Tavola rotonda all’Università Cattolica di Milano, 20.02.1992, E.Corecco, S. Benedetti, M. Botta, G. Gresleri.
1. La cultura cristiana, di cui il Vescovo deve essere testimone, garante, ma anche soggetto confrontato con l’imperativo della creatività, si è sviluppata su due assi dottrinali convergenti.
Il primo asse portante è quello della teologia della creazione.
Ha avuto come conseguenza, verificabile anzitutto nella storia europea, quella della riabilitazione del lavoro anche manuale. Il rifiuto delle opere servili, nell’antichità, aveva generato la schiavitù. Il lavoro deve essere retribuito. San Paolo lavorava con le proprie mani e la cultura europea è dominata dal principio di San Benedetto «ora et labora».
Il lavoro, con lo sviluppo tipicamente europeo dell’artigianato, è interpretato e valorizzato come partecipazione e cooperazione dell’uomo all’attività creatrice di Dio. E’ la prima tappa in cui si realizza il principio della incarnazione. L’uomo, nel suo lavoro, sperimenta, nel concreto della storia, la stessa emozione ontologica ed estetica di Dio, che contempla le creature da Lui poste in essere: «Dio guardò tutto quello che, operando, aveva creato e vide che era molto buono» In quanto partecipazione all’opera del Creatore, l’attività creatrice ed artistica dell’uomo acquisisce così dimensione religiosa intrinseca.
2. Il secondo asse portante della cultura cristiana è la teologia dell’incarnazione. In effetti la cultura europea è nata da due vittorie. La prima vittoria è stata quella sull’arianesimo, con la definitiva cristianizzazione dei popoli barbari ariani (ostrogoti e visigoti) e dei franchi (con il Battesimo di Clodoveo); la seconda è stata quella sulla iconoclastia. Il II° Concilio di Nicea ha liberato la cultura cristiana dall’influsso iconoclasta di origine ebraica e musulmana.
Il trionfo dell’immagine coincida con il trionfo dell’ortodossia cattolica, il cui punto di riferimento sono i dogmi sull’incarnazione di Cristo dei primi quattro Concili ecumenici. Il principio della creazione implica che il richiamo alle cose del cielo passi attraverso la piena partecipazione alle realtà della terra.
3. All’interno del vasto orizzonte del dogma della creazione, l’arte cristiana si precisa così, ulteriormente, come visualizzazione simbolica del dogma della incarnazione.
Gravita, perciò, attorno alla celebrazione liturgica, in cui si fa la memoria del mistero dell’incarnazione, della morte e risurrezione di Cristo. Nell’eucaristia, espressione più compiuta e riassuntiva di tutta la liturgia, questo mistero, infatti, si attualizza sacramentalmente come evento sempre presente e operante nella storia.
4. Nel corso della storia, la rappresentazione artistica dell’incarnazione non è stata tuttavia univoca, poiché il mistero della incarnazione, pur nel rispetto sostanziale della cristologia calcedonense, non è stato interpretato con lo stesso rigore dalle diverse confessioni cristiane: quella ortodossa orientale, quella protestante e quella cattolica prevalentemente latina.
Queste diversificazioni nella comprensione del dogma hanno attinto abbondante alimento dalle diverse opzioni filosofiche che, nelle singole confessioni cristiane, hanno talvolta esercitato un influsso egemonico sull’infrastruttura razionale della loro fede.
4.1.L’ortodossia, in seguito ai contatti con il neo-platonismo e alla ristrutturazione ellenistico-bizantina subita nel primo medio Evo a contatto con i popoli slavi, ha assunto una profonda valenza mistica.
Nel segno di una diversa radice antropologica, rispetto a quella occidentale, e di una inconfondibile reminiscenza culturale orientale e platonica, tende ad affermare l’assolutezza dell’essere, relativizzando il valore della storia. Il pensiero orientale cerca di eludere i limiti delle apparenze cosmiche e della contingenza della storia, elevandosi verso l’alto, per ritornare all’originaria purezza del divino.
È una elevazione filosofica, perpendicolare rispetto alla direzione orizzontale della storia, che pone l’accento sulla trascendenza. L’escatologia ortodossa tende a disgiungersi dalla storia. L’icona, infatti, a differenza del dipinto sacro occidentale, non rivendica una consistenza propria, perché non pretende di essere un’incarnazione del divino, ma solo un segno sensibile. Attesta la presenza di Dio nel mondo, rappresentando gli archetipi razionali dell’intelligibile, senza avere però la pretesa di materializzarli o deificarli nell’immagine.
Non è un caso il fatto che la cupola dorata di Santa Sofia di Costantinopoli (costruita dall’imperatore Giustiniano), con la quale l’Oriente cristiano ha reso liturgicamente agibile il Pantheon romano, è fatta per essere guardata dall’interno, essendo la sua intenzione profonda quella di richiamare l’uomo alla trascendenza di Dio.
Solo di passaggio vorrei accennare al fatto che la cupola di San Pietro, espressione dell’umanesimo rinascimentale, è fatta invece per essere guardata dall’esterno; da una posizione in cui l’uomo, postosi ormai al centro della storia, possa dominarla e fruire su questa terra della sua plasticità estetica.
4.2. Il protestantesimo, sia nel solco del messianismo giudaico, ripreso in occidente da Marx, che, con l’idea di progresso, ha dato corpo alla forma più consapevole e scaltrita del mito prometeico, sia del nominalismo del tardo Medio Evo, subisce invece il fascino di un messianismo che tende a identificare Dio con la storia, intesa come progetto dell’uomo privo di prospettiva escatologica.
Nel protestantesimo, infatti, l’escatologia non investe la Chiesa visibile, considerata realtà sociologica senza valore soteriologico, ma solo la Chiesa spirituale e invisibile. Ma anche questa dimensione escatologica della Chiesa invisibile, disincarnata dalla storia, è bruciata, in ultima analisi, dal principio della predestinazione, che più che al futuro rimanda al passato.
Il tempio protestante è molto vicino alla sinagoga. Più che luogo di azione liturgica, dove la comunità celebra il mistero dell’incarnazione, è il luogo di ascolto individuale della Parola, in cui l’uomo si consola grazie alla fede sfiduciale in Dio, che lo ha già predestinato alla salvezza. Il movente della sua azione nel mondo, come ha dimostrato Max Weber, non è una fede che lo spinge, come avviene invece per il fedele cattolico, verso l’assunzione e la trasformazione delle realtà terrestri, nel segno della propria incarnazione personale nella storia, ma piuttosto l’urgenza e la speranza di creare opere, che gli possano confermare l’esclusiva benevolenza salvifica di Dio nei suoi confronti.
Il principio protestante dell’incarnazione si arresta a Calcedonia, alla persona di Cristo, non continua nella Chiesa visibile, con la conseguenza che il tempio tende ad essere semplice luogo di ascolto individuale della Parola di Dio, “extrinsecus data”.
4.3. Il cattolicesimo interpreta nel modo più rigoroso il principio dell’incarnazione, applicandolo da Cristo alla Chiesa, che è Popolo di Dio perché è anche il Corpo Mistico di Cristo. Servendosi della metafisica ilemorfistica, aristotelico-tomista, enucleabile nel principio “universalia in rebus”, in forza del quale la forma si incarna nella materia (principio alternativo sia a quello platonico “universalia ante res”, sia a quello nominalista “universalia post res”, la teologia cattolica attua con estrema coerenza dottrinale e senza soluzione di continuità, il passaggio dalla cristologia calcedonense (comune anche alle altre confessioni cristiane) alla Chiesa: realtà, visibile e invisibile, in cui Cristo risorto continua ad essere presente nella storia, quale soggetto primario della stessa celebrazione liturgica.
Nella concezione cattolica il cristiano è perciò chiamato a collaborare, da subito, all’opera della salvezza, “in” e “di” questo mondo, vivendo l’escatologia come dimensione già presente nella storia, senza fughe unilaterali verso la trascendenza e verso il tempo futuro.
La Chiesa cattolica costruisce perciò l’edificio di culto come luogo in cui essa stessa agisce ed opera in quanto comunità cristiana, evitando ogni evasione, implicita o esplicita, di estrazione monofisita o nestoriana.
Non è casuale il fatto che il termine Chiesa, con il quale il Nuovo Testamento ha definito la comunità dei fedeli, congregata da Cristo, sia stato progressivamente, ma anche definitivamente trasferito all’edificio di culto.
Il monumento architettonico cerca di interpretare, avvolgendola entro uno spazio e diventandone anche il segno simbolico, la comunità cristiana, che nel momento della celebrazione dell’Eucarestia si realizza, sacramentalmente, come realtà spirituale e sociale; quale soggetto culturale diffuso nel mondo intero, perché è universale, ma anche convergente nella sua totalità in un solo luogo. La Chiesa, l’unica Chiesa di Cristo, ha due dimensioni essenziali: universale e particolare, che devono essere riconosciute anche attraverso l’edificio di culto.
5. Su questo impianto teologico fondamentale si sono innestati spiritualità e influssi culturali, declinatisi in stili e moduli architettonici diversi. Queste differenti tipologie si sono susseguite e intrecciate lungo il corso della storia e sono sempre risultate valide, nella misura in cui non hanno ceduto alla tentazione di regredire nella imitazione del passato.
Ogni inflessione culturale e ogni stile architettonico sono validi, a mio avviso, purché riescano a interpretare l’essenza del mistero cristiano, rispettando quei risvolti ecclesiologici e liturgici che la specificità di ogni epoca storica esige.
Se è vero che all’interno del cristianesimo come tale esistono soluzioni architettonico-liturgiche più cattoliche di altre, poiché esiste un rigore cattolico diverso nell’interpretare il principio dell’incarnazione, e nel concepire perciò l’ecclesiologia, non credo, per contro, che, all’interno del cattolicesimo, sia possibile affermare l’esistenza di stili più cattolici di altri.
L’essenziale è che ogni edificio di culto sia espressione autentica della concezione che la Chiesa, in quanto realtà sacramentale, ha di sé in una determinata epoca storica.
6. Oggi si verificano due fatti di cui il committente e l’architetto devono tener conto.
Da una parte il fatto che l’architettura contemporanea, a differenza di altre epoche del passato (ma parallelamente, forse, ai primi secoli della storia della Chiesa), riconosce la propria ascendenza non più nella tradizione culturale cristiana, ma nella cultura secolarizzata. Rispetto all’epoca delle basiliche paleocristiane, l’aggravante sta nel fatto che la cultura laica moderna si è frantumata in un pluralismo di espressioni in cui è difficile decodificare gli elementi portanti della sua unità.
Ciò rende più precario il giudizio sulla potenziale capacità di queste espressioni culturali di offrire, di volta in volta, modelli ancora atti a realizzare una concezione cattolicamente ortodossa del sacro: una concezione capace di esprimere in modo adeguato il mistero dell’incarnazione. Il secondo dato di fatto è che la Chiesa, se da un lato si è espressa, con il Concilio Vaticano II, secondo una autoconcezione ecclesiologica molto più precisa ed esigente di quanto non sia mai riuscita a fare nei secoli passati, dall’altro ha assistito all’emergere di una varietà di dottrine e modelli ecclesiologici, in cui non è sempre possibile tracciare con sicurezza i confini tra l’ortodossia e la falsificazione del dogma.
Coniugare una cultura e un’architettura di ascendenza prevalentemente illuminista e secolarizzata con le esigenze di una teologia contemporanea, in cui, a differenza del passato, l’ecclesiologia e la pneumatologia sono diventate il problema fondamentale da risolvere, non è impresa facile o di poco conto.
Il Vescovo, cioè il committente, e l’architetto devono riuscire a interpretare nella fede questi segni dei tempi, che purtroppo sono spesso eterogenei ma, di certo, non inconciliabili “a priori” tra di loro, come dimostra ampiamente la storia.
L’architettura religiosa autentica non è mai nata e non può nascere dal caso. Il quadro dei parametri teologici e filosofici, che hanno presieduto nel corso di questi due primi millenni allo sviluppo dell’arte cristiana e che ho cercato di individuare, mostra che l’architettura religiosa è nata e nasce determinata da una necessità intrinseca. Nella nostra società post-moderna, in cui la cattolicità è confrontata con l’imperativo di ricostruire faticosamente un proprio impianto culturale, le difficoltà di una sintesi possono essere perciò maggiori di un tempo.