Omelia per la commemorazione della sciagura di Robiei-Stabiascio 15-16 febbraio 1966, Maggia, S. Maria delle Grazie, 16 febbraio 1991.
La memoria dei morti è una costante fissa della storia dell’umanità. Tutti i popoli, tutte le culture e civiltà, che si sono succeduti fin dagli albori della presenza dell’uomo sulla terra, hanno previsto un rito per la sepoltura e per il culto dei loro defunti.
In questo fatto incontrovertibile emerge, secondo forme diverse, l’insopprimibile coscienza che l’uomo ha di sopravvivere, nell’aldilà, alla propria esistenza terrena.
Non possiamo ridurre questo fenomeno ad un’espressione sentimentale. Esso tocca ed esprime la coscienza della nostra natura umana.
E importante rendersi conto che solo l’essere umano, a differenza di tutti gli altri esseri, è capace di fare la memoria delle generazioni che l’hanno preceduto.
La persona umana può essere definita osservando molte delle sue caratteristiche: la sua capacità di amare, di pensare, di entrare in rapporto personale con gli altri, di lavorare, di ricordarsi del passato, di progettare il suo futuro. Ma l’uomo può essere definito anche daI fatto di essere l’unica creatura vivente, che sente il bisogno ed è capace di fare la memoria delle generazioni che l’hanno preceduto.
Attraverso il rito religioso noi esprimiamo l’affetto che ci lega alle persone più care, così come la riconoscenza che sentiamo dentro di noi per quello che hanno fatto.
Il culto dei defunti esprime, non solo la certezza psicologica della nostra sopravvivenza personale, ma anche la certezza della sopravvivenza degli altri. La dignità ultima della nostra persona è legata al fatto della sua indelebile sopravvivenza. L’uomo è l’essere che, dopo essere stato generato alla vita, non scompare più nel nulla. L’umanità, in moda esplicito e implicito, ha sempre creduto e crede all’immortalità della persona umana.
Noi cristiani commemoriamo i nostri defunti, preghiamo per loro – e li preghiamo perché ci aiutino -, nel solco della migliore tradizione della Chiesa, perché sappiamo e crediamo che sono persone viventi.
Per questa certezza abbiamo un punto di riferimento preciso: quello della persona di Cristo. Sappiamo di partecipare al suo stesso destino, quello della Sua morte e della Sua risurrezione.
Cristo, Figlio di Dio, diventando uomo, lo è diventato fino ad accettare di morire come ogni uomo. Il cristiano, credendo nell’umanità di Cristo e nella sua risurrezione, crede inevitabilmente anche alla propria risurrezione personale.
Nella nostra professione di fede affermiamo, infatti, di credere nella risurrezione dei morti.
La risurrezione è diversa dalla sopravvivenza dell’anima nella quale l’umanità ha sempre di fatto creduto. Non si tratta solo dell’immortalità dell’anima, ma del fatto che la persona umana, in forza della Risurrezione corporale di Cristo, si ricompone nella sua integrità totale, attraverso la risurrezione del corpo.
Anche il mistero dell’ Assunzione della Madre di Dio in cielo con il suo corpo ci conferma nella fede della nostra personale risurrezione dalla morte e della risurrezione dai morti delle persone che ci sono più care.
In questo fatto fondamentale della nostra fede, quello della risurrezione, sta l’essenza della consolazione cristiana.
Consolazione perché in mezzo al dolore provocato dalla separazione violenta o non violenta delle persone che ci sono più care, abbiamo la certezza di rincontrarle nell’altra vita, quando anche noi risorgeremo. Questa speranza, spesso solo confusa, ha comunque mosso l’umanità fin dagli albori della sua esistenza. Ha provocato in tutti i tempi il formarsi del culto per i morti. Solo noi umani abbiamo questa speranza, ed è proprio questa speranza che conferisce dignità alla nostra persona.
Sono trascorsi 25 anni dalla tragedia di Robiei. 25 anni trascorsi per tutti voi presenti – parenti, amici, datori di lavoro e colleghi – nel segno di un dolore che ha marcato profondamente la vostra vita quotidiana.
Non siamo qui a celebrare un evento tragico, in quanto semplice evento materiale. Ci siamo riuniti per fare la memoria di persone che non sono vive solo nel nostro affetto, ma sono vive nel mistero della vita di Dio; che sono vive come è vivo Cristo, il Figlio di Dio, in cui crediamo; come è viva la Vergine Assunta, la cui persona appartiene al nocciolo insopprimibile della nostra religiosità e della nostra identità cristiana.
Certo, il tempo ha lenito il dolore; ciò che il tempo non potrebbe lenire e non ha lenito è invece il nostro affetto e la nostra riconoscenza. L’affetto del vincolo familiare e dell’amicizia; la riconoscenza di chi a distanza di 25 anni sa che il lavoro, probo ed indefesso, di questi uomini ha contribuito a segnare il benessere del nostro Cantone.
Ciò che il tempo non può estinguere è inoltre la nostra fede nella risurrezione di Cristo, nella risurrezione dalla morte di quelle vittime a noi così care e nella nostra risurrezione personale.
Celebrando questa Eucaristia ascoltiamo perciò quanto San Paolo cercava già di inculcare nella coscienza dei primi fedeli, agli inizi della predicazione cristiana. L’abbiamo letto nei testi di questa liturgia: «fratelli e sorelle, se siamo completamente uniti a Cristo che come noi è morto, pur essendo Figlio di Dio, saremo uniti a Lui anche nella Sua risurrezione» (cf. Rom. 6,5). E il nostro Battesimo che lega in questo modo il nostro destino personale al Suo.
La fede in questo mistero di Cristo, nel quale siamo immersi, se sappiamo esprimerla oggi, celebrando il 25° anniversario di un avvenimento che ci ha sconvolti e ha segnato la nostra vita, è capace di lenire definitivamente dal nostro cuore quelle tracce di sofferenza che ancora vi si annidano.
Facciamo la memoria di 17 caduti, la facciamo pregando per loro, ma la facciamo anche per gustare quanto è grande e incomparabile la consolazione del nostro cuore se fossimo capaci, in Cristo, di credere nella loro e nella nostra risurrezione.