Le riflessioni a Palazzo federale «Le nostre istituzioni pervase dal disagio», Berna, 13 marzo 1990
«Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella, si avvicina l’aurora?».
Con queste parole gli Edomiti in esilio interrogavano il profeta Isaia (21, 11) per sapere quanto tempo ancora avrebbero dovuto aspettare la loro liberazione.
Il profeta rispose: «Se lo volete, convertitevi». Anche noi abbiamo molti motivi per interrogarci sul nostro avvenire.
Le nostre istituzioni sono pervase dal disagio. La nostra immagine smagliante sta sbiadendo proprio quando l’abitudine al benessere ci dava l’illusione che niente avrebbe potuto cambiare e che l’equilibrio sociale e politico, raggiunto da due secoli, fosse acquisito per sempre.
Da un lato, troppi soldi, troppa speculazione, troppo individualismo; dall’altro, la grave carenza di alloggi, l’inquinamento, il flagello della droga, la minaccia dell’AIDS, e soprattutto troppa miseria spirituale nel cuore degli uomini. I richiedenti l’asilo e i popoli, sia dell’Est, sia dell’Ovest, bussano alle nostre porte per sapere: ci interrogano. Ma i valori, quelli scritti e quelli non scritti, su cui poggia la nostra Costituzione (il senso religioso, la sobrietà, l’ethos del lavoro, ed anche il senso della famiglia) si trasformano rapidamente.
La Confederazione, che ci ha uniti per secoli malgrado le nostre differenze, era fondata su un equilibrio costante fra i valori fondamentali e gli interessi comuni. Forse, da alcuni decenni a questa parte, ci siamo preoccupati soprattutto degli interessi, tralasciando invece i valori. Di colpo, oggi scopriamo che questi valori, dietro la facciata, si stanno sgretolando: la neutralità non ci permette più di definirci in un’Europa che cambia; il federalismo e la democrazia semi-diretta sono vissuti sempre meno, mentre potrebbero costituire il nostro contributo più originale all’Europa. Anche il plurilinguismo si è trasformato: era il nostro orgoglio, ed è diventato uno scoglio contro il quale la solidarietà e la coesione stessa del nostro paese vanno a sbattere.
Quasi senza rendercene conto rischiamo di svegliarci un giorno e di trovarci molto diversi da come eravamo un tempo; eppure l’aurora di una nuova Europa si avvicina e non potremo sfuggirle.
Siamo ancora all’altezza del nostro compito? Se interrogassimo oggi il profeta Isaia, ci darebbe la stessa risposta che diede al popolo degli Edomiti, 3000 anni fa. Ci direbbe: «Se volete, convertitevi, siate vigilanti». Il tema della vigilanza percorre tutta la Bibbia. «Beato l’uomo che veglia giorno e notte», dice il libro dei Proverbi (8,34).
La vigilanza è un lavoro spirituale. Il male non viene dalle cose, ne dalle persone; il male viene dalla nostra mancanza di vigilanza, dall’assenza in noi di lavoro spirituale; il male viene dal fatto che ci lasciamo prendere dalla fascinatio nugacitatis, come diceva Pascal e cioè, dal fascino delle cose meschine.
Questa si manifesta nella nostra incapacità di sacrificio, nella nostra mancanza di coraggio di fronte al rischio di aprirci verso nuovi orizzonti.
Un umanista del XVI secolo diceva: «Helvetia gratia Dei regitur et confusione hominum». Ma almeno, gli svizzeri in crisi a quell’epoca erano profondamente religiosi, a tal punto che furono capaci di prestare orecchio a Dio, il quale parlò loro tramite un profeta: San Nicolao della Flüe. Noi, invece, nella mancanza di chiarezza attuale, ci scopriamo sempre meno religiosi. E la religione è prima di tutto un lavoro dello spirito, il quale lotta per dei valori, alla ricerca di una trascendenza.
Questa vigilanza non ammette che l’uomo resti in una posizione subordinata nei confronti dell’economia.
Quest’ultima, forse, ci permetterà di aprirci all’Europa che avanza, ma non è certo grazie all’economia che risolveremo i nostri problemi spirituali. Solo sul piano spirituale possiamo fondare realmente la solidarietà confederale elvetica ed europea.
Il gran libro della Santa Scrittura, che ha ispirato la cultura dell’Europa e del nostro Paese e che resta ancora, bene o male, la fonte più importante della nostra identità europea, ci dice che la vigilanza è prima di tutto l’atteggiamento spirituale che conduce l’uomo a rimanere in ascolto di Dio.
«Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza… di comparire davanti al Figlio dell’uomo» (cfr. Lc 21,36). «La notte – diceva San Paolo ai cristiani di Roma – è avanzata. Il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente» (Rm 13, 12-13).
Sarebbe tuttavia errato credere che potremmo presentarci a mani vuote davanti al Signore, senza aver svolto il nostro compito storico. Dio ha dato all’uomo un mandato culturale all’alba della creazione e cioè quello di governare il mondo e la storia: «Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra e sottomettetela».
L’anno prossimo festeggeremo il Settecentesimo anniversario della Confederazione. Per evitare che questa festa sfoci in un’inutile “kermesse”, o in una nuova occasione di conflitti, dobbiamo riflettere bene sui nostri valori comuni. Valori cristiani per i cristiani, valori spirituali per tutti. Basandoci su questi valori, con un approccio profondamente spirituale, possiamo scoprire una nuova identità, una nuova coesione nazionale, moderna ma in grado di offrire a tutti i nostri concittadini un senso di autentica appartenenza ad una comunità, cui ogni uomo ha diritto. Un’identità ed una coesione che potremmo proporre come modello per l’Europa 2 .
Dobbiamo chiedere a Dio il dono e la forza della vigilanza se vogliamo rispondere in modo responsabile alle sfide storiche che ci attendono.
2 Nell’Omelia in occasione del pellegrinaggio della Parrocchia di Airolo a Passo del San Gottardo il 1º agosto 1990, Mons. Eugenio Corecco, rievocando la figura e l’opera di San Gottardo, ha toccato, tra gli altri, il tema delle radici del continente europeo.
<<(…) È stato uno dei personaggi che ha dato l’impulso per la ripresa del senso dell’unità europea e ha impresso un carattere fortemente religioso a questa ripresa politica, economica, culturale. Ha fondato scuole non funzionali a un mestiere, ma scuole di musica e di arte perché ha capito che attraverso l’arte la gente in Europa trovava qualcosa di comune, perché l’arte è universale. Il canto gregoriano ha origine in queste scuole: è stato il primo a costituirle. La prova che sia stata una persona importante nel suo secolo sta nel fatto che il culto, dopo la sua canonizzazione, si è diffuso in tutta l’Europa. Ci sono chiese dedicate a lui in Lituania, in Spagna, il Duomo a Hildesheim, due chiese a Milano. L’ arcivescovo di Milano San Galdino ha dedicato a lui questo punto centrale tra Lituania e Spagna, tra Sud e Nord. Dunque è una figura che dobbiamo riscoprire perché, in un momento come questo, che vede l’Europa prendere coscienza della propria unità, richiamarci a questa figura è importante. Ci fa capire infatti che quello che ci unisce in Europa, l’elemento comune, non è certo la lingua, la cultura particolare, ma il fatto che siamo una popolazione cristianizzata; tutti abbiamo incontrato il Cristianesimo. Questo è l’elemento comune dell’Europa. Non c’è nessun altro continente nel mondo che possa vantare lo stesso fatto: l’essere stato determinato nel proprio modo di pensare, di vivere, di costruire, di mangiare, fin nei minimi particolari della vita, dall’aver incontrato Gesù Cristo. In effetti costruiamo, mangiamo, ci sposiamo, viviamo, educhiamo i figli in modo diverso da come possono farlo i mussulmani, che sono dentro un altro mondo religioso. Il Cristianesimo ci ha determinati fino in fondo, anche se oggi facciamo fatica a rendercene conto. Mi pare importante riscoprire la figura di San Gottardo perché è stato il perno in Europa della ripresa cristiana, della nuova evangelizzazione.(…)>>.
Rispondendo a un’intervista del giornalista Michele Fazioli, realizzata nel 1990 e pubblicata nel Quaderno della Banca del Gottardo “36 interviste al Ticino che cambia”, Mons. Eugenio Corecco ha ripreso, tra l’altro, i temi della democrazia, del federalismo e dell’Europa e si è altresì espresso sul rapporto tra cristianesimo e politica.
<<(…) La democrazia svizzera, che affonda le sue radici in una componente popolare germanica, è nata come patto di fede cristiana nei valori più alti della persona umana. L’<homo helveticus>, di cui San Nicolao della Flüe è tuttora il modello, ha un modo d’approccio ai problemi che è influenzato da una inconfondibile tradizione democratica, uno stile di vita un po’ diverso rispetto a quello che possono avere le genti delle nazioni vicine.
Se guardiamo all’estero, scopriamo che quello che ci distingue, noi svizzeri, è proprio questa esperienza collaudata di democraticità, di profondo senso dell’uguaglianza delle persone, di semplicità e di capacità di relativizzare le situazioni, favorita anche da un invidiabile benessere economico. Valori che sono così radicati da sembrarci acquisiti e inosservabili. Ma ci sono e perdureranno solo se li assumiamo responsabilmente(…)
Dobbiamo continuare a guardare ad una intensa vita politica, profondamente federalista, perché questo è uno dei valori grandi, anzi, probabilmente il più grande, che possediamo rispetto ad altre nazioni. Il federalismo è quella struttura che fa penetrare il principio democratico in modo capillare, disinnescando ogni possibile perversione totalizzante, perché professa un profondo rispetto per le minoranze. Dobbiamo insomma praticare una vita politica intensa (nel senso più alto del termine), mantenendo un’intelligente apertura alle nostre radici culturali italiche. Solo così conserveremo la possibilità di essere qualcuno nel contesto svizzero e, attraverso di esso, dare un contributo alla nascita di un’Europa federalista.
Saremmo insomma una sorta di laboratorio per una possibile Europa federalista?
Potremmo esserlo. Ma il problema è quello di chiederci fino a quando potremo continuare a rimanere un esempio isolato e protetto, ormai sempre più inosservato. Il nostro federalismo potrà essere un modello, solo se noi sapremo realizzarlo in modo sempre più coerente e farlo conoscere per mostrare agli altri che esso può essere applicato anche ad altre situazioni.
Non possiamo isolarci nel <nostro> federalismo, ma, attraverso di esso, dobbiamo confrontarci con le grandi istanze che emergono: gli altri, i bisogni degli altri, le loro tradizioni e mentalità, e soprattutto chi è soggetto ad iniquità e disuguaglianze.(…)
Non voglio chiamare a forza il Pastore spirituale dentro la politica (anche se qui ritorna il problema della coerenza tra fede e vita quotidiana e quindi un occhio aperto sulla politica non deve essere negato alla Chiesa…). Ma sul piano personale, per Mons. Corecco, tra sinistra e destra dove sta una possibile via?
Discorso difficile e complesso, soprattutto se da farsi in poche parole. La soluzione giusta non sta nel principio radicale del libero mercato sfrenato. No di certo. Ma nemmeno in quello di un assoluto egualitarismo fondato solo sul principio quantitativo che nega i bisogni spirituali, qualitativamente diversi ed insopprimibili, dell’uomo. Si tratta di un sistema che non porta nessun arricchimento sociale (come lo dimostrano le crude rivelazioni dell’Est europeo, esplose nel 1989). Fra i due estremi c’è tutto lo spazio per un sistema non fondato su principi astratti, quello del profitto e dell’uguaglianza quantitativa, ma sui reali bisogni e le reali aspirazioni della persona umana. Alcuni principi fondamentali dell’insegnamento sociale della Chiesa, tra cui mi limito a segnalare quelli della sussidiarietà e della solidarietà, dovrebbero essere presi in considerazione da tutti i partiti e governi, non tanto perché proposti dalla Chiesa e dalle Chiese, ma perché frutto di una conoscenza plurimillenaria, e perciò più approfondita, della natura dell’uomo e della sua dimensione sociale.
E non c’è una ricetta cristiana, suppongo…
No, non necessariamente. Il rapporto tra cristianesimo e politica non è necessariamente quello di un’azione diretta, addirittura partitica, anche se di fatto molti cristiani si riconoscono in movimenti sociali, sindacali e politici che al cristianesimo si riferiscono.
Intendo piuttosto affermare che il cristianesimo è di per sé una realtà che, proprio perché tocca il cuore dell’uomo, cioè il punto centrale della sua autocoscienza, ha la capacità di rigenerare continuamente soggetti portatori di proposte socio-politiche nuove, tesi a salvare il più possibile la dignità di ogni persona umana. Il cristianesimo non è un’ideologia, ma è l’avvenimento della verità fatta carne nel Figlio di Dio e dunque al servizio dell’uomo concreto, del suo bisogno fondamentale di realizzarsi compiutamente.
E allora il cristianesimo non ha ricette tecniche belle e pronte, ma è il luogo dove l’uomo, facendo un’esperienza vera di comunione, diventa sempre più sensibile, responsabile, e perciò capace di ridestare negli altri uomini, assieme alla dimensione religiosa, anche uno spiccato bisogno di socialità: da questa sensibilità umana potranno poi nascere eventualmente anche soluzioni concrete e tecniche ai problemi politici che si porranno di volta in volta. Ma la Chiesa non può indicare graniticamente un sistema politico che vada bene in modo assoluto, anche perché non esiste nessun sistema politico-sociale, neppure quello democratico, che non debba fare costantemente i conti con la inafferrabilità del mistero della persona umana. L’uomo trascende ogni sistema socio-politico. Per cui la Chiesa torna sempre…alla questione iniziale: la nuova evangelizzazione, la fede. Da qui semmai scaturiranno coerenze…La evangelizzazione è previa alle soluzioni tecniche dei problemi sociali e politici. Noi dobbiamo pensare ad una umanità diversa alla radice stessa del proprio modo di pensare. Dunque evangelizzare di nuovo non significa necessariamente contestare i sistemi entro cui siamo, ma soprattutto far riacquisire alla gente una giusta posizione di fronte a sé stessa e di fronte a Dio. L’insegnamento sociale della Chiesa, che nasce da una concezione teologica dell’uomo, per poter essere tradotto politicamente e applicato nel concreto, ha bisogno di uomini nuovi, interiormente liberi e capaci di assumere il rischio delle contingenze e di cambiare parallelamente all’evolvere della situazione.(…)>>.