Omelia nella Mess a crismale 1987
Permettetemi, cari fratelli, di esporvi qualche considerazione sul sacerdozio in questo Giovedì Santo, che per la prima volta celebriamo assieme “il Giovedì Santo”, scrive il Papa nella sua lettera ai sacerdoti, pubblicata ieri, «è il giorno natale del nostro sacerdozio ed è, perciò, anche la nostra festa annuale».
Il nostro sacerdozio consiste in una partecipazione particolare al sacerdozio di Cristo. Non si tratta di una partecipazione estrinseca, puramente funzionale, in ordine all’assunzione di un ruolo, bensì di una partecipazione di natura ontologica.
Quando San Paolo faceva la constatazione che «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal. 2, 20) non intendeva dire solo che si sentiva di vivere totalmente determinato a livello psicologico dal suo incontro con Cristo, ma che aveva la consapevolezza, in quanto era investito del ministero apostolico, di possedere nella sua natura umana un’aderenza ontologica alla persona di Cristo. L’espressione più esauriente di questa aderenza, che si declina anche come partecipazione all’ufficio magisteri aie e profetico di Cristo, è, secondo la Lettera agli Ebrei, l’ufficio sacerdotale. Possediamo una dipendenza di natura ontologica e una partecipazione nel nostro essere all’essere di Cristo, sommo ed eterno sacerdote. È Cristo che vive in noi attraverso il sacramento dell’ordine.
Per riuscire a capire in cosa consiste il nostro sacerdozio, rispetto a quello che abbiamo in comune con tutti gli altri fedeli, dobbiamo risalire al sacerdozio di Cristo. Non possiamo rimanere alla superficie del problema, limitandoci alle affermazioni teologiche più correnti, perché ci fermeremmo a metà della comprensione.
L’affermazione secondo cui il nostro sacerdozio ministeriale si traduce nella funzione specifica di rappresentare Cristo in quanto Capo del Corpo Mistico, è vera, ma, poiché è difficile precisare in che modo i laici rappresentano Cristo, pur ‘non rappresentandolo come Capo del Corpo Mistico, non permette in se stessa di andare a fondo della comprensione di quello che siamo noi in quanto presbiteri.
Anche la constatazione che il sacerdozio ministeriale è conferito dall’ordine sacro, mentre quello comune dal semplice battesimo, non è sufficiente per chiarire la differenza; rimane infatti da spiegare la ragione in forza della quale l’ordine e il battesimo sono due sacramenti diversi.
Infatti, né l’ordinazione sacerdotale è uno sviluppo del battesimo, né il battesimo è una derivazione dell’ordine sacro. Sono due fonti autonome e dirette di partecipazione al sacerdozio di Cristo, anche se l’ordine presuppone il battesimo.
Dobbiamo perciò risalire alla causa ultima, alla natura stessa dell’unico sacerdozio di Cristo, per capire dove sta la di fferenza tra il sacerdozio comune e quello ministeriale.
In effetti, nel sacerdozio di Cristo possono essere distinti due aspetti (formali) diversi, che dalla teologia sono stati convenzionalmente definiti come aspetti soggettivo e oggettivo.
“Nell’essenza della sua struttura personale Cristo è colui che si dona nell’amore. e offre se stesso, totalmente e fin dall’eternità, al Padre, che lo genera. Accanto a questo aspetto soggettivo, originario e primario, di autodonazione spontanea del Verbo al Padre nell’amore, o di offerta spontanea di se stesso in sacrificio di amore al Padre che lo genera, esiste un secondo aspetto, che ha una connotazione più oggettiva.
Cristo è colui che dà tutto se stesso, in obbedienza al P a d re, senza tener nulla per sé, come ci rivela il Nuovo Testamento nel suo linguaggio analogico. Può rinunciare, infatti, come dice la Lettera ai Filippesi (2, 6-11), al privilegio della divinità perché può depositarla presso il Padre al momento di diventare uomo; può rinunciare alla sua natura umana, perché può perderla con la morte sulla croce.
Per amore del Padre, Cristo può rinunciare perfino, come sulla croce, alla certezza di essere da Lui assistito nel momento della morte: «Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mt 27, 46).
Questa rinuncia, o perdita totale, si realizza anche, nella misteriosa discesa negli inferi. In essa Cristo tocca, infatti, l’abisso dell’abbandono assoluto, pur di testimoniare tutto il suo amore per il Padre.
Questo aspetto oggettivo di obbedienza non è additivo. Non è aggiunto in Cristo dall’esterno e in modo acciden-tale ma, assieme al primo aspetto (quello dell’auto-donazione di se stesso), costituisce l’essenza stessa dell’unità della persona di Cristo. Questa obbedienza del Figlio sulla croce all’autorità del Padre è stata peraltro prefigurata dall’autorità sacrificale di Abramo su Isacco. Compiendo il gesto estremo della morte sulla croce per obbedire al Padre, Cristo ha voluto inequivocabilmente affermare davanti al mondo intero l’autorità suprema e assoluta del Padre.
In questi aspetti (formali) diversi del sacerdozio di Cristo, coesistenti nell’unità perfetta della Sua persona, hanno origine i due sacerdozi diversi e complementari del Nuovo Testamento: quello comune di tutti i fedeli e quello ministeriale dei presbiteri.
Al momento del passaggio dal sacerdozio di Cristo a quello della Chiesa, questi due elementi, pur rimanendo strettamente complementari e non estrinseci, si separano.
Nel sacerdozio comune conferito con il battesimo, il cristiano partecipa alla prima forma del sacerdozio di Cristo: quello soggettivo della donazione di se stesso nell’amore. In effetti il sacerdozio comune dei fedeli, secondo i capitoli 34-36 della Lumen gentium (LG) (dove si parla della partecipazione dei laici ai tre uffici di Cristo), si esprime, non nel predicare con autorità la Parola, bensì nel dare testimonianza al mondo con la fede (n.35); nel partecipare (senza presiedere) al sacrificio spirituale di Cristo con la preghiera, le opere, le iniziative missionarie, la vita coniugale e il lavoro giornaliero (34); da ultimo, nel partecipare alla vita della Chiesa, non attraverso il potere sacro, ma compiendo in santità le loro opere ecclesiali e secolari (36).
II sacerdozio ministeriale per contro, sempre secondo il Vaticano II (LG 25-27) consiste nel predicare con autorità la Parola (25); nel presiedere l’eucaristia (26); nel governare la Chiesa con la sacra potestas (27). In esso si realizza la seconda forma del sacerdozio di Cristo, quella oggettiva.
Conferendo la propria autorità alla Chiesa, Cristo dà la possibilità ai fedeli di vivere compiutamente la dimensione (formale) soggettiva del loro amore al Padre, nell’obbedienza oggettiva al sacerdozio ministeriale, di cui la pienezza si realizza nei Vescovi con il Papa. Nel sacramento dell’ordine Cristo conferisce al ministro l’autorità che il Padre ha su di lui.
Affinché il cristiano, che nel battesimo partecipa ontologicamente all’amore stesso di Cristo per il Padre, possa realizzare questa sua obbedienza sacerdotale secondo tutta la radicalità postulata dall’amore, ha bisogno, all’occasione, di un’autorità oggettiva e legittimata a provocarlo in modo imprescindibile. Così, come il Padre ha provocato il Figlio all’obbedienza, fino alla morte della croce.
La totalità della donazione soggettiva del cristiano al Padre nell’amore, per essere garantita nella sua autenticità, ha bisogno dell’autorità oggettiva che lo può richiamare all’obbedienza: obbedienza alla Parola predicata con autorità; obbedienza alla presidenza della celebrazione dell’eucaristia; obbedienza al potere pastorale che si esprime nella sacra potestas.
Questa autorità ha una funzione non di dominio, ma di servizio: quello, appunto, di rappresentare Cristo come Capo, in funzione dell’unità della Chiesa.
L’unità in Cristo dei due elementi del suo sacerdozio, quello soggettivo e quello oggettivo, trova un riscontro analogico nel fatto che il sacerdozio comune dei fedeli continua a sussistere nel ministro ordinato. Il battesimo infatti non è eliminato dall’ordine e sussiste nel ministero ordinato.
Questa continuazione del sacerdozio comune anche nel sacerdozio ministeriale ha come scopo di impedire che il ministro ordinato possa credersi dispensato dal realizzare nella sua persona l’esigenza della donazione di se stesso nell’amore al Padre, sull’esempio di Cristo, che la realizza fin dall’eternità.
Anche noi presbiteri, come tutti i fedeli, dobbiamo realizzare in noi stessi l’aspetto del sacerdozio comune, che nella sua sostanza consiste nell’oblazione e nel dono della nostra persona a Cristo.
Se dovessimo rinunciare a questa ascesi personale, di donazione a Cristo, creeremmo in noi una profonda spaccatura. La nostra persona sarebbe divisa in se stessa e il nostro sacerdozio ministeriale si trasformerebbe in dominio sugli altri.
Dell’ascesi, in quanto espressione della nostra donazione a Dio nell’amore; cioè del sacerdozio comune immanente al nostro sacerdozio ministeriale, la preghiera è l’espressione più totale e totalizzante. Infatti, la preghiera è la dimensione di fondo della nostra vita ed è nella preghiera che tutti i fattori della nostra vita vengono a galla e si decidono.
È per quello, cari Confratelli, che voglio ritornare alla lettera inviata dal Santo Padre a tutti noi preti in questo Giovedì Santo. È una lettera sulla preghiera del sacerdote, che, mi auguro, sapremo tutti leggere e fare oggetto di riflessione.
Non dobbiamo considerare la nostra preghiera semplicemente come una semplice pratica di pietà e, tanto meno, come un dovere da compiere. E in ultima analisi una necessità strutturale. Se non la praticassimo, la nostra partecipazione totale al sacerdozio di Cristo, attraverso il sacerdozio comune e quello ministeriale, cesserebbe di essere vera. Vivremmo il sacerdozio ministeriale avulso da quello comune, creando una grave spaccatura nel nostro essere e nella nostra identità di preti.
La preghiera del Getzemani, quella che si inserisce tra l’ultima cena e la morte in croce, scrive il Papa nella sua lettera di ieri, rappresenta il momento più decisivo della vita di Gesù. I Vangeli ricordano più volte che Gesù ‘pregava, che, anzi, «passava le notti in orazione» (Lc 6, 12), ma nessuna di queste orazioni è stata presentata nei Vangeli in modo così profondo e penetrante come quella del Getzemani. Nessun’altra preghiera rientrava così appieno in quella che doveva essere la «sua ora», cioè il suo destino sacerdotale o vocazione di obbedienza al Padre.
Questa preghiera così intensa e drammatica, in cui Cristo trasuda sangue, segna il passaggio dall’istituzione dell’Eucaristia alla Croce, che è l’atto di obbedienza radicale di Cristo al Padre. Atto che realizza il suo sacerdozio oggettivo, quello cui partecipiamo con il nostro sacerdozio ministeriale.
Difatti, se il Figlio era sacerdote fin dall’inizio della sua esistenza, cioè fin dall’eternità, divenne tuttavia – come scrive il Papa – in modo pieno, l’unico sacerdote della nuova Alleanza, mediante il sacrificio redentivo, che ebbe inizio nel Getzemani e si consumò sulla Croce. Questo inizio è segnato dalla grande preghiera nel giardino degli ulivi.
In Cristo, il compimento del passaggio dal sacerdozio soggettivo al quale tutti i fedeli indistintamente partecipano ontologicamente in forza del sacerdozio comune conferito loro dal battesimo – al sacerdozio oggettivo, avviene con l’interposizione della preghiera del Getzemani.
Questa preghiera «è come una pietra angolare posta da Cristo alla base del servizio alla causa affidatagli dal Padre»; è alla base della redenzione del mondo attraverso la Croce.
«Partecipi del sacerdozio (oggettivo) di Cristo, che è imprescindibilmente connesso con il suo sacrificio, anche noi sacerdoti e presbiteri dobbiamo porre alla base della nostra esistenza sacerdotale la pietra angolare della preghiera ». «Essa» – continua la lettera del Papa – «ci permette di sintonizzare la nostra esistenza»: quella di uomini battezzati, chiamati ad offrire se stessi a Dio in forza del sacerdozio comune, che determina in modo primario la nostra posizione di fedeli, con il «servizio sacerdotale» ministeriale.
Solo se conserviamo intatta in noi stessi «l’identità e l’autenticità» della vocazione al sacerdozio comune, saremo in grado di vivere in modo autentico il nostro sacerdozio ministeriale, che non ci è dato primariamente per la nostra santificazione, ma per la salvezza degli altri: «pro hominibus constituti».
Questa solidarietà nei confronti degli altri fedeli battezzati, affidati al nostro ministero pastorale, non la dobbiamo vivere solo in modo estrinseco, pur prodigando ci per loro nel nostro servizio. È una solidarietà che corre costantemente il rischio di svilirsi a un semplice livello di generosità umana.
La nostra solidarietà con tutti i fedeli deve pescare più in profondità, vivendo cioè assieme ad essi il sacerdozio comune; vivendo con gli altri e anche più degli altri il sacerdozio comune, di cui la preghiera è l’espressione più significativa e riassuntiva. Essa include, infatti, sia la coscienza del nostro essere uomini, creati come tutti gli uomini ad immagine e somiglianza di Dio; sia di essere, come tutti i credenti, configurati a Cristo attraverso il battesimo e il sacerdozio comune; sia di essere, come uomini e credenti, sacerdoti ordinati, ministri di Cristo.
La preghiera è la fonte esistenziale dell’unità, nella nostra persona, tra il sacerdozio comune e quello ministeriale. È la radice dell’unità realmente vissuta dalla nostra stessa persona.
Cari fratelli nel sacerdozio, solo attraverso la testimonianza del fatto che nella nostra persona si realizza l’unità delle due dimensioni del sacerdozio di Cristo possiamo diventare segno della presenza di Cristo nel mondo, di quel Cristo il cui sacerdozio è uno e unico.
Per essere questo segno di unità per tutti i fedeli, la cui salvezza è legata alla realizzazione dell’unità in loro tra il fatto di essere uomini e quello di essere cristiani, partecipi, attraverso il sacerdozio comune, dell’amore eterno di Cristo per il Padre, abbiamo bisogno, come ci raccomanda oggi il Papa, di una preghiera «profonda ed organica».
Organica, nella misura in cui non la viviamo come una sovrapposizione al nostro essere ministri ordinati, ma la viviamo come esigenza strutturale insopprimibile: l’esigenza di essere in unità sia con tutti gli uomini, creati a immagine e somiglianza di Dio, sia con tutti i cristiani che, attraverso il sacerdozio comune, partecipano anch’essi all’unico sacerdozio regale di Cristo, di cui la pienezza ci è conferita ontologicamente con il sacerdozio ministeriale.