Relazione tenuta al Convegno per il cinquantesimo della Caritas Diocesana “Diocesi di Lugano e Carità: sguardo al futuro” Lugano, 21 novembre 1992.
L’assillo di guardare al futuro, “alla ricerca di strade nuove per esprimere la carità”, potrebbe nascere da un nostro dubbio interiore.
La carità è ancora atta a garantire la presenza della Chiesa nella società tenendo conto del contributo che essa deve dare alla soluzione dei problemi sociali del mondo contemporaneo? Una risposta semplicistica e perciò palesemente inadeguata, potrebbe essere quella di ricordare che la Chiesa, in realtà, dà il suo contributo alla soluzione dei problemi sociali non solo attraverso laCaritas, ma anche e soprattutto attraverso i sindacati cristiani, i quali, da sempre, lottano per la realizzazione della giustizia sociale.
Questa risposta potrebbe ingenerare l’equivoco di credere che il sindacato cristiano sia preposto alla realizzazione della giustizia, mentre la carità e la Caritas abbiano, come compito, solo quello di garantire il superfluo. Di qui il dubbio sottile, eventualmente contenuto nella formulazione del tema di questo Convegno.
In una società che pretende (almeno nei paesi ricchi come il nostro) di realizzare in modo sempre più globale il Welfare State (malgrado le ricorrenti crisi congiunturali), in uno Stato cioè sempre più sociale, la Caritas ha ancora una prospettiva di avvenire? Per definizione, infatti, il superfluo potrebbe anche non esistere, mentre sempre essenziale e imprescindibile è la giustizia.
Ma noi sappiamo che per il cristiano la virtù della carità non appartiene al novero delle cose superflue. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano non sono le quattro virtù cardinali della prudenza, giustizia, fortezza e temperanza (formulate dalla filosofia stoica, da Seneca in particolare) e recepite anche dal pensiero cristiano. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano sono le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità.
La carità appartiene perciò all’essenza stessa dell’esperienza cristiana. Non è possibile, di conseguenza, per il cristiano, regredire semplicemente al livello della pratica delle virtù cardinali (cui appartiene anche la giustizia) e muoversi perciò solo sul terreno della razionalità umana e del diritto naturale, prescindendo dalla pratica della carità, che appartiene all’ambito della esperienza soprannaturale, cioè della redenzione e della grazia.
La carità non coincide con il superfluo, è l’essenza stessa della vita del cristiano. Costituisce perciò l’elemento essenziale della presenza del cristiano e della Chiesa nel mondo e del suo contributo alla realizzazione del bene comune.
Non esiste dubbio sul futuro della carità e perciò, in modo derivato, della Caritas, in quanto forma istituzionalizzata per attivare questa virtù teologale. La Caritas è un albero che non può essere tagliato; anzi, deve crescere e dare frutti sempre più abbondanti, così come ci insegna la parabola del Vangelo. Siamo tuttavia tutti consapevoli che, in una cultura positivista come quella in cui viviamo, un argomento “a priori” non ha più la forza convincente di un tempo. Dobbiamo di conseguenza reperire la risposta alla nostra domanda, percorrendo altri itinerari di ricerca.
La Dottrina sociale della Chiesa che, paradossalmente, sembrerebbe essere stata elaborata per porre le fondamenta di una concezione cristiana non della carità, ma della giustizia, ha subìto, proprio su questa tematica, una profonda evoluzione.
La svolta nevralgica è avvenuta nel 1963 quando Papa Giovanni XXIII, nella Pacem in Terris, per fondare la dignità della persona umana non ha più utilizzato solo gli argomenti classici della filosofia, ma ha fatto ricorso anche alla Rivelazione.
Il fondamento ultimo della dignità della persona umana, salvata dal sangue di Cristo versato sulla croce, sta nella sua filiazione divina.
Questa argomentazione di Giovanni XXIII ha introdotto nella Dottrina sociale un nuovo criterio epistemologico.
Da quello puramente filosofico razionale (sia pure illuminato dalla fede), il Magistero pontificio è passato alla adozione di una conoscenza direttamente derivata dalla Rivelazione, perciò dalla fede. Dalla filosofia è avvenuta una evoluzione verso la teologia.
Il risultato è sorprendente. Se la prima pagina della dottrina sociale della Chiesa, quella scritta da Leone XIII con la Rerum Novarum parla della giustizia, l’ultima pagina della stessa, se si prescinde dalla Centesimus annus, quella scritta da Papa Giovanni Paolo II, cinque anni or sono, con laSollicitudo rei Socialis, propone il discorso della carità. Per liberare il proletariato dalla schiavitù in cui, nel secolo scorso (secolo del progresso), era stato assoggettato dal mondo padronale, Leone XIII ha invocato il criterio della giustizia e, su questa linea, si sono mossi anche i Papi successivi. Pio XI, commemorando la Rerum Novarum, quarant’anni dopo (1931), con la Quadragesimus Annus, affermava ancora, e giustamente, che non si può nascondere l’ingiustizia con la carità e che alla carità non spetta l’obbligo di coprire con un velo la violazione della giustizia.
Tutto ciò è profondamente vero, ma è evidente che in quel contesto il discorso sulla giustizia e sulla carità erano ancora condotti su due piani diversi, senza convergere verso una sintesi. Ciò dipende dal fatto che l’analisi della situazione di ingiustizia sociale, in cui versava la società, era fatta con criteri di natura prevalentemente economica e politica, mentre nella Sollicitudo rei Socialis, Papa Giovanni Paolo II ha introdotto un altro criterio di analisi.
Nel solco di Papa Giovanni XXIII, che, come abbiamo visto, aveva dichiarato la Redenzione di Cristo quale fondamento ultimo della dignità della persona umana, Giovanni Paolo II, nei numeri 3540 della Sollicitudo rei Socialis, invece di una lettura economica, ha dato una lettura teologica delle cause della ingiustizia sociale esistente nel mondo.
Papa Giovanni Paolo II sostiene che la radice più profonda dei disordini sociali non è di natura economica o politica, ma di natura morale e teologica. Alla radice sta il peccato personale degli uomini; stanno le <<strutture di peccato>> che via via si sono consolidate nella società, ma alla cui origine emerge sempre il peccato personale dell’uomo.
La nozione di peccato non è filosofica, ma teologica, poiché il peccato non ha come referente valori impersonali, come potrebbe essere per es. quello della giustizia, ma sempre il Dio personale; anzi, il Dio trinitario, dal cui seno si è rivelato il Figlio, nella incarnazione, per portare all’uomo la Grazia della redenzione.
Con la Sollicitudo rei Socialis la dottrina sociale della Chiesa è stata così collocata all’interno del binomio con il quale da sempre è stata fatta la lettura cristiana della storia: il binomio del peccato e della Grazia. La Grazia, intesa come perdono e aiuto dell’uomo, per la conversione del suo cuore.
La storia dell’umanità, in effetti, è la storia del coinvolgimento di tutti gli uomini nelle conseguenze, sia del peccato che della Grazia.
Il coinvolgimento nel peccato si realizza, socialmente e politicamente, nelle <<strutture di peccato>> che creano condizionamenti e ostacoli per la realizzazione del bene comune e dello sviluppo dei popoli.
Il coinvolgimento della Grazia avviene, socialmente e politicamente, nella solidarietà tra gli uomini. Quello della solidarietà è l’unico criterio possibile per superare la brama del profitto e la sete del potere, in quanto aspetti negativi più caratteristici della vita sociale contemporanea. Si tratta, infatti, di una solidarietà che deve realizzarsi non solo tra le singole persone, ma anche tra i gruppi intermedi e tra le nazioni, tra Nord e Sud; di una solidarietà intesa come opzione preferenziale per i poveri, nel senso non solo materiale ma anche spirituale della parola.
Dalla nozione di giustizia, la dottrina sociale della Chiesa è evoluta perciò verso la nozione di solidarietà.
Ma di quale solidarietà intende parlare la Sollicitudo rei Socialis? La solidarietà è senza dubbio una virtù umana, che potrebbe essere anche annoverata accanto alle quattro virtù cardinali già menzionate, attorno alle quali Seneca ha tentato la sintesi di tutta la sua filosofia morale.
Tuttavia, la solidarietà, afferma Giovanni Paolo II, tende a superare se stessa per rivestire la dimensione specificamente cristiana della gratuità totale, e perciò della carità, che è il segno distintivo dei discepoli di Cristo (Gv 13, 35). Il referente di questa solidarietà cristiana non è più perciò soltanto l’individuo umano, con i suoi diritti e la sua fondamentale uguaglianza rispetto a tutti, ma l’uomo, in quanto viva immagine di Dio Padre; in quanto persona riscattata dal sangue di Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo.
Questo uomo, non più definito filosoficamente, ma teologicamente, deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore. Per lui bisogna essere disposti anche al sacrificio supremo: “dare la vita per i propri fratelli” (1 Gv 3, 13). Non è un caso che la Sollicitudo rei socialis a sostegno di questi concetti, introduce l’esempio di San Massimiliano Kolbe, che ha dato la vita per un uomo a lui estraneo, in nome di Cristo, considerandolo come fratello.
Su questa base teologica si prospetta l’emergere di un nuovo modello di solidarietà e di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi l’azione sociale del cristiano. Un modello che va al di là dei vincoli umani naturali, poiché ha come fondamento la carità. Per la prima volta nella dottrina sociale della Chiesa, la Sollicitudo rei socialis propone al mondo, come modello di riferimento, la forma della socialità tipica dell’esperienza cristiana; propone la comunione come modello per realizzare il bene comune di tutta l’umanità.
Se la Chiesa osa segnalare il proprio modello di comunione come esempio valido universalmente per realizzare la giustizia sociale, lo fa perché possiede la coscienza di essere chiamata dal Signore ad essere, come dice la Lumen Gentium, segno e sacramento di salvezza per il mondo intero.
<<I meccanismi perversi>> della società e le <<strutture di peccato>> potranno essere vinte, aff e rma la Sollicitudo rei socialis solo mediante l’esercizio della solidarietà umana che, per il cristiano, può logicamente configurarsi solo come comunione e perciò solo come frutto della carità.
A questo punto non possiamo non sottrarci, ancora una volta, ad una domanda precisa: ma cos’è la carità?
Come per la solidarietà, anche in merito alla carità le possibilità di equivoco sono grandi.
La carità non consiste solo nel fare qualche cosa per gli altri. È più di questo. Non può essere confusa con altruismo. Il fare, l’agire, l’intervenire, il dare, sono solo i modi in cui si realizza la carità, non sono la sua origine.
Non rileggeremo mai con sufficiente attenzione il celebre testo del cap. 13 della prima lettera ai Corinzi: <<Anche se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli… anche se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza… anche se trasportassi le montagne con la fede, ma non avessi la carità, non sarei niente. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo alle fiamme per gli altri, ma non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla>>.
È un testo che non lascia scampo. Il cristiano in quanto cristiano, non è nulla anche se facesse le cose più grandi di questo mondo, anche se distribuisse tutti i suoi beni in elemosina, o realizzasse la perfetta giustizia sociale.
Non saremmo nulla, poiché per vocazione non siamo stati chiamati a dare o a realizzare la giustizia in quanto tale o a praticare l’elemosina, bensì a condividere con gli altri la nostra persona, in nome di Cristo.
La virtù teologale della carità esige dal cristiano di riconoscere l’altro come parte di se stesso; parte della propria persona e della propria umanità. Il cristiano deve lasciarsi determinare dal fatto che Cristo, sulla croce, ha stabilito un’unità oggettiva tra lui e gli altri. Il punto genetico della carità sta nel riconoscere l’unità stabilita tra gli uomini da Gesù Cristo. Il cristiano è chiamato ad amare l’uomo ed a fare unità con lui e, così, a realizzare anche la giustizia sociale, non grazie alla propria generosità, ma in nome di Gesù Cristo. La carità consiste nell’aprirsi all’altro, non in nome dei propri sentimenti naturali, ma in nome di Gesù Cristo. Per questo il cristiano è chiamato addirittura ad amare anche il suo nemico.
La carità è, di conseguenza, un gesto che nasce da una concezione diversa di noi stessi. Il punto che siamo perciò chiamati a convertire è prima di tutto la concezione che abbiamo di noi stessi. Una concezione capace di generare in noi una coscienza nuova circa la nostra persona, diversa da quella presente nel mondo.
La carità, così intesa, è la conseguenza della nostra adesione, nella fede, alla persona di Gesù Cristo, e della nostra speranza circa il fatto che, come afferma S. Paolo, <<le tribolazioni del tempo presente sono senza paragone rispetto alla gloria che ci attende nella vita futura>> (Rm 8, 18).
Solo in forza delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità è possibile per il cristiano valutare in modo adeguato il destino globale dell’uomo. Sono i criteri che ci permettono di realizzare questo destino, dando una risposta adeguata anche alla “questione sociale”.
La nozione di solidarietà, proposta dalla Sollicitudo rei Socialis, sfocia nella nozione di comunione e di carità cristiana, superando tutti gli schemi dottrinali precedenti.
Rimane evidentemente vero che non è possibile praticare la carità se non si realizza la giustizia, ma l’enciclica Sollicitudo rei socialis afferma chiaramente anche che, per il cristiano, la giustizia deve essere vissuta e realizzata come, e in forza della carità. È l’insegnamento inequivocabile di S. Paolo: <<Anche se dessi tutti i miei beni agli altri, ma non avessi la carità, non sarei nulla>>
Perché nulla? Perché senza la carità non mi porrei come segno di Cristo di fronte alle esigenze di giustizia sociale presenti nel mondo. In quanto cristiani siamo, infatti, chiamati a rendere presente Cristo nel mondo.
Attraverso ogni intervento sociale siamo chiamati a porre nel mondo un segno rivelatore della salvezza.
Il vero problema perciò non è quello di sapere se continuerà ad esistere, anche in avvenire, uno spazio di intervento sociale per la Caritas, ma piuttosto di riuscire a precisare sempre meglio la sua modalità di intervento nel mondo. La Caritas, in effetti, ha come missione di essere lo strumento istituzionale attraverso il quale la Chiesa interviene nel mondo, ponendosi esplicitamente come attuazione concreta delle virtù teologali e, in particolare, della carità.
I settori e i criteri d’intervento della Caritas, in seno alla società, possono cambiare, come, del resto, sono costantemente cambiati, anche nel corso di questo primo mezzo secolo di esistenza della nostra Caritas diocesana. L’esperienza non lascia nessun dubbio sul fatto che in via primaria, oppure anche solo in via di supplenza rispetto alla società civile e allo Stato, esisterà sempre uno spazio di intervento specifico della Caritas. Ciò è vero anche nell’ipotesi che avvenisse una totale realizzazione del Welfare State
La ragione sta sia nel fatto che l’uomo è irriducibile ad un progetto culturale, sociale e politico di ogni tipo, sia nel fatto che l’amore per il prossimo è costitutivo dell’esperienza cristiana. La Caritasha perciò un ruolo insopprimibile, indipendentemente dal fatto che si esprima secondo forme istituzionalizzate oppure solo individuali.
Il problema dell’avvenire non è quello della sopravvivenza della Caritas in quanto istituzione. Sarà sempre possibile individuare nuovi bisogni dell’uomo e della società e nuovi spazi d’intervento. Il vero problema è quello di riuscire a fare della Caritas un’espressione sempre più eloquente della missione pastorale della Chiesa. Anche se la Caritas copre un settore particolare, non può mai limitarsi a fare gesti solo particolari. Ogni gesto deve, nella misura del possibile, contenere ed esprimere il tutto.
La transizione, nella dottrina sociale della Chiesa, da una visione d’intervento fondata sul diritto naturale e perciò sulla virtù della giustizia, ad una visione fondata sulla solidarietà cristiana e perciò sulla comunione e la carità, rende il ruolo della Caritas insostituibile, perché è chiamata a realizzare non solo la giustizia umana, ma la solidarietà cristiana, che nella sua espressione più precisa assume la caratteristica della comunione e della carità.
Qualunque dovesse essere la natura e il settore dei suoi interventi in campo sociale, la Caritas è chiamata, con urgenza sempre più grande, ad esprimere nella società due valori specifici del cristianesimo, la cui rilevanza sociale non è misurabile infatti con criteri puramente razionali. Il primo è la gratuità verso l’uomo in difficoltà, poiché è stata gratuita anche la redenzione offertaci da Cristo. Il secondo è quello dell’eccedenza, poiché eccedente è l’amore di Cristo verso di noi. La carità non ha come misura il bisogno dell’altro, ma la ricchezza e l’amore di Dio.
È, infatti, limitante guardare all’uomo e valutarlo a partire dal suo bisogno, poiché l’uomo è di più del suo bisogno e l’amore di Cristo è più grande del nostro bisogno. Sarà sempre possibile dare nei confronti dell’uomo e dei suoi bisogni, spirituali e materiali, una testimonianza di gratuità e di eccedenza. Anzi, è un dovere al quale siamo chiamati in forza della nostra vocazione cristiana.
Ne consegue, più che mai, che la carità, anche nella forma istituzionale assunta nella Caritas, non può essere eliminata dall’esperienza di una Chiesa particolare e non può perciò essere eliminata dalla nostra Diocesi.