Omelia nella Messa crismale 1992
Il nostro radunarci questa mattina per la celebrazione della Messa Crismale è segnato da un’urgenza epocale: quella della “nuova evangelizzazione”.
Poco più di un anno fà, Giovanni Paolo II, pubblicò la sua lettera enciclica sulla missione: laRedemptoris missio (RM).
In essa, tra l’altro, si legge: «Quanto fu fatto all’inizio del cristianesimo per la missione universale conserva la sua validità ed urgenza anche oggi.
La Chiesa è missionaria per sua natura, poiché il mandato di Cristo non è qualcosa di contingente e di esteriore, ma raggiunge il cuore stesso della Chiesa. Ne deriva che tutta la Chiesa è inviata alle genti….Come il Signore risorto conferì al collegio apostolico,con a capo Pietro,il mandato della missione universale, così questa responsabilità incombe innanzitutto sul collegio dei vescovi con a capo il successore di Pietro» (62-63).
Con i vescovi sono implicati sacramentalmente,per la loro partecipazione all’ordine episcopale stesso,sacerdoti del presbiterio.
Abbiamo ricevuto perciò questo mandato in comune. Anzi è un mandato che, attraverso la responsabilità del ministro ordinato, è affidato a tutta la comunità dei cristiani.
Sabato scorso, al Cammino della Speranza, ho detto alle centinaia di giovani, che il Signore, prima di dare alla Chiesa il suo mandato di andare a predicare il Vangelo a tutte le nazioni, ha radunato sul Monte degli Ulivi tutti i discepoli; voleva che tutti prendessero coscienza di essere stati interpellati assieme. Non li ha sollecitati separatamente, ma ha voluto che tutti si sentissero coinvolti in questa responsabilità comune.
Non vedo perché quello che possiamo dire ai giovani, colti, così, nella loro globalità verso un orizzonte che apre loro un fascino e una prospettiva cristiana della vita, non dobbiamo dircelo anche tra di noi. Se siamo riuniti quest’oggi è per diventare meglio consapevoli che siamo implicati, in forza dell’identità e uguaglianza sacramentale della nostra stessa persona, in un mandato comune: quello della nuova evangelizzazione. Non possiamo dire agli altri se non quelle cose di cui abbiamo totale consapevolezza e convinzione per noi stessi. E’ una questione di verità, ma solo oggettiva, bensì della nostra stessa persona.
La natura della Chiesa, la sua ragione di essere e di operare è l’annuncio del Vangelo. Di conseguenza la nostra ragione di esistere,di lavorare,di muoverei,la ragione della nostra passione per l’uomo, per le persone che incontriamo, per la giustizia e per la verità,è la missione. La missione è il nostro esser stati scelti, eletti, fatti parte-cipi di quella stessa missione, che il Padre ha affidato al Figlio nel mondo e che Gesù Cristo,centro del cosmo e della storia e redentore dell’uomo, ha affidato alla comunità dei suoi discepoli.
Siamo costituiti dalla missione che abbiamo ricevuto: quella di partecipare alla missione o mandato affidato dal Padre al Figlio, nello Spirito Santo.
Come ho già avuto modo di ricordare nell’omelia della notte di Natale, il momento storico che stiamo vi vendo ci provoca ad annunciare nuovamente, con forza e chiarezza, l’assoluta unicità di Gesù Cristo quale Salvatore di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.
E’ difficile rimanere fermi su questo, punto anche per noi, immersi in una società la cui cultura sembra tanto più umanizzante e capace di liberare l’uomo, quanto più riesce a convincere della relatività dei valori. Ma il Logos trascende le leggi della relatività cosmica scoperta dalla scienza moderna: è l’unico Figlio di Dio. Non dobbiamo confondere le nostre eventuali presunzioni personali con le certezze interiori, che la fede domanda alla nostra persona. Cristiani e missionari, se non credessimo all’unicità della salvezza di tutti in Cristo, anche se non sapessimo formularne di volta in volta le ragioni profonde, rimarremmo privi di prospettiva nel nostro agire: paragonabili all’uomo che non ha più il bastone per appoggiare la sua persona; saremmo “in baculum” o “in bacillum” cioè senza bastone e soffriremmo, etimologicamente parlando, di una imbecillità interiore che ci offuscherebbe nella nostra identità, cesseremo di essere utili al mondo, in ordine al mandato di evangelizzare la società. Cosa avremmo di fondamentalmente altro da dire agli uomini e alle persone che incontriamo?
Che cosa significa questo per noi presbiteri; quale s a rebbe il nostro apporto originale ed insostituibile all’opera della nuova evangelizzazione? La risposta a questa domanda è possibile solo alla luce dello scopo stesso dell’evangelizzazione.
«Tutto il senso missionario del Vangelo di Giovanni, scrive ancora la Redemptoris missio, si trova espresso nella ‘preghiera sacerdotale’: la vita eterna è che ‘conoscano te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17, 3). Scopo ultimo della missione è di far partecipare gli altri della comunione che esiste fra il Padre e il Figlio: i discepoli devono vivere l’unità tra loro,rimanendo nel Padre e nel Figlio, perché il mondo conosca e creda (cf. Gv 17,21-23). Questo testo fa capire che si è missionari prima di tutto per ciò che siamo realmente, dentro di noi, e in quanto comunità di apostoli, prima di essere ciò che diciamo di essere o di fare» (RM 23).
Evangelizzare significa dunque dare la propria vita per fare conoscere al mondo l’unico vero Dio e colui che ha mandato Gesù Cristo (Gv 17, 3).
Permettetemi, cari fratelli, di riferirvi un’esperienza che ho appena fatto, in un momento in cui ho provato una particolare lucidità sul senso della vita.
Dieci giorni fa, man mano che le indagini mediche procedevano nel corso di tutto un pomeriggio, per identificare la natura dell’intervento operatorio, e sentivo che il transito da uno strumento all’altro, da reparto a reparto, stringeva lo spazio attorno alla mia persona, dentro una spirale sempre più stretta fino a provare un senso preciso della finitudine, mi sono trovato solo con me stesso.
In quel momento il medico non avrebbe potuto offrirmi altro che un thé: era tutto quello che poteva ancora fare per aiutarmi. L’uomo, cui rimane un thé da bere come ultimo riferimento esterno. Un cristiano ridotto ad un semplice punto, quello della sua persona e della sua coscienza, non può non pensare in quel momento che l’unica cosa vera della sua vita è quella di aver conosciuto l’unico vero Dio e Colui che ha mandato Gesù Cristo nello Spirito Santo.
Come potremmo presentarci al Signore, nell’ipotesi della fine della vita terrena, senza averlo realmente riconosciuto e incontrato prima, come Padre, Figlio e Spirito Santo. Presentarsi a Dio senza averlo conosciuto realmente, così come si è rivelato alla nostra persona e al mondo, equivarrebbe aver sbagliato tutto. La missione ha questo mandato: quello di far conoscere a tutti l’esistenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Per questo la vita del presbitero non può avere altro scopo che quello proclamato dal Vangelo di Luca che abbiamo appena ascoltato: dire agli uomini che la promessa del Padre si è adempiuta, che Gesù Cristo è presente qui, oggi nella vita della sua Chiesa, con lo Spirito Santo, liberazione per l’uomo prigioniero del peccato e della morte.
Annunciare, con fermezza e letizia, che non c’è altro da attendere perché «in lui soltanto siamo liberati da ogni alienazione e smarrimento, dalla schiavitù al potere del peccato e della morte» (RM11).
La nostra vita deve essere consumata in questo compito: l’edificazione della Chiesa; cioè di quella comunità di fedeli che conosce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e aderisce a loro nell’interiorità delle persone e nella preghiera.
Ogni nostra energia, ogni fibra del nostro essere è chiamata a questo supremo sacrificio, vissuta nell’operosità quotidiana, nella celebrazione dei sacramenti, nell’annuncio della Parola di Dio, nelle molteplici forme in cui la carità pastorale è chiamata ad esprimersi, nell’ incontro con le persone, che deve avere la priorità su ogni altra preoccupazione di efficienza pastorale. Non possiamo dimenticarci delle parole semplici ed efficaci del profeta Isaia:«Portare il lieto annunzio ai poveri,fasciare le piaghe dei cuori spezzati… consolare gli afflitti, dare loro olio di letizia invece dell’abito di lutto, canto di lode invece di un cuore mesto». (cfr. Is 61,1-3)Tutti gli uomini e tutto l’uomo attendono questa consolazione, attendono di incontrarla nella compagnia concreta delle nostre comunità cristiane, da noi guidati sulla via della nuova evangelizzazione, cioè sulla via dell’annuncio chiaro, lieto e forte della novità assoluta che è Gesù Cristo morto, risorto e presente nell’uniti di coloro che egli ha scelto e consacrato mediante il battesimo.
Non c’è vita vera se non nel sacrificio e questo è il nostro sacrificio: spendere la vita per l’opera di un Altro, cioè Gesù Cristo, come Egli ha dato la vita per l’opera del Padre: «Mio cibo è fare la volontà del Padre».
Per questo siamo stati unti, consacrati, fatti prigionieri del Vangelo, posseduti dallo Spirito Santo: perché la nostra esistenza non abbia altra ragione, altro scopo, altra passione che la ragione, lo scopo e la passione che hanno dominato la vita di Gesù. Siamo qui oggi per fare memoria della nostra identità: uomini chiamati a vivere «in piena docilità allo Spirito, … a lasciarsi plasmare interiormente da lui, per divenire sempre più conformi a Cristo.
Non si può testimoniare Cristo, scrive ancora il Papa nella Redemptoris missio (87), senza riflettere la sua immagine la quale è resa viva in noi dalla grazia e dall’opera dello Spirito santo».
È con questo augurio che mi avvio con voi, cari Confratelli, a celebrare il triduo pasquale. Colgo comunque l’occasione per ringraziarvi della sollecitudine con la quale avete guardato al mio breve scompenso di salute, per altro non grave e drammatico, ma per grazia del signore occasione di una riflessione personale più profonda del solito, che sono lieto di avervi comunicato.