Intervento conclusivo al Convegno «Per costruire insieme un domani più solidale» promosso dall’Organizzazione Cristiano Sociale Ticinese (OCST) il 1° maggio 1991.
1 L’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII denuncia quella situazione di povertà, di disagio morale e di sfruttamento, sotto la quale soffre la classe operaia della fine del secolo XIX. I salari erano bassi, regolati esclusivamente dalla legge della domanda e dell’offerta; la disoccupazione straripante; le assicurazioni contro la malattia o la mancanza di lavoro sconosciute; le pensioni inesistenti.
Oggi, noi cittadini di un paese prospero come la Svizzera, difficilmente possiamo sottrarci all’impressione che questa enciclica appartenga ad un passato quasi remoto.
Quali che siano i suoi meriti storici, sembra che essa abbia assai poco da dirci nel presente. Le situazioni di ingiustizia contro cui essa si rivolgeva non si presentano più davanti ai nostri occhi. Anche l’avversario storico, la cui azione essa voleva contrastare all’interno delle masse popolari, il marxismo, è miseramente fallito, previsto peraltro con sicuro intuito da Leone XIII nella Rerum Novarum.
Tuttavia, i contenuti fondamentali di quella enciclica mantengono per noi tutta la loro attualità, certo ripensati e riesposti nel linguaggio del nostro tempo ed a partire dalle sue preoccupazioni. In occasione del centenario della Rerum Novarum vogliamo dunque lasciare che quell’enciclica ci aiuti ad aprire gli occhi sul nostro presente.
In primo luogo è necessario osservare che l’enciclica mantiene oggi il suo intero valore, per larga parte della famiglia umana, perfino nella formulazione letterale di molti dei suoi contenuti.
La maggior parte dei lavoratori del mondo vive oggi in condizioni di sfruttamento, di violazione dei più elementari diritti della persona, di sofferenza ed umiliazione; probabilmente ancora peggiori di quelle prevalenti nell’Europa della fine dell’ottocento. Come hanno ben osservato le enciclichePopulorum Progressio e Sollicitudo Rei Socilis, la questione sociale si è fatta mondiale. Non è, perciò, possibile illudersi di poter condurre la nostra esistenza in un’isola felice, circondata da un mare di dolore.
Le masse diseredate del mondo, bussano insistentemente alla porta dei paesi nei quali, in qualche modo, un sistema di produzione e di distribuzione dei beni più efficace ed equilibrato, è stato realizzato. Se non si troverà modo di realizzare una diffusione a livello mondiale dello sviluppo, è inevitabile che il futuro ci riservi terribili tensioni sociali, conflitti devastanti e guerre, le cui avvisaglie le abbiamo appena registrate nella guerra del GoIfo.
In secondo luogo la «Rerum Novarum» non si rivolge solo contro un insieme di mali sociali, propri del suo tempo.
Essa, al di là dei fenomeni singoli, indica una radice ultima di tali mali, che agisce nel profondo. Siamo sicuri che tale radice sia stata estirpata, o sia diventata inattiva, nelle nostre società dei consumi? O non è forse possibile che le singole manifestazioni della malattia sociale, siano state curate, ma la loro radice non sia stata estirpata e porti frutti diversi, ma egualmente avvelenati, anche nel nostro tempo? L’enciclica di Leone XIII non è soltanto un documento di denuncia. Essa contiene anche una interpretazione filosofica e teologica dei problemi del suo tempo.
La loro radice viene individuata in una comprensione inadeguata della dignità della persona umana. Questa dignità impedisce che il lavoro possa essere considerato una merce, come tutte le altre.
Il lavoro dell’uomo non è una cosa, il lavoro è l’uomo e partecipa del valore dell’uomo stesso. La dignità della persona vieta che il prezzo del lavoro possa scendere al di sotto del livello di sussistenza.
Questa è la ragione che ha fatto dire al Vescovo di Friburgo, Mons. Besson che: «La questione sociale non può essere risolta senza la santificazione del lavoro».
È possibile, infatti, che il lavoro sia ben pagato, ma che il modo in cui il lavoro è organizzato leda egualmente i diritti e la dignità del lavoratore, perché attraverso tale lavoro si deforma la sua personalità morale, o la si lascia morire per mancanza di una adeguata alimentazione e sostegno. Lavorando l’uomo ha bisogno e ha il diritto di far parte di un’autentica comunità di lavoro con gli altri uomini, e di far esperienza, vivendo in una tale comunità, del proprio valore come persona. Quando questo non avviene, l’uomo è alienato, anche se ben pagato.
Anche se nelle nostre società del benessere la povertà e lo sfruttamento fossero scomparsi, l’alienazione di credere di valere per ciò che si possiede e per ciò che si è capaci di fare, e non invece per quello che si è, con le proprie qualità umane più autentiche, è sempre più diffusa. La domanda, se il lavoro sia trattato, come una merce, o invece come una espressione della persona umana, vale da noi, come nel terzo mondo, oggi come cento anni fa.
La sconfitta storica del comunismo ci induce spesso troppo frettolosamente a liquidare la questione sociale ed a considerarla come superata. Alienazione e sfruttamento sono invece anche oggi una minaccia al giusto ordine della comunità umana. È compito dei laici cattolici farsi interpreti della domanda di cambiamento, che agita il mondo di oggi.
In questo senso c’è ancora bisogno di una rivoluzione, non certo di quella marxista, ma di una rivoluzione della solidarietà, che riconosca non solo il valore della proprietà privata e della economia di mercato ma sappia anche inquadrare la libertà economica, all’interno di una libertà più grande, etico/politica, della quale quello economico è solo un aspetto ed un momento, non il culmine.
2 Riguardando oggi all’encic1ica di Leone XIII vediamo, inevitabilmente, anche i suoi limiti o gli aspetti più condizionati dalle vicende e dalle idee del tempo, in cui è stata scritta. C’è un punto soprattutto sul quale la dottrina sociale della Chiesa deve fare e sta facendo un passo in avanti e forse domani, quando sarà pubblicata la nuova enciclica di Papa Giovanni PaoIo II, la Centesimus annus, ne avremo la conferma. Nella Rerum Novarum è forte la preoccupazione per il problema della giusta distribuzione della ricchezza. Meno sensibile è invece l’autore per il problema della produzione della ricchezza. La ricchezza ha sempre due origini: la naturale fecondità della terra ed il lavoro dell’uomo. Storicamente, però, il ruolo del lavoro è venuto continuamente crescendo.
In secondo luogo, non possiamo non guardare con stupore ed ammirazione anche all’antiveggenza dei Vescovi, i quaIi non hanno esitato a farsi promotori a livello diocesano di una presenza sociale nella nostra Chiesa particolare.
Mons. Eugenio Lachat ha aderito al “Pius Verein”; Mons. Vincenzo Molo ha appoggiato i primi sindacati cristiani, come quello degli scalpellini tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900; Mons. Aurelio Bacciarini ha messo a disposizione alcuni tra i suoi preti migliori per creare strutture, nella vita sociale, con Mons. Luigi Del Pietro; nella vita culturale, con Mons. Alfredo Leber, per il Giornale del Popolo; nel settore pastorale, con Mons. Emilio Cattori e in quello assistenziale promovendo la costruzione di Medoscio; Mons. Angelo Jelmini ha creato la Caritas Diocesana, affidandola in seguito a Mons. Corrado Cortella, e ha dato impulso a colonie estive, a scuole private e a istituti nel campo della sanità.
In terzo luogo, dobbiamo oggi esprimere la nostra profonda gratitudine al Signore che ha suscitato tra noi, in questo secolo di vita diocesana, molti carismi, pionieri, chierici e laici, e continuatori di molte iniziative, referenti in un modo o nell’altro all’attuazione della Rerum Novarum. Queste opere sono inequivocabile espressione di una «scelta preferenziale» per i ceti poveri, o meno abbienti, della nostra società ticinese.
Una gratitudine che, non solo i cattolici, ma ogni ticinese, non subalterno nello spirito alle ideologie dominanti dovrebbe sentire nei confronti dell’attività sociale della Chiesa, compiuta in un periodo della storia della nostra società, nel quale lo Stato non era ancora sufficientemente solido dal profilo politico e finanziario per esporsi operativamente in questo settore.
Un grazie particolare desidero rivolgerlo all’OCST per aver organizzato questo Convegno. Un Convegno particolare, non fatto da e per specialisti, ma popolato da testimoni di un lavoro iniziato un secolo fa, sviluppatosi su tutto l’arco di questo tempo e in pieno svolgimento anche oggi.
Un Convegno tenuto da persone protagoniste e rappresentative di molte opere in atto. Solo la limitatezza del tempo ha impedito che altre esperienze sociali e culturali presenti nella Diocesi potessero manifestarsi a questo convegno.
A tutte queste realtà e alle persone, che in esse spendono le loro migliori energie spirituali e fisiche, la nostra riconoscenza senza riserve.
Mi auguro solo che tutti conservino intatta la coscienza di appartenere alla Chiesa e di essere l’espressione della sua presenza nella vita sociale, culturale e politica nel nostro paese; di lavorare per la Chiesa, attraverso la quale Cristo è reso presente nel mondo.
La Chiesa deve diventare per tutti i cristiani in modo sempre più esplicito il primo luogo di appartenenza. È vivendo questa nostra comune appartenenza, che saremo in grado di dare un contributo fondamentale alla realizzazione di una società più solidale. In effetti non dobbiamo vacillare nella convinzione che l’apice della socialità si realizza nella comunione ecclesiale.