Omelia per la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani domenica 19 gennaio 1992
Questa settimana di preghiera per l’unità dei cristiani si apre richiamando alla nostra memoria il mandato, affidato da Gesù agli apostoli, e, con loro, a tutti i cristiani, di annunciare il Vangelo a tutti i popoli. «Andate dunque ed ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28,19-20)
Questo mandato ha assunto negli ultimissimi anni un’attualità nuova ed una stringenza, alla quale è difficile sottrarsi in buona fede. L’idea della necessità e dell’urgenza, per tutti noi cristiani, d’intensificare il nostro impegno, non nasce certo da un equivoco millenarista, anche se è vero che la scadenza del secondo millennio del cristianesimo è una ricorrenza che invita tutte le Chiese e tutte le Comunità ecclesiali ad un esame di coscienza e ad un bilancio delle rispettive responsabilità di fronte al mondo ed alla storia.
Due mi sembrano essere gli elementi che costringono ad una riflessione sul modo con il quale tutta la cristianità sta onorando il suo impegno missionario nella storia contemporanea: da una parte, la constatazione fatta da Papa Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio che «il numero di coloro che ignorano Cristo e non fanno parte della Chiesa di Cristo è in continuo aumento», anzi dalla metà degli anni sessanta, che per noi cattolici coincide con la fine del grande avvenimento del Concilio ecumenico, è quasi raddoppiato».
Per questa umanità immensa, amata dal Padre, che per essa ha inviato il suo Figlio, è evidente l’urgenza della “missione”. Questa umanità attende la prima evangelizzazione.
Il secondo elemento è la situazione nella quale le Chiese si trovano in Europa. L’Europa, ora riunita dall’Atlantico agli Urali, rivela, da questo punto di vista, una doppia configurazione: all’Est una stragrande maggioranza della popolazione che non ignora ma non crede in Gesù Cristo, all’Ovest una società che si trova in situazione di profonda scristianizzazione.
Urge una seconda evangelizzazione, ed è per questo che il mandato dato da Gesù è ridiventato di estrema attualità per la nostra coscienza di cristiani.
Il programma di una rievangelizzazione della società europea, che mira unicamente alla ricostruzione delle coscienze alla luce del Vangelo di Cristo, è stato accettato, in quanto impegno di fronte alla storia, da altre Chiese al di fuori di quella cattolica e significa oggettivamente che la nuova evangelizzazione della società, al di là di come la si voglia chiamare, non può più avvenire con gli stessi strumenti o criteri della prima evangelizzazione, poiché il clima culturale con il quale siamo confrontati nell’annuncio del Vangelo è profondamente diverso da quello in cui si è attuata la prima.
Per ripensare in termini nuovi l’evangelizzazione della nostra società dobbiamo renderci conto di quattro fatti, che hanno reso radicalmente diverso il clima culturale rispetto al tempo del primo annuncio del Vangelo.
Il primo elemento sta nel fatto che, nel mondo pagano greco-romano, il cristianesimo rappresentava un avvenimento nuovo e quindi capace di suscitare interesse ed attese. Oggi in Europa non è più una novità. Più o meno, tutti gli europei, anche quelli educati nel materialismo ateo, ne conoscono qualche cosa; moltissimi anzi ritengono di conoscerlo sufficientemente per poterlo giudicare in termini negativi. Moltissimi fra questi sono perciò poco disposti ad ascoltare il messaggio cristiano.
Sanno già di che cosa si tratta. Il nuovo, per i popoli europei, in fatto di religione sta nelle religioni orientali, nell’Islam, nella New Age.
Il secondo elemento sta nel fatto che, mentre nella prima evangelizzazione dell’Europa il cristianesimo aveva di fronte un mondo religioso, poiché la religione era una realtà pacificamente ammessa, oggi l’annuncio cristiano si trova dinnanzi ad un mondo e ad una cultura che non sono più strettamente religiosi, perché rifiutano la religione come una superstizione, o come oppio dei popoli, oppure come elemento culturalmente residuato di un’epoca non ancora illuminata dalla ragione; un mondo in cui si ritiene che la scienza abbia ormai scalzato i fondamenti della religione e che, al massimo, le riserva un posto marginale, riducendola a fatto puramente privato. La società è laica anche quando non è decisamente ostile alla religione. Il ritorno del sacro, cui assistiamo, è appannaggio soprattutto delle religioni meditative orientali, teosofiche, dell’esoterismo. Si fa sempre più strada perciò l’idea che tutte le religioni si equivalgano.
Il terzo elemento è il fatto che negli ultimi tre secoli sono state messe in discussione dalla cultura moderna le basi razionali del cristianesimo, della nostra fede e della verità cui crediamo.
È stata negata la possibilità per la ragione di conoscere Dio, l’esistenza dell’anima spirituale e la sua immortalità, la possibilità della rivelazione, per cui il cristianesimo è stato ridotto a religione creata dall’uomo; non si ammette l’ispirazione delle Scritture, la credibilità storica dei Vangeli, la divinità di Cristo, la Sua e la nostra risurrezione, il carattere soprannaturale della Chiesa. Questa critica, fatta in ambienti prima ristretti e di élite, è diventata in larga misura patrimonio diffuso, anche se non sempre esplicito e consapevole, della cultura popolare.
L’annuncio del Vangelo si trova di fronte ad un muro di pregiudizi ed alla convinzione che la ragione, la storia e la scienza hanno dimostrato che la fede non ha nessun fondamento razionale. Non è un caso che un noto pubblicista abbia potuto rimpiangere dalle colonne di un diffusissimo rotocalco italiano la fine del comunismo, perché il marxismo dava un grande contributo alla disintegrazione delle religioni ed in particolare del cristianesimo.
Il quarto elemento di cui dobbiamo tener conto, di fronte al compito della rievangelizzazione, è il fatto della nostra divisione tra cristiani. E certo che essa rappresenta, assieme alla debolezza della nostra fede individuale e comunitaria ed al nostro pensiero cristiano debole, uno degli ostacoli intrinseci più gravi per l’annuncio del Vangelo al mondo. Esso si aggiunge agli ostacoli culturali estrinseci, che si frappongono all’ascolto, da parte del mondo, del messaggio portato dalle nostre Chiese.
La ricerca dell’unità è perciò, assieme alla ricerca dell’essenza dell’identità cristiana di ognuno di noi, personalmente e comunitariamente, uno degli obblighi fondamentali derivanti dalla nostra fede in Gesù Cristo.
La premessa di questa ricerca ci è data dal brano della lettera di S. Paolo agli Efesini, che abbiamo appena ascoltato. Cristo ci ha già costituiti nell’unità, indipendentemente dalla nostra volontà, «per mezzo della sua morte in croce ci ha uniti in un solo corpo sulla croce; sacrificando se stesso egli ha distrutto ciò che separava gli uomini. Ha fatto diventare un unico popolo i pagani e gli Ebrei, ha demolito il muro che separava gli uomini costituendoci nell’unità». (cfr. 2,13-15)
L’unità ci è già stata data ed è già presente alla radice di noi stessi, con il battesimo. L’unità è un dono che ci è già stato dato. Non possiamo pensarla come se fosse l’esito del nostro sforzo umano. Dobbiamo solo cercare di scoprirla e riconoscerla, domandando l’aiuto, la forza, la perseveranza, oltre che la luce dello Spirito Santo.
Questa unità, preesistente nel mistero dell’unica Chiesa di Cristo e offertaci come dono da Lui stesso, non possiamo scoprirla e riconoscerla, tuttavia, senza la nostra cooperazione. Ognuno deve cercare di scoprirla a livello delle proprie possibilità.
Credo si possano distinguere tre livelli di questa ricerca: quello del dialogo teologico, quello dell’approccio psicologico ed affettivo nella carità, e quello della preghiera.
In questi ultimi cinquant’anni i progressi del dialogo teologico sono stati enormi. Temi fortemente controversi, come il battesimo, la giustificazione, il ministero e l’euca-ristia, hanno registrato, come per esempio nel “Documento di Lima”, convergenze significative. Con le Chiese ortodosse i cattolici possono addirittura affermare una comune comprensione sacramentale della Chiesa.
Il frutto positivo di questo dialogo non è stato solo quello delle convergenze, ma anche quello di riuscire ad enucleare con più chiarezza le differenze ancora esistenti ed a circoscriverle. Tra queste, non possiamo sottacere alcune questioni etiche. Quest’ulteriore chiarezza ci permette di avanzare, con più determinazione, verso il cuore stesso delle nostre divisioni.
Il secondo livello è quello dell’approccio psicologico. Benché sia innegabile che la divisione tra le confessioni sia di natura prevalentemente teologica, è evidente che gli aspetti psicologici e le realtà sociopolitiche hanno esercitato e continuano ad esercitare un influsso negativo sulla possibilità di avvicinamento reciproco.
Molte esperienze storiche conflittuali, provocate dalla estraneità vicendevole, dalla ignoranza e dai pregiudizi, da circostanze culturali e locali, restano un’eredità pesante, come lo hanno dimostrato le recenti incomprensioni avvenute tra le Chiese nell’Europa dell’Est. L’unità dobbiamo perciò favorirla anche a questo livello: quello della conoscenza reciproca, della visitazione gli uni degli altri, dell’ospitalità, della pratica in comune della carità verso i più deboli, dell’aiuto vicendevole nel bisogno e nella collaborazione per risolvere i grandi problemi del mondo, della pace, della giustizia e della salvaguardia del creato.
Il terzo e ultimo livello del nostro impegno e lavoro ecumenico è quello che è stato definito “ecumenismo spirituale”, le cui sfaccettature sono molteplici: la conversio-ne del cuore, la santità di vita, il rinnovamento interiore, la purificazione dai nostri peccati, la preghiera personale e comune.
Questo livello è l’anima di tutto il movimento ecumenico e la vera forza dinamica, soprattutto nei momenti nei quali si può avere l’impressione che in certi settori e circostanze sia subentrata la stasi.
L’unità, infatti, è un dono di Dio come la santità. L’una e l’altra devono essere implorate nella preghiera. È quanto stiamo compiendo oggi, nella consapevolezza che nella nostra situazione concreta, assieme al secondo livello del nostro impegno, quello della pratica della carità vicendevole, la preghiera, cioè l’“ecumenismo spirituale”, sono probabilmente il livello nel quale, in modo realistico, possiamo dare il nostro contributo migliore alla causa dell’unità.
Pretendere di poter eliminare questo impegno e questo lavoro, che pone, comunque, le basi per eliminare almeno una parte dello scandalo della nostra disunione di fronte alla società in cui viviamo, affermando la possibilità di appartenere contemporaneamente a più confessioni cristiane, equivarrebbe a rispolverare il mito del dio Giano, di romana memoria, il quale, pur avendo un solo capo, era bifronte: aveva la pretesa di poter guardare contemporaneamente davanti e dietro se stesso. Nella sua irrequieta doppiezza è diventato il simbolo della falsità. Oggi non basterebbe diventare quadrifronti, tante sono le confessioni diverse.
Una delle prerogative dell’uomo moderno è quella della verità.
Magari in termini esasperati e confondendo spesso la verità con l’arbitrio di qualsiasi espressione, l’uomo moderno non tollererebbe che le Chiese, le Comunità ecclesiali e i cristiani, si presentassero come annunciatori della verità del Vangelo e con la pretesa di rievangelizzare e di proporre l’unità, camuffando le proprie divisioni. Sono convinto che sarebbe un ostacolo in più, rispetto a quelli enunciati; questa volta di natura estrinseca e intrinseca allo stesso tempo, per una nuova evangelizzazione dell’Europa.