Introduzione del Gran Cancelliere al Dies Academicus della Facoltà di Teologia di Lugano, 4 dicembre 1993.
1. Mi sia consentito aprire questo indirizzo di saluto inaugurale del secondo Dies Academicus con una comunicazione ufficiale che, da sola, basta ad onorare la nostra giornata celebrativa.
Con decreto della Congregazione per l’Educazione Cattolica del 20 novembre scorso, la S. Sede ha concesso all’Istituto di Lugano il diritto di rilasciare il dottorato in Sacra Teologia, elevandolo al contempo al rango accademico di Facoltà di teologia.
Giunge in tal modo a compimento il nostro itinerario accademico nell’ambito delle strutture universitarie operanti a livello di Chiesa universale.
2. Esprimendo pubblicamente la mia gratitudine e quella del corpo insegnante e studentesco alla Congregazione per l’Educazione Cattolica e al Santo Padre P.P. Giovanni Paolo II per averci concesso questo ambito diritto, che erige l’Istituto in Facoltà di Teologia, vale a dire in una entità base di ricerca e insegnamento su cui tradizionalmente si fonda l’università, permettetemi di fare una breve riflessione sulla natura e la funzione dell’università stessa.
3. Per dare una risposta si possono seguire due vie.
Una è quella di procedere a una semplice rilevazione oggettiva di cos’è oggi e come funziona questa istituzione. La seconda è quella di ripercorrere la storia dell’università, indagando sul suo significato originale e interrogandoci criticamente sull’attualità della sua vocazione originaria e dei modelli assunti nel tempo sino ai giorni nostri. Non è certo la brevissima esperienza della nostra Facoltà di Teologia, ma piuttosto la lunga esperienza universitaria di alcuni professori e del sottoscritto che l’hanno fondata, che mi autorizza ad affrontare questo tema.
4. Se si batte la prima strada, ci si rende subito conto che l’università attuale serve sostanzialmente a preparare “forza lavoro qualificata”, capace di mediare il rapporto fra scienza e produzione materiale e di elaborare conoscenze utili al funzionamento dell’apparato produttivo.
Queste due funzioni vengono spesso indicate con le parole didattica e ricerca. Lo studente si aspetta di apprendere cose che gli consentano di inserirsi in un modo vantaggioso nella generale organizzazione del lavoro. Il professore cerca di elaborare conoscenze utili a questo fine e di trasmetterle. La società si aspetta di ricevere dall’università persone preparate a svolgere funzioni utili alla riproduzione delle società stessa.
La categoria che domina in questo primo approccio al problema è quella dell’utilità. Ci si domanda: a che serve l’università? a che serve questa laurea? a che serve questa conoscenza?
Il filosofo Nikolaus Lobkowicz, dell’Università Cattolica di Eichstatt, ha scritto che, se si continuasse con questo tipo di approccio “perfettamente strumentale”, si potrebbe giungere, in un futuro non lontano, ad eliminare definitivamente la concezione stessa di università, riducendo gli attuali istituti accademici a luoghi esclusivamente deputati alla formazione professionale, regolata nelle sue esigenze dalle leggi implacabili di mercato e perciò decisamente poveri, o del tutto privi, di ispirazione ed addirittura di pensiero.
Forse è nella intuizione di questa problematica che il popolo ticinese ha fatto tanta resistenza alla creazione di un’università locale, ritenendola in ultima analisi superflua. Se si fa uso, invece, della seconda strada, occorre risalire fino al Medio Evo, dove l’Universitas studiorum non nasce da un progetto del potere costituito, ma piuttosto dal desiderio spontaneo degli uomini di conoscere la verità.
5. I sodalizi di professori e studenti, nati su base privata dal bisogno di rinnovamento intellettuale caratterizzante il XII secolo, diventeranno vere e proprie università, grazie al papato e poi all’impero, che, oltre ad averne fondate di nuove, hanno concesso a quelle esistenti ampie autonomie, arricchendole di privilegi.
Le università nascono nei chiostri o nei conventi, oppure accanto alle cattedrali, e il termine “università” sta ad indicare soprattutto l’esistenza di una comunità umana, composta di maestri (magistri) e di discepoli (scholares), uniti dalla comune passione della ricerca della verità sulle cose, sull’uomo e su Dio.
Le singole facoltà vengono concepite come diverse vie di accesso all’unica verità. Proprio per questo, al centro dell’università medievale sta la facoltà di teologia, dove il contenuto dell’insegnamento è l’autocomunicazione di Dio stesso all’uomo. La rivelazione è una grande ipotesi di lettura della realtà che, tuttavia, per mostrare tutta la sua fecondità, deve essere sottoposta alla verifica della conoscenza e dell’esperienza umana, secondo tutte le diverse forme di ricerca e di studio.
Certamente anche l’università medievale prepara a funzioni sociali determinate, ma in essa l’accento cade sulla formazione dell’uomo, piuttosto che sulla preparazione del funzionario. Il primo scopo dello studio universitario è l’arricchimento della persona, che riconosce la verità e vi aderisce con libertà, per realizzare il bene proprio e quello comune.
6. Dopo questi grandi inizi dell’università, gli storici sono soliti trascurare l’epoca di rinnovamento, operato nello spirito umanista del Rinascimento, per passare, attraverso semplificazioni irriguardose, alla grande riforma, attuata da Wilhelm von Humboldt (1767-1835) all’università di Berlino.
7. Il modello humboldiano laicizza l’idea medievale. L’ideale dell’unità del sapere, della superiorità del sapere puro su quello applicato e il gusto della formazione dell’uomo integrale, sono ancora vivamente sentiti. Questo ideale non è più radicato, però, in un’esperienza di unità umana – quale punto sorgivo di un’autentica coscienza critica della società – bensì su un modello idealistico di comunità, in cui il compito epistemologico centrale non è più affidato alla teologia, ma alla filosofia. Tuttavia, l’idea fondamentale secondo cui le singole facoltà forniscono prospettive diverse e complementari sulla verità rimane; come rimane l’immagine del doctor, che prima di essere uno specialista di questa o quella disciplina, è un uomo che ha l’amore alla totalità dell’essere e del bene.
Accanto a questo modello primario la riforma di Von Humboldt conosce e sanziona, però, anche un altro metodo di acquisizione e trasmissione del sapere. È quello della scuola superiore tecnica, modellata sull’esempio della “école polytechnique” napoleonica, destinata a formare funzionari, cioè uomini capaci di svolgere una funzione specializzata all’interno dell’organizzazione dello Stato assoluto moderno.
Il funzionario non si interroga su che cosa sia il bene o in che cosa consista la verità, ma solo in che modo un sapere scientifico possa essere usato, con il massimo di efficacia ed il minimo di spese, per conseguire i fini pratici definiti dal principe o dal governo illuminato.
8. Nel secondo dopoguerra, il boom economico dei paesi occidentali ha avuto come conseguenza quella di sviluppare a dismisura le strutture universitarie. Il cambiamento, tuttavia, non è stato solo quantitativo. Il modello della scuola superiore tecnica, secondario nella riforma di Von Humboldt, ha preso il sopravvento. La discussione sui fini si è interrotta o è stata praticamente abbandonata. Il sapere che viene coltivato è sempre più un sapere strumentale .
Anche le facoltà di teologia e di filosofia hanno rinunciato alla vocazione di dare indicazioni sui fini, per rinchiudersi su se stesse, sottomettendosi senza riserve alla logica della divisione del lavoro accademico.
Nelle altre facoltà la ricerca è sempre più condizionata dallo sforzo di produrre il sapere richiesto dal mercato, più che dalla preoccupazione di investigare, da un punto di vista intrinseco alla scienza stessa, ciò che è effettivamente importante per l’uomo, per il suo avanzamento e per il suo sviluppo. In questo modello illuminista, segnato da una concezione individualistica dell’uomo, l’unità della universitas magistrorum et scholarum, quale realtà comunitaria umana, capace di elaborare un giudizio critico sulla società, non solo non è più teorizzata, ma è resa anche illusoria dalle strutture megagalattiche raggiunte da moltissime università di Stato.
Ciò ha provocato il formarsi di un crescente senso di impotenza e di sfiducia che, verso la metà degli anni sessanta, esplode in tutta la sua violenza, sotto l’influsso dell’ideologia marxista. Negli Stati Uniti d’America e in quasi tutta l’Europa si reagisce innestando un processo di progressiva democratizzazione, decentralizzazione e politicizzazione delle strutture universitarie, nella speranza di poter risolvere in questo modo la crisi profonda in cui versa l’istituzione.
Di fatto, però, non è difficile constatare, ovunque, l’insuccesso di questa riforma; la ragione è semplice: la crisi dell’università non è primariamente di tipo organizzativo ed istituzionale, ma spirituale e culturale. In altri termini, è in crisi l’università come istituzione educativa e come luogo di produzione del sapere, sia teorico che pratico.
I giovani, vittime della crescente specializzazione, non incontrano più un luogo in cui possa essere posta la domanda che riguarda l’uomo come tale. Ogni singola disciplina la respinge dal proprio ambito, qualificandola come non scientifica rispetto ai termini del proprio lavoro settoriale. In questo mondo specifico lo studente non ha la possibilità di interrogarsi criticamente su se stesso, sulla propria identità più autentica, sui fini che intende perseguire nella vita. Di conseguenza non può assumere criticamente il ruolo sociale cui l’università lo prepara.
Il concetto stesso della scienza viene assorbito in quello della tecnica, ed è proprio attraverso tale processo concettuale che alla tecnica viene attribuito quel carattere di onnipotenza demoniaca, di cui troviamo riscontro nella filosofia heideggeriana.
Nel frattempo, però, l’epistemologia più recente aveva già riscoperto che le leggi endogene di sviluppo del sapere scientifico sono di natura essenzialmente teoretica. Per essere adeguatamente pratico, il sapere deve prima essere teoretico. Ciò significa che non è possibile fare scienza, se la preoccupazione dell’utilizzabilità pratica della scoperta sostituisce il gusto e la preoccupazione del conoscere le cose in se stesse, per amore della conoscenza in quanto tale.
La crisi dell’università come luogo educativo e come luogo di elaborazione del sapere tecnico si riflette, così, sulla sua capacità di fornire una preparazione tecnico-professionale adeguata. La tecnologia, infatti, non è semplicemente un dedurre, da leggi scientifiche immutabili, soluzioni altrettanto immutabili di concreti problemi pratici.
In realtà, il compito del laureato di facoltà tecniche (si pensi agli ingegneri, agli architetti o ai medici, per es.) è quello di mediare fra il sapere scientifico ed i concreti bisogni dell’uomo, della società e dell’ambiente, ai quali la tecnica intende dare risposta. Perché la risposta sia soddisfacente è necessaria una grande capacità di comprendere il bisogno dell’uomo in quanto tale, di dialogare con esso, sulla base di una ipotesi di ricerca feconda, sulla verità insita alla persona umana.
Di diverso contenuto sarebbero eventuali riflessioni – che non intendo proporre in questa sede – sul modello universitario prodotto dal materialismo dialettico.
9. Ho accennato in apertura alle ragioni profonde che, forse in modo implicito, hanno indotto il nostro popolo nel 1986 a sconfessare il progetto universitario del Cantone Ticino. Fu probabilmente la consapevolezza, espressa non sempre in modo adeguato, che lo Stato non sarebbe stato in grado di creare un fatto culturale nuovo, degno di essere sostenuto anche con sacrifici finanziari. A questo si aggiunse, senza dubbio, la percezione della non necessità di una università locale.
Oggi il clima sembra profondamente cambiato. Prima di tutto, perché si è capito che il problema universitario si pone in termini diversi. È diventato più chiaro che un’università ticinese si giustifica solo a condizione che essa sia utile, non solo per una nostra potenziale utenza, ma anche per altri Paesi e culture. Solo se dalla tribuna europea o internazionale si guarderà all’università del Ticino con interesse reale, avrà senso realizzarla anche per noi. Un’università esclusivamente progettata all’interno del nostro angusto orizzonte ticinese non avrebbe senso. Tanto più che sembra difficile individuare, nella nostra società, un bisogno che possa essere soddisfatto solo attraverso l’apertura di una università locale.
I bisogni, in rapporto alla ricerca e alla formazione accademica, esistono, ma possono essere soddisfatti anche altrove. Ne consegue che un’università locale si autogiustifica solo se riesce a dare una propria risposta che sia, nel contempo, non solo fruibile, ma appetibile anche oltre i nostri confini.
Questa appetibilità non può essere determinata solo dalle materia di ricerca e di insegnamento, ma piuttosto dal modello di istituto, nel quale deve essere leggibile un tentativo di ridare all’università un compito non più passivamente subordinato alle esigenze di mercato, bensì di ricostituzione del tessuto della società in crisi.
L’università adempie al suo compito originale solo nella misura in cui riesce a porsi come forza riformatrice e perciò critica rispetto alla società e ai suoi valori dominanti.
Perché ciò sia possibile, lo Stato deve, a mio avviso, rinunciare al ruolo di soggetto protagonista, attribuitogli dal modello di Von Humboldt. In un momento storico di crisi politica e istituzionale latente, in cui il ruolo dello Stato sta rapidamente evolvendo da istanza che ipostatizza la società verso la funzione meno totalizzante di organo al servizio della società, la responsabilità delle riforme, in vista della riorganizzazione del potere pubblico, deve essere riconosciuta alla società e alle forze che in essa siano capaci di sviluppare una nuova creatività. Lo Stato, invece di dirigere in proprio e ministerialmente le università, deve accettare di assumere il ruolo di istanza, incaricata di riconoscere ed assecondare, sostenendole con il suo potenziale finanziario, le iniziative che sorgessero su impulso privato.
Mi sembra che questo orientamento sia ormai in atto nel nostro cantone e non possiamo non rallegrarci con il nostro Governo e con il Direttore del Dipartimento della Pubblica Educazione, On. Buffi, non da ultimo perché, con il nuovo modello di Facoltà di Teologia, senza aver sotteso secondi fini politici, anche noi abbiamo inteso dare un contributo in questa direzione.