoli al senso di Dio e alla centralità di Cristo per il destino dell’uomo e della società. L’ha fatto perché ha messo la sua ascesi e la sua penitenza intima al servizio della testimonianza della sua fede, nell’ambito dell’impegno pubblico, ecclesiale, politico e culturale. Ha capito che la fede non gli era stata data solo per usufrutto individuale e personale, ma per manifestarla e trasmetterla ai suoi contemporanei interessandosi ai problemi che aveva in comune con essi e con tutta la società in cui viveva.
Questa figura di Carlo Borromeo, santo, perché ha vissuto la nostra stessa condizione di cristiani raggiungendo, per speciale grazia di Dio, la perfezione, questo San Carlo, della cui memoria sono sovraccariche le nostre terre ticinesi, non ci propone in primo luogo il modello della sua santità eroica, bensì l’immagine di come essere cristiano; un modello secondo cui anche noi dobbiamo vivere la nostra esistenza umana di tutti i giorni. Un modello in cui la persona, la nostra persona, si identifica con la propria fede in Cristo; sa usare la fede come criterio religioso e culturale secondo cui vivere tutti gli interessi della vita, anche se, a differenza di Carlo Borromeo, non siamo capaci e non ci è data la Grazia di vivere questa nostra identità cristiana senza peccato.