Omelia per le esequie del dr. prof. Carlo Felice Beretta Piccoliil 19 luglio 1994.
Cari fratelli e sorelle nel Signore,
vi confesso che avrei preferito se nessuno mi avesse mai posto questa domanda, che invece mi è stata rivolta, quasi con violenza e con la pretesa che il Vescovo potesse e dovesse darle una risposta: Perché è avvenuta la morte di Carlo Felice?
In realtà è una domanda che anch’io, come tutti voi, sento emergere, insopprimibile, nel profondo della mia coscienza.
Oggi, nessuno, neppure il Vescovo, è in grado di dare una spiegazione della sua tragica morte, perché rimane nascosta nell’incommensurabile mistero di Dio. Potrebbe capitare che gli eventi futuri della famiglia, degli amici, delle persone o delle istituzioni, cui Carlo Felice dedicava con amore le migliori energie della sua intelligenza e della sua vita, lascino trapelare un’ipotesi di risposta, ma, per il momento, dobbiamo accontentarci di credere che, se Dio ha permesso la sua morte e chiede a tutti noi di viverla con grandissima sofferenza e senza ribellione interiore, una ragione esiste.
Qualcuno potrebbe pensare alla semplice fatalità, ma è certo che il destino di una persona non può mai essere subordinato all’irragionevolezza della pura casualità. La persona umana “è l’unica creatura che Dio ha voluto per se stessa” (GS 24). Nel suo vivere e morire non può perciò dipendere dal puro caso. La nostra dignità umana dipende perciò dal fatto di essere stata creata da Dio, a sua immagine e somiglianza. Ne consegue che la nostra vita e la nostra morte sono legate in ogni istante a Dio, presente dentro di noi, come immagine di noi stessi.
Altri potrebbero pensare che Dio abbia voluto direttamente la morte di Carlo Felice, come potrebbe volere la nostra, in ogni istante.
Se di volta in volta, secondo le persone e le circostanze, fosse ammissibile credere che Dio possa volere la morte di una persona oppure l’eccidio di tutto un popolo, come in Rwanda, allora Dio apparirebbe inevitabilmente agli occhi della ragione umana come un essere giusto oppure ingiusto, a dipendenza delle circostanze, delle situazioni e delle nostre passioni.
Anche questo secondo modo di immaginare il rapporto di Dio con noi uomini è profondamente sbagliato. Dio, infatti, per definizione stessa è, ed è sempre giusto. Gli “dei” volubili nelle loro decisioni, arbitri nelle loro preferenze, ingiusti e vendicativi, possono appartenere solo al mondo della mitologia, non alla sfera della ragione e dell’autentico pensiero umano.
Il Libro della Genesi ci insegna, che la morte non è frutto della volontà di Dio Padre Creatore, che ha fatto l’uomo immortale, bensì la conseguenza intrinseca del peccato. All’origine della morte sta perciò il peccato commesso dall’uomo stesso. La ribellione dei progenitori nei confronti di Dio ha minato l’uomo nella sua stessa esistenza; lo ha reso soggetto alla violenza della morte corporea. Ha posto la morte, con tutta la sua drammaticità e forza distruttiva, come condizione previa del passaggio della persona umana, da questa vita terrena a quella dell’eternità.
Gesù stesso ha affrontato il momento devastante della morte corporale, per poter assumere tutti noi nel fenomeno glorioso della Sua risurrezione. Ci ha fatti partecipi della Sua risurrezione, dalla quale noi tutti, come Lui, saremo restaurati anche nella nostra corporeità umana. Gesù risorto è apparso agli Apostoli ed ai Discepoli, proprio per mostrare a tutti le conseguenze rigeneratrici della Sua risurrezione.
Nella fede sappiamo così, che anche noi saremo ricostituiti, come Cristo stesso, nello splendore della nostra umanità, anche corporale; un’umanità paragonabile a quella che il Padre aveva voluto fosse, prima che con il peccato originale l’uomo la compromettesse.
Se la morte è la conseguenza del peccato, di quello originale, nel cui solco si pone come conseguenza ogni nostro peccato personale, ciò significa che il sopravvenire del fenomeno della morte, nel nostro destino, è il frutto della libertà dell’uomo. Fin dall’origine il peccato, e perciò la morte, si sono posti come conseguenza della libera scelta dell’uomo.
La morte non è pertanto la conseguenza di un atto positivo di volontà di Dio, bensì la conseguenza del peccato umano: un atto posto dall’uomo in forza della sua libertà.
Poiché la morte è il frutto avvelenato ed amaro della libertà dell’uomo, neppure Dio può sottrarci a questo momento drammatico, che appartiene al nostro destino quotidiano.
Attraverso la risurrezione del Figlio, il Padre ci ha salvati, concedendoci la risurrezione, che restituisce alla nostra persona la possibilità di vivere l’aldilà, non solo secondo lo spirito, ma anche, come in Cristo, secondo la compiutezza della nostra corporeità; secondo la totalità della nostra persona.
Malgrado queste risposte della fede e della ragione, resta tuttavia una domanda cui il cristiano non può rispondere: perché Dio, che potrebbe impedirlo, permette che la morte di una persona sopraggiunga inaspettata, in circostanze non corrispondenti al corso normale e prevedibile della vita?
Sappiamo che la grazia ed il miracolo sono possibili, ma ciò che non possiamo spiegare è perché a volte essi sono concessi ed a volte Dio non ce li concede.
Con certezza sappiamo soltanto che la vita umana non è guidata da un destino cieco, anonimo e irrazionale, ma si svolge nell’ambito della Provvidenza di Dio. Non dobbiamo però pensare alla Provvidenza solo come ad un intervento di Dio, che appaga un nostro desiderio e le nostre aspettative di benessere. L’idea di Provvidenza – intesa solamente come aiuto immediatamente gratificante di Dio – così come ci ha abituato a pensare ad esempio Alessandro Manzoni, è imprecisa e riduttiva. Esiste anche questa forma di Provvidenza, ma essa è solo l’espressione di una presenza di Dio molto più globale nella trama della nostra esistenza; una presenza che per lo più non riusciamo a decifrare immediatamente con sicurezza.
Se viviamo con fede è possibile che un giorno i nessi inerenti alla morte di una persona, ed allo svolgersi della storia della sua famiglia e degli sviluppi di una realtà sociale, emergano progressivamente, fino a farci comprendere perché Dio abbia potuto permettere (o non abbia voluto impedire) tale dolore. Qualche volta tuttavia è possibile interpretare, a grandi linee, le connessioni nascoste che reggono l’intervento provvidenziale di Dio nella vita degli uomini.
Cari fratelli e sorelle nel Signore. Fatte queste premesse, cercherò di non sottrarmi ulteriormente al dovere di dare una risposta alla domanda che tutti oggi portiamo nel cuore e che si pone ogni volta che la morte di una persona sembra contraddire ogni criterio della ragionevolezza umana.
La morte di una persona non è mai la conseguenza di una fatalità cieca ed anonima, perché l’uomo non appartiene a un destino anonimo ed inafferrabile, ma ad un Dio personale, che ci ama intensissimamente.
La morte corporale non è mai la conseguenza di un atto positivo della volontà di Dio, perché essa è inerente al destino umano, come conseguenza del peccato e perciò della libertà dell’uomo.
Nel mistero della Provvidenza, che governa e regge la storia dell’umanità, la morte prematura di una persona può essere permessa da Dio solo in vista di un bene che malgrado le apparenze, è sempre superiore ai nostri desideri ed alle nostre aspettative mondane, perché Dio nella Sua Provvidenza può volere e permettere solo il bene di una persona, di una famiglia, di una società. Questo è vero anche se nell’immediato non riusciamo a capirlo e ad accettarlo.
Ne consegue che, per noi, l’essenziale non sta nella capacità di interpretare gli eventi che ci concernono, magari anche durissimamente, ma nella capacità di affidare la nostra persona a Dio, con la certezza incrollabile che Lui vuole sempre e comunque il nostro bene.
In questo senso risultano particolarmente appropriati i due testi che voi figli avete scelto per le esequie di vostro padre. Se è vero che Cristo, immagine visibile di Dio in mezzo a noi, in forza della Sua risurrezione è il nostro Salvatore, così da redimere la nostra vita anche dalle conseguenze devastanti della morte corporale; se è vero che Lui è il Redentore, che salva per l’eternità anche vostro padre e nel suo avvenire terreno anche la vostra famiglia; se crediamo che Gesù è il nostro Salvatore, allora niente ci può separare da Lui, neppure la morte; neppure quella di vostro padre.
Questa verità ci è ricordata da San Paolo, pure confrontato con mille dolori e tribolazioni, nel brano della Lettera ai Romani che avete scelto (8,32): Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada, la morte?
Questa intuizione, che nulla può essere così grave o importante per poterci separare da Cristo, l’avevano già avuta gli Apostoli, quando furono confrontati con la non intelligibilità umana dei discorsi di Gesù sul Suo corpo ed il Suo sangue: “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6,54). Molti tra i Discepoli, annota S. Giovanni, da quel momento incominciarono a tirarsi indietro, per cui Gesù rivolgendosi agli Apostoli, chiese loro: “Forse anche voi volete andarvene?” (Gv 6,67). Per tutti rispose San Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6, 67-68).
Se non ci faremo facile scudo con la credenza in una fatalità; se non ci ribelleremo a Dio, immaginandolo colpevole della disgrazia che ci ha colpiti; se crederemo alla incommensurabilità della Sua Provvidenza, e se resteremo uniti a Cristo nostro Salvatore nella fede e nell’affezione, prima o poi lo Spirito Santo ci farà capire quale significato di conversione personale la morte di Carlo Felice può avere, non solo per le persone che gli erano più care, la moglie ed i figli, ma anche per ciascuno di noi, che lo abbiamo amato e grandemente stimato.