Quarta lettera indirizzata ai giovani, Roma 30 ottobre
Carissimi giovani,
il Signore chiama sempre. Questa è la prima certezza che ognuno di voi dovrebbe acquisire. Non come principio dottrinale astratto, ma come intima coscienza personale.
Se esistiamo è perché il Signore ci ha chiamati a vivere, ma non genericamente, come semplici emergenze della specie umana. Ci ha chiamati come persone singole ed irripetibili. Ciascuno di noi con il suo volto ed il suo sorriso; con il nome che gli è proprio.
Quando recitiamo il Credo e diciamo «Credo in Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra», non dobbiamo pensare soltanto alla luna. Dobbiamo renderci conto che il cielo e la terra sono stati collocati nello spazio da Dio per permettere a noi uomini di vivere. Non a caso è stata usata nella Bibbia l’immagine del giardino. Il Libro della Genesi, in cui è codificata la memoria più antica dell’umanità, prospetta la creazione dell’uomo come punto culminante della creazione dell’universo.
A questa coscienza stanno arrivando, poco a poco, anche gli scienziati: quelli che una volta parlavano solo del Big-Bang (non quello della City di Londra), come se tutto fosse stato il risultato casuale di un’esplosione iniziale, che poi non si sa bene da dove fosse venuta.
Chissà quanti Big-Bangs hanno fatto trasalire la storia dell’universo, ma quello più intenso è avvenuto ed avviene quando dentro un essere si illumina la luce folgorante della coscienza. La coscienza di esistere.
La psicanalisi cerca disperatamente di scoprire anche in un piccolo feto umano le prime tracce di un’autocoscienza. Senza questa coscienza, attraverso la quale l’uomo si accorge di esistere e di poter parlare con gli altri, perché vede che anche loro sono coscienti, il cielo e la terra sarebbero inutili. Che importa della luna ad un piccolo puddle, al quale ormai siamo soliti mettere anche il corsetto?
La teoria scientifica più recente è quella antropica, perché mette l’uomo al centro di tutto. Sostiene che non è possibile che l’uomo sia nato per una serie infinita di combinazioni casuali e fortunate della materia. Se all’inizio le prime reazioni della materia non fossero state predeterminate da una volontà precisa e consapevole, anche la più piccola diversità nel processo di evoluzione di quegli elementi avrebbe prodotto, sull’arco di miliardi di anni, un esito del cosmo inevitabilmente diverso da quello, che ha permesso all’uomo di svegliarsi un mattino, sorridente, nel paradiso terrestre.
E stato un atto predeterminato di amore del Creatore. San Paolo, infatti, scrive che Dio ha amato, scelto e chiamato, ognuno di noi, anche se siamo miliardi e miliardi, già prima della creazione del mondo stesso. Andate a leg-gere il primo capitolo della Lettera agli Efesini, poiché la Bibbia è il libro più grande della letteratura umana. Da essa possiamo ricavare quello che ognuno di noi deve sapere di se stesso.
Se Dio fin dall’eternità ci ha amati, così da chiamarci a vivere nel tempo, vuoI dire che il valore della nostra esistenza personale coincide con la risposta che noi gli sappiamo dare. Uno vive la pienezza della sua umanità quando prende coscienza del fatto che Dio lo chiama, per entrare in comunicazione con Lui.
La domanda più sbagliata è quella che ripetiamo costantemente ai nostri bambini: «E tu, cosa farai quando sarai grande?». Come se il valore della vita dipendesse dalle nostre scelte, fatte in modo arbitrario ed autonomo nei confronti di Dio. Purtroppo neppure noi cristiani non sappiamo più come porci di fronte ai nostri bambini.
La vera domanda da porre e da porci è quella su cosa il Signore vuole da noi. E la domanda che cambia la nostra vita; cambia il nostro modo di andare in giro in motorino ed il nostro modo di andare a scuola. Uno impara a rincorrere non più solo se stesso, i propri progetti o le proprie voglie, ma ad avventurarsi sulla strada di chi cerca di capire cosa il Signore vuole da lui.
Nessuno, con questi discorsi, deve lasciarsi prendere dal panico, non sapendo, di primo acchito, come trovare la risposta. Potrebbe anche sembrarvi difficile, ma è solo una questione di metodo. Se uno non vive secondo la logica del mondo, ma accetta la logica della fede, che ha ricevuto, e della sua appartenenza alla Chiesa, la risposta, ve lo garantisco, la troverà anche lui.
Il Sinodo, pur avendo a lungo discusso delle vocazioni al sacerdozio, non ha fatto esplicitamente questi discorsi. Ha però esortato tutti i Vescovi ed i preti ad educare la gente a prendere, prima di tutto, coscienza che Dio chiama ognuno di noi alla fede cristiana, sempre ed in qualsiasi luogo.
Quando uno ha progressivamente acquisito la percezione esistenziale e religiosa di essere chiamato da Dio, allora un giorno si accorge che il Signore chiama magari anche lui a diventare prete, oppure a consacrarsi a Dio nella vita religiosa. Parlo anche della vita religiosa consacrata, perché, parlando delle vocazioni sacerdotali, non vorrei che le ragazze credessero di poter farla franca.
Il Signore chiama inevitabilmente anche voi, ragazze, non solo alla fede, ma anche alla vita religiosa. Le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata vanno sempre di pari passo. Quando mancano le une, non ci sono neppure le altre, e viceversa.
Se l’appello interiore di Dio rimane così spesso senza risposta, è perché voi giovani, e noi adulti, manchiamo manchiamo vergognosamente di fede. Nella migliore delle ipotesi riduciamo la vita cristiana all’esigenza estrinseca di praticare una certa morale, e poiché abbiamo, ovviamente, paura della morale, non sentiamo neppure il Signore che, attraverso la Chiesa e come dietro le quinte delle circostanze della vita, ci chiama. Qualche volta basta un incontro, un libro, una compagnia, un attimo di autocoscienza profonda, un bisogno della Chiesa o della società, che emerge in mezzo alla gente che incontriamo; un ideale che balena nel nostro cuore, il desiderio di essere qualche cosa di più, la voce di un Vescovo o del Papa che invitano a vivere in modo più generoso e più grande.
Dio chiama tutti e sempre, verso strade diverse, compresa, evidentemente, anche l’autostrada del matrimonio. Non perché sia più facile, ma perché è quella del grande traffico degli uomini.
Adesso, però, al Sinodo, il tema è quello delle vocazioni al sacerdozio e non di quelle al matrimonio, di cui ha parlato in abbondanza il Sinodo sui laici del 1987.
Se qualcuno credesse che fra venti o cinquant’anni la Chiesa rinuncerà al celibato, è meglio che lasci stare. Rimarrebbe insicuro di se stesso per tutta la vita. Il celibato, a dire il vero, non è né una legge ingiusta, come pensano troppi cristiani, né un valore che può essere messo o tolto come un soprammobile, a seconda dei gusti. State pur certi che è irreversibile.
La Chiesa latina ha avuto il dono di capire il valore del celibato meglio di tutte le altre Chiese. E ormai chiaro, infatti, che anche nelle Chiese cattoliche di rito orientale, così come hanno ripetutamente testimoniato i loro Vescovi, la figura del prete sposato è in via di lenta, ma inesorabile, estinzione.
Si fa sempre più strada l’idea che la testimonianza coerente, nella rinuncia al matrimonio, è a tutte le latitudini il modo più efficace per intaccare la cultura moderna nella banalità del suo edonismo. Un edonismo, le cui espressioni di erotismo sono ormai tali, da intaccare la stessa immagine dell’amore umano. Stiamo, infatti, distruggendo anche il matrimonio, quale unica forma capace di salvare, nella sua integrità, la dignità stessa dell’amore tra l’uomo e la donna.
Non vi siete mai chiesti, perché i vostri genitori hanno divorziato e divorziano in massa? Le statistiche in Svizze-ra parlano ormai di 1 divorzio su 3 matrimoni. Probabilmente non avevano capito fino in fondo che, anche la scelta del partner, deve essere fatta di fronte a Dio, come risposta ad una vocazione: alla chiamata di amare l’altro fino al dono totale della propria persona.
Il prete, poiché accetta, attraverso il Sacramento dell’Ordine, di essere reso partecipe al sacerdozio stesso di Cristo, così da poter agire addirittura in suo nome, deve vivere come Cristo. Gesù ha amato di un amore personale e particolarissimo tutti, indistintamente, fino al sacrificio totale della sua vita, e senza circoscrivere il suo amore e la sua missione in favore di nessuna persona singola.
Le testimonianze dei Vescovi di rito orientale, dell’Est europeo, sono state chiarissime. Hanno confessato che i preti sposati sono stati i primi a non reggere alle oppressioni del regime comunista ed a cedere nei momenti più atroci della paura e della tortura. Avevano moglie e figli cui pensare, e la paura, si sa, è l’esperienza umana più terribile. E per questo che dobbiamo saperli perdonare.
Ma è altrettanto vero che, anche nella nostra società occidentale, le esigenze della famiglia rischiano, compre n s ibilmente, di prevalere sull’esigenza del dono totale della nostra persona in favore degli altri, ad imitazione di Cristo.
Volere o no, la nuova evangelizzazione della nostra società occidentale ormai così profondamente radicata nel bisogno assoluto di sicurezza sociale e nella sua esigenza di possedere, più che di essere, è possibile solo se il clero riscopre fino in fondo la coscienza di essere chiamato a dare una testimonianza di donazione apostolica totale verso tutti.
Cari giovani, la nuova evangelizzazione è il compito che la Chiesa vi assegna oggi. Ha bisogno di voi, perché voi avete tra le mani il futuro dell’umanità. I Vescovi del Sinodo vi ricordano che Dio, alla vigilia del terzo millennio, vi chiama a realizzare questo compito della storia. Un compito che ha bisogno di persone anch’esse grandi nel loro cuore e nella loro mente.
La verginità nel celibato non dovete viverla come una legge imposta dall’alto, ma come scelta della Chiesa, più sicura che mai, di ritenere idonee al presbiterato, per la verità ultima della testimonianza che devono rendere a Cristo, solo quelle persone cui il Signore concede il carisma della castità. E una testimonianza di amore personale e collettiva; una questione di principio, che, come tale, non è distrutta dalle inevitabili e magari troppo frequenti contro-testimonianze date dai singoli. Carisma significa dono dello Spirito Santo. Il Sinodo non ha lasciato nessun dubbio in proposito. Un dono che implica la vocazione ad essere grandi e forti.
La verginità dell’anima implica, senza coincidere con essa necessariamente, la verginità fisica del corpo. Può essere vissuta come virtù, anche da chi non avesse più la verginità del corpo. Virtù deriva dalla parola latina “virtus” che significa “forza”.
Per diventare preti, o consacrarsi a Dio nella vita religiosa, bisogna essere forti nell’anima. Bisogna essere grandi e pieni di ideali. Bisogna avere una grande passione per l’umanità, saper amare la gente che ci circonda, senza voler possedere in proprio nessuna persona, senza deificare tutti i nostri desideri.
È per questo che il celibato, senza gli altri due consigli evangelici dell’obbedienza e della povertà, fatica a reggere. E come essere zoppi e disporre di un’unica stampella.
Il carisma della verginità il Signore lo concede, come dono, a chi lo ascolta. Voi, appartenete ad una generazione di giovani, alla quale il Signore ha dato il dono della preghiera. Vent’anni fa, per convincerne uno a pregare, bisognava fare una lunga battaglia ideologica. Oggi avete un cuore più aperto. Basta che qualcuno abbia il coraggio di invitarvi a partecipare ad un gruppo di preghiera e voi siete lì a vedere cosa succede a pregare.
E stato così ai pellegrinaggi di Santiago e di La Salette; è quanto avviene in certi vicariati ed in certe parrocchie. Avviene da anni nei movimenti ed ora nell’ Azione Cattolica. Vi prego di unirvi a tutti questi gruppi, dove si prega, perché la preghiera è il modo più vero e più semplice per entrare in contatto con il Signore e per scrutare il disegno che Lui ha su di voi.
Nella lettera precedente inviata da Roma e indirizzata a tutti i fedeli, avevo promesso di parlare di due episodi, un po’ confusi, provocati da due alti prelati, che, facendo dichiarazioni sul celibato, hanno riacceso improvvisamente l’interesse dei mass-media per il Sinodo, che in mancanza di scandali era nel frattempo scemato.
Ora, che scrivo a voi giovani, mi sembra tutto superfluo, perché quello che vi ho detto è molto più importante. Vi tocca al centro dell’aspirazione più profonda del vostro cuore: quella di fare qualche cosa di grande.
Mi pare che il Papa abbia citato una volta questa frase di L. Staff: «La libertà è la fatica della grandezza».
La vocazione al sacerdozio ed alla vita religiosa è qualche cosa di grande: coinvolge la vostra libertà e costa perciò la fatica di qualche sacrificio.
Ciò che è certo, è che la natura dell’uomo, quella che sentite così giovane e generosa palpitare dentro il vostro cuore, è incredibilmente ricca; così ricca, che l’esperienza della rinuncia, se fatta per un ideale più grande, le fa toccare i vertici della sua pienezza. Una pienezza umana incomparabile, che si realizza non solo nella vita eterna, ma anche in quel «centuplo quaggiù», che Gesù Cristo ha promesso, nel Vangelo, a chi ha dentro la libertà e la forza d’animo di seguirlo.
Il Signore vi benedica.