Omelia tenuta nel Pellegrinaggio a Sachseln nel VII centenario della Confederazione Svizzera, 20 maggio 1991
S. Nicolao non appartiene al patrimonio della nostra storia civile, ma in prima luogo appartiene al patrimonio irrinunciabile della nostra fede cristiana, ecclesiale e cattolica.
Fu un cristiano che, pur nel lunghissimo silenzio di 20 anni, ha sovrastato, con la sua statura di uomo di fede, gli uomini del suo tempo. È nato nel 1417, un anno prima della conclusione dei XVI Concilio ecumenico, che aveva avuto luogo a Costanza, tra il1414 e il 1418, a soli 200 chilometri in linea d’aria da questa parrocchia di Sachseln, che gli ha dato i natali. Un Concilio che aveva messo fine ad uno dei fatti più incredibili della storia della Chiesa, quello della spaccatura della cristianità nell’obbedienza a tre Papi diversi; fatto che passò alla storia con il nome di Grande Scisma o Scisma d’Occidente.
Il Concilio di Costanza è riuscito ad insediare un solo Papa legittimo sulla cattedra di S. Pietro; non è riuscito, invece, a sedare i disordini esistenti tra il clero, i religiosi, i laici e le Facoltà teologiche. La vita ecclesiastica continuò per oltre un secolo nella confusione, e qualche analogia la possiamo riscontrare nella situazione ecclesiale svizzera dei nostri giorni. Il rinnovamento ecclesiale venne dalla base; dai movimenti mistici che proliferarono nel corso dei XV secolo, soprattutto in Alsazia. Con queste correnti di alta spiritualità, attraverso eremiti insediatisi in questi Cantoni primitivi, Nicolao della Flüe entrò in contatto, fin da quando era ancora giovane. Non meraviglia perciò che abbia trascorso gli ultimi venti anni della sua vita come eremita. Ha vissuto, anche in questo, partecipando coscientemente e come protagonista, agli avvenimenti di rinnovamento ecclesiale del suo tempo, pur essendo analfabeta.
Deriso e ammirato nel suo villaggio natale; guardato con perplessità e scetticismo da molti, ma ascoltato dall’Europa dei XV secolo, dalle cui corti e dai cui governi partivano ambasciatori (come da Milano), per consultarlo sui problemi inerenti al mantenimento della pace tra i Principi e gli Stati.
Un uomo che come tanti altri Santi è stato tormentato dal demonio e dai suoi fantasmi, ma un Santo, tra i pochissimi nella storia della Chiesa, forse l’unico, che il Signore ha condotto fin sull’orlo dell’abisso della Trinità.
L’ha intravista, folgorato da una luce che gli ha trasfigurato per sempre il viso, come era gia capitato a Mosè sul monte Sinai. Ne rende testimonianza il drappo, che tutti conosciamo, dipinto da un suo contemporaneo, su indicazione del Santo stesso. Quest’uomo che si è dato nella carne a sua moglie, con la passione e l’intensità di chi sa cosa significhi amare, e con il trasporto di chi è cosciente di partecipare con la sua donna, nella procreazione, all’esperienza divina della paternità; quest’uomo dall’anima gigantesca ha visto disvolgersi e snodarsi davanti ai suoi occhi il dramma del rapporto, eterno e immutabile, ma sempre nuovo, vivo e sfolgorante, delle persone della Santissima Trinità.
In questa visione trinitaria, che supera i confini della intelligibilità umana, Nicolao della Flüe ha colto una indicazione precisa per la sua vita: quella di essere mandato a compiere un’infaticabile missione di pace tra i suoi contemporanei.
È diventato il Santo della pace, tra gli uomini del suo tempo. Pacificatore silenzioso di molte situazioni familiari e comunali, in modo clamoroso però degli svizzeri alla Dieta di Stans.
Dalla contemplazione del mistero trinitario S. Nicolao ha
desunto criteri per essere presente in mezzo ai suoi contemporanei.
Ha preso sul serio l’affermazione che il Figlio di Dio è disceso dal cielo per la nostra salvezza e si è fatto uomo.
La salvezza consiste nella pace dell’uomo con Dio: nella nostra riconciliazione con Dio, che ha come conseguenza la riconciliazione con tutti gli uomini. La pace sta nell’amare Dio e il prossimo.
Nicolao della Flüe, dopo aver intravisto come in una luce il significato che ha per noi questo discendere dal cielo di Cristo per la salvezza degli uomini, si è prodigato, malgrado il nascondimento del Ranft, perché gli uomini del suo tempo vivessero nella pace.
La sua contemplazione della Trinità si e tradotta così in missione di pace tra i suoi contemporanei. Quello che sorprende inoltre è il fatto che ha saputo esprimere questa missione attraverso una formula semplicissima, presa dal contesto contadino in cui aveva vissuto come protagonista.
Agli svizzeri, ingordi e triviali, disposti a battersi a sangue, piuttosto che perdere, quando si trattava di dividere il bottino delle guerre di Borgogna, l’eremita non ha fatto ricorso ad argomentazioni dotte e sofisticate, ma ha mandato a dire: «Non estendete troppo lontano il vostro steccato e non intromettetevi negli affari degli altri». Il grande mistico, che aveva contemplato la Trinità, ha declinato la sua visione nella quintessenza della saggezza naturale del contadino, usando una formula perfettamente comprensibile dai suoi concittadini, anche dai meno colti.
Il contributo che noi dobbiamo dare oggi alla pace nel mondo non può più esaurirsi solo nel non erigere muri di cinta troppo lontani e nel non intrometterci negli affari altrui; politica che pratichiamo da tempo immemorabile.
Oggi l’invito che ci viene dalla sua coscienza cristiana potrebbe essere quello di abbassare questi steccati, che ci dividono dagli altri popoli. Non si tratta solo di essere più accoglienti verso i popoli più poveri, che bussano alle nostre porte e che un giorno potrebbero sfondarle, se non le apriamo con più oculatezza. Si tratta anche di pensare all’Europa.
È evidente che, rischiando il pericolo dell’isolamento gli steccati sono troppo alti.
Tuttavia non dobbiamo affrontare questi problemi solo in termini di calcolo economico e politico, ma, prima di tutto, scavando nella nostra coscienza di cristiani.
I problemi degli stranieri e dei rifugiati, e quello della nostra confluenza verso l’Europa, sono certo tra i problemi politici più difficili posti oggi al popolo svizzero. Ma potremmo fare l’elenco di molti altri problemi, che la Svizzera deve affrontare. Quelli delle nuove povertà, degli anziani, dei drogati, degli obiettori di coscienza, in campo militare, civile e medico; quello della pornografia privata e soprattutto nei mass-media; i problemi ecologici, quello della legislazione sull’aborto e sulla biogenetica.
La domanda che si pone a questo punto è allora questa. Perché S. Nicolao della Flüe è stato in grado di consigliare tante persone, di pacificare tante situazioni familiari e locali? E, soprattutto, perché è riuscito a dare un contributo determinante al problema politico centrale della Svizzera in quel momento storico, cioè al problema dell’unità dei confederati?
Ha saputo affrontare questi problemi non certo per il semplice fatto di essere obwaldese, confederato o svizzero, bensì perché, prima di tutto, aveva una chiara identità cristiana.
Era cattolico, un uomo di fede profonda, che si identificava con la Chiesa, anche se travagliata da mille divisioni e problemi, ancora più gravi di quelli che travagliano oggi la Chiesa nel nostro Paese. Era un uomo di Dio; un Santo 3.
Cari fratelli e sorelle, potrebbe apparire paradossale, ma oggi venendo qui in pellegrinaggio a SachseIn nel 700° della nostra Confederazione, non siamo venuti in primo luogo ad abbeverarci alla fonte del patriottismo.
Siamo venuti ad imparare che il cristiano prima di essere cittadino di una Nazione deve sentirsi membro della sua Chiesa. La nostra Chiesa, è la Chiesa che ha costruito l’Europa, perché il nostro Continente, fino a qualche secolo fa, è stato prima di tutto espressione culturale e politica della cristianità. La nostra Chiesa è la Chiesa universale, perché abbraccia persone e popoli appartenenti al mondo intero.
La prima appartenenza che il cristiano deve sentire è quella di essere membro della sua Chiesa. Se la nostra prima identità, quella che sentissimo più profondamente, fosse quella di essere cittadini delle Nazioni alle quali apparteniamo e che amiamo, allora, invece di lasciarci guidare dalla coscienza cristiana e cattolica, ci lasceremmo guidare dalla coscienza nazionale e risolveremmo i problemi a partire da criteri che non sono necessariamente di valenza cristiana.
Se S. Nicolao si fosse sentito prima di tutto confederato, si sarebbe schierato dalla parte di una delle fazioni litiganti e si sarebbe lasciato coinvolgere dagli egoismi e dagli odi; dallo spirito particolaristico, che divideva gli svizzeri.
Invece ha saputo porsi al di sopra delle parti, trascendendo ogni forma di campanilismo, perché aveva una coscienza cristiana universale. Per questo, e non perché era uno svizzero, sono venuti per incontrarlo, interrogarlo e chiedergli consiglio, da ogni Paese d’Europa.
Il primo contributo alla soluzione dei problemi che la nostra Confederazione deve affrontare attualmente, per noi cristiani deve essere quello di riscoprire la nostra identità più profonda, di cristiani e di cattolici. Solo così saremo in grado di trascendere i riflessi storici nazionalistici, che portiamo nella nostra coscienza, per affrontare la situazione storica attuale, con apertura di spirito. Non con un’apertura da persone solo intelligenti e illuminate, ma con un’apertura che viene dal nostro essere in quanto cristiani, prima di tutto membri della Chiesa e perciò cittadini del mondo e, per incominciare, dell’Europa.
I vescovi sono cittadini del mondo e sono per loro vocazione i primi cittadini europei. Voi cristiani dovete avere nei vescovi e nel Papa il vostro primo punto di riferimento. Solo a questa condizione saremo assieme in grado di dare un contributo illuminato ai gravi problemi che la nostra Confederazione deve affrontare.
Questo vale, in primo luogo, va senza dirlo, per il modo con il quale dobbiamo affrontare i gravi problemi che serpeggiano nella nostra Chiesa, in Svizzera. Più che mai in questo caso dobbiamo sentirci più cattolici che svizzeri, perché se la Svizzera non può più pretendere, dall’Europa, di essere considerata, a tutti gli effetti, un Sonderfall, tanto meno lo può essere la Chiesa in Svizzera in rapporto alla Chiesa universale. Non esiste una Sonderkirche svizzera. Esiste solo una Chiesa particolare, aperta a realizzare in se stessa, senza paura di perdere la propria identità specifica, tutti i valori della Chiesa universale.
S. Nicolao è svizzero ed è il nostro orgoglio. Ma non è Santo perché è svizzero. È Santo perché ha respirato nella sua anima tutti gli orizzonti senza confini della cattolicità. Poiché era un Santo, lui che aveva radici così profondamente attaccate all’ «humus» della sua terra e della sua Patria, stato, del suo tempo, il più grande di tutti gli svizzeri.
La lezione che siamo venuti ad ascoltare, qui davanti alla sua tomba, è questa: quanto più saremo persone di fede, aperte, senza reticenze, agli orizzonti della Chiesa universale, che è la nostra prima Patria e la prima dimora della nostra persona; quanto più saremo attenti e aperti al Magistero universale della Chiesa, tanto più saremo capaci di interpretare il bene della nostra Nazione; soprattutto, sapremo capire le difficoltà e le miserie della nostra Chiesa particolare in Svizzera. Quanto più saremo fedeli alla Chiesa universale, tanto più sapremo evangelizzare nuovamente la nostra Chiesa e la nostra società in Svizzera.
A S. Nicolao, che nel piccolo orrido del Ranft, ha vissuto nascosto, lasciandosi illuminare dalla luce sfolgorante della verità universale, quella del mistero della Trinità, dobbiamo oggi esprimere tutta la nostra gratitudine per aver aiutato i nostri antenati e per averci indicato la strada da percorrere come cristiani.
In questo 700° anniversario della nostra Confederazione siamo venuti quassù, pellegrini fiduciosi, ma anche contriti, per domandargli la grazia di saper vivere la nostra missione e il nostro impegno nei confronti della nostra Confederazione e della nostra Chiesa in Svizzera, con un cuore e con una mente profondamente illuminati dalla luce di una fede cristiana realmente vissuta.
3 Il 23 gennaio 1990, nel corso dell’Omelia pronunciata alla Messa per il Cinquantesimo della morte del Consigliere Federale Giuseppe Motta, Mons. Eugenio Corecco, ha, tra l’altro, ripreso la conferenza tenuta dallo statista nel 1928 a Lucerna, davanti agli studenti cattolici, sul tema “Le rôle de la jeunesse catholique en Suisse”, da lui definita : <<il discorso che, probabilmente meglio di tutti gli altri, rivela i profili della personalità di Motta, impegnato come cattolico a dare una testimonianza di fede attraverso l’azione politica, a livello nazionale ed internazionale>>.
<<(…)È una catechesi rivolta a giovani studenti, ma estendibile, nella sua validità, a tutti i cristiani, poiché sintetizza il modello del cattolico impegnato nella società, attorno a quattro doveri fondamentali. Il primo, insostituibile dovere, di cui tutti dobbiamo sentirci investiti, è quello di professare e praticare la nostra fede. La fede vissuta non come sovrastruttura spirituale, bensì come punto di riferimento operativo e reale della vita, senza cedimenti, già allora di moda, di fronte alla cultura dominante. Con intuito moderno, Motta esortava i giovani: a non essere cedenti di fronte all’asserita esistenza di un’incompatibilità tra la religione e la scienza, e a non accettare l’imperativo della scientificità, quale unico omnicomprensivo criterio per capire e guidare il destino dell’uomo.
Il secondo dovere del cattolico è quello del rispetto della tradizione politica, che secondo Motta doveva coincidere in Svizzera, con il rispetto della tradizione federalista e democratica, fondata sulla libertà. Per quanto sorprendente possa essere questa affermazione di Motta, essa è storicamente plausibile. In realtà, però, Motta fonda questa sua affermazione risalendo ad un principio più universale, che conferisce al suo discorso un risvolto conciliare «ante litteram»: il principio della libertà di coscienza, In questo contesto afferma, infatti, che la democrazia è vera solo in forza del fatto e nella misura in cui essa realizza un’autentica libertà di coscienza. Il rispetto della libertà di professare e praticare la propria fede religiosa, deve essere vissuto da ogni cattolico come criterio imprescindibile di rapporto con gli altri uomini. Il terzo dovere è la dimensione sociale dell’esistenza. Questa socialità dell’agire del cristiano, tuttavia, non ha come referente solo l’uomo in quanto tale, e non ha, di conseguenza, come movente etico una forma qualsiasi di umanitarismo, bensì la carità stessa di Cristo. «L’uomo sociale per eccellenza», non esita ad affermare Giuseppe Motta, facendo esplicito riferimento a S. Vincenzo de’ Paoli e a Federico Ozanam, «è il Santo, perché tutta la sua attività tende a realizzare la perfezione della legge suprema di Cristo, che è quella della carità». La santità del cristiano è così indissolubilmente legata all’impegno sociale, assunto, però, per amore di Cristo.
Il quarto dovere è quello dell’internazionalità. Motta ritiene che il cattolico è internazionale per sua natura. Quale errore formidabile. Esclama attingendo nel profondo della sua coscienza cristiana, forse prima che in quella di uomo politico, «quale errore formidabile sarebbe stato se la Svizzera si fosse astenuta dalla Società della Nazioni, poiché allo stesso modo che non esiste opposizione tra fedeltà alla Chiesa e la fedeltà alla Patria, non c’è opposizione, bensì armonia, tra l’amore della Patria e l’amore all’umanità».
Non ci sono elementi per dubitare che l’apertura e la determinazione internazionali, che hanno caratterizzato tutto l’impegno politico di questo grande statista, abbiano trovato il loro primo «humus» nella naturale risonanza universale presente nella sua coscienza di cristiano e di cattolico. (…).
Per Giuseppe Motta l’identità cristiana risulta così determinata da quattro dimensioni spirituali, la cui ascendenza culturale risale inconfondibilmente alla tradizione cristiana più autentica. Proprio per questo il modello di cristiano elaborato da Motta, conserva, al di là della paludata veste letteraria che lo data nel tempo, una capacità propositiva in grado di esercitare un fascino anche su di noi che, a cinquant’anni di distanza, ci interroghiamo sul modo di esprimere la nostra identità cristiana nella società contemporanea. La risposta è semplice e lineare.
Primato dell’esperienza di fede, su qualsiasi altro impegno; apertura al dialogo nel rispetto della libertà di coscienza; passione per la solidarietà sociale; vocazione missionaria universale (…).>>.