Omelia per la Pasqua 1990
Carissimi fratelli e sorelle nel Signore
Il nemico più insidioso della nostra vita, della nostra esistenza e della nostra persona è la morte. In ognuno di noi, infatti, esiste l’angoscia segreta della morte, l’evento al quale ognuno di noi pensa, anche quando cerca di fugarne la memoria vivendo nella dimenticanza, o censurandolo dal proprio mondo interiore.
La società moderna sta compiendo uno sforzo immane per allontanare il pensiero della morte. Cerca di ammantarlo di fiori, di discorsi, di cimiteri lontani dalle zone urbane, di far scomparire i carri funebri dalle città, di relegare il fatto della morte nella sfera privata, sottraendolo agli occhi dell’attenzione pubblica. Imbalsamiamo i morti, come avviene oltre oceano. Non lo facciamo però con la stessa intenzione dei popoli antichi, per venerare e conservare il più a lungo possibile la memoria del defunto, ma per dare alle spoglie mortali un’apparenza simile a quella delle persone viventi e creare l’ingenua illusione del protrarsi della loro presenza in mezzo a familiari e amici.
I mass-media, per contro, abbondano nel trasmettere immagini di cadaveri e di morte, ma anch’essi non per creare negli utenti la coscienza della Provvisorietà della vita, bensì per denunciare, spesso con manipolazioni ideologiche e politiche, l’ingiustizia e la violenza.
La morte è il vero nemico dell’uomo, perché fonte di disgregazione; è ciò che si frappone tra l’uomo e il suo compimento.
L’annuncio della Pasqua è che Cristo ha vinto la morte. La liturgia di questi santi giorni ci fa cantare: «O mors, ubi est victoria tua?». O morte, dove è la tua vittoria?
L’intera umanità può, così, guardare con fiducia al primo ed unico uomo che ha vinto la morte. Questo fatto, e solo questo, è capace di generare nell’uomo una speranza nuova, la speranza vera. La vittoria di Cristo sta nella sua risurrezione.
Nulla di più grande può essere annunciato all’umanità della risurrezione di Cristo. La buona notizia, contenuta nei Vangeli, la novità per eccellenza, è che il fatto capace di rendere definitiva la nostra esistenza, sottraendola alla legge della dissoluzione nel nulla, è già accaduto. «Tutto è compiuto» (Gv. 19,30), ha gridato Cristo dalla croce, aggrappandosi, nell’intimo segreto della sua coscienza, alla certezza che il Padre lo avrebbe risorto, strappandolo dal vuoto profondo degli inferi in cui stava per inabissarsi.
Ma oggi, come può l’uomo credere ancora alla risurrezione di Cristo e alla propria risurrezione personale?
Esiste un riscontro preciso tra la risurrezione di Cristo e il desiderio insopprimibile dell’uomo di sopravvivere a se stesso, anche dopo la morte corporale. Se l’umanità si è sempre posta la domanda della sopravvivenza dopo la morte, è perché la coscienza psicologica, che l’uomo ha di se stesso, è quella di possedere un «io» insopprimibile.
Certo, possiamo teorizzare ideologicamente la nostra fine nel nulla, ma anche quando l’uomo accede a questa credenza, nell’incapacità di sottrarsi con le proprie forze alla forza di molti argomenti, esso resiste tenacemente alla tentazione di accettarla nell’interiorità della sua autocoscienza.
Ogni persona prova in se stessa la percezione della impossibilità psicologica e fisica dello spegnersi nel nulla del proprio «io». Nella sua facoltà immaginativa, infatti, l’uomo proietta la propria sopravvivenza oltre i confini della morte, vivendola come un fatto che scaturisce dalla sostanza stessa del suo essere.
Il culto universale dei morti e la persistente immaginazione della possibilità di un ritorno alla vita nella metempsicosi, attraverso la reincarnazione dell’anima in altri esseri umani o animali, tipiche delle religioni panteiste orientali, sono il sintomo inconfondibile della convinzione di continuità della propria persona oltre l’evento della morte corporale.
Non sono mancati grandi pensatori che, dal profilo filosofico, hanno aff e rmato l’immortalità dell’anima. Anche il dualismo tra anima e corpo, soggiacente al pensiero filosofico e a quasi tutte le religioni, fornisce il presupposto dottrinale, per dimostrare la possibilità di una sopravvivenza dell’uomo dopo la morte.
Il cristianesimo, tuttavia, non afferma solo l’immortalità dell’anima, ma anche la risurrezione del corpo. Nella risurrezione di Cristo vede, infatti, il paradigma e il pegno sicuro della risurrezione di ogni uomo, nella totalità degli elementi costitutivi della sua persona.
Nel Credo la Chiesa afferma la risurrezione dai morti in termini di risurrezione della carne: «credo nella risurrezione della carne».
La fede cristiana nella risurrezione offre perciò una risposta plausibile e sicura all’esigenza più profonda inscritta nella persona umana: quella della sua sopravvivenza dopo la morte.
A differenza della dottrina filosofica dell’immortalità dell’anima, la fede nella risurrezione implica il ricongiungimento del corpo con la persona, per la ricomposizione totale dell’identità del nostro «io». Immortale è la persona umana.
Non si tratta, certo, di pensare ad un ricostituirsi delle funzioni biologighe del corpo, ma solo al fatto che la persona, in quanto tale, e non solo in quanto anima, ritrova nella risurrezione il suo compimento corporale.
Questo mistero ci fa comprendere l’impronta della corporeità. La persona umana non sopravvive alla vita terrena solo come spirito, quasi che lo spirito godesse di una dignità e di un valore superiori al corpo, ma sopravvive come tale, ricomponendosi anche nella totalità della sua natura e delle sue possibilità espressive.
È questo il senso dato dalla fede cristiana all’affermazione che, con la Sua risurrezione, Cristo ha vinto la morte. Ha vinto quel processo disgregativo della persona, provocato dalla morte corporale; ha vinto quell’evento che si pone come il più insidioso nemico dell’uomo.
Se ciò è vero, vuol dire che l’esperienza umana vale la pena di essere vissuta, perché, con la Sua risurrezione, Cri- sto ha conferito una nuova prospettiva all’esistenza stessa terrena dell’uomo. Un’umanità che non deve più attendersi di estinguersi nel proprio fallimento, perché sorretta da una speranza indistruttibile: quella della nostra continuità totale, nella risurrezione.
Il senso della vita umana, perciò, cambia, poiché riscopre nella persona di Cristo il suo modello originale e la ragione della sua esperienza terrena.
L’uomo, infatti, già nella creazione, ha ricevuto e riceve la vita, attraverso la mediazione di Cristo, immagine del Padre. Sia San Giovanni, nel prologo del suo Vangelo (1,3), che San Paolo, nelle lettere agli Efesini (1,4) e ai Colossesi (1,16), affermano che tutto è stato creato per mezzo di Cristo, e che in Lui l’uomo è stato scelto dal Padre prima della creazione stessa del mondo. In Cristo non siamo stati solo creati, ma anche redenti nella sua risurrezione.
Anzi in Cristo siamo già risorti fin d’ora, poiché la fede nella risurrezione conferisce una prospettiva eterna alla nostra vita terrena. Nella risurrezione di Cristo, infatti, cambia la finalità stessa della vita umana. Non è più solo un fatto spirituale e biologico destinato a perire , ma a sopravvivere nella totalità del suo «io» e della sua persona.
In questa prospettiva, la responsabilità dell’uomo di fronte a se stesso e alla storia risulta perciò enormemente potenziata. Non ha scritto l’autore della lettera agli E b rei riprendendo il Salmo 8, che Dio ha creato l’uomo «di poco inferiore agli angeli»? (2,7)
Se questo è vero, significa che tutti dobbiamo riconos cere, in Cristo, il vero, autentico modello e criterio di esistenza. Ogni aspetto della nostra vita deve essere ricondotto a Lui. Il compito principale della vita diventa, perciò, quello di ristabilire l’unità interiore della nostra persona, attorno a Cristo morto per noi e per noi risorto.
Cari fratelli e sorelle nel Signore, la Chiesa è il luogo dove questo annuncio è fatto e dove l’uomo è aiutato a vivere nella prospettiva della risurrezione. È una prospettiva che deve cambiare i nostri giudizi, il nostro modo di vivere, il nostro modo di possedere le cose, il nostro modo di entrare in rapporto con gli altri, il nostro modo di unirci in matrimonio e di educare i figli, il nostro modo di guardare al mondo, il nostro modo di pensare. Questa novità cambia la nostra cultura.
Celebrare la risurrezione di Cristo implica aprirci a questa Sua presenza folgorante al punto da permetterle di trasfigurare ogni particolare della nostra esistenza.
San Paolo ci off re un saggio di queste conseguenze quando, avendo davanti agli occhi la prospettiva drammatica della parusia e della risurrezione, afferma: «fratelli, questo vi dico, il tempo ha avuto una svolta, d’ora innanzi quelli che hanno moglie siano come se non l’avessero; quelli che piangono come non piangessero; quelli che si rallegrano come se non si rallegrassero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo come se non ne usassero a fondo: perché passa la figura di questo mondo» (1 Cor. 7,29-31).
Il «come se» non significa la negazione del valore del fatto umano, dell’avere famiglia, del possedere, della professione, della politica, del progetto culturale.
Il «come se» significa che, nella prospettiva della risurrezione, ogni situazione esistenziale ed ogni attività umana assumono un valore che trascende la situazione e l’attività stesse, un valore che potenzia enormemente il loro significato. Il «come se» conferisce alla vicenda umana una responsabilità non solo terrena, ma tale da investire tutto il destino eterno dell’uomo.
Il «come se», pronunciato da San Paolo, segnala all’uomo e a tutti noi cristiani che non possiamo attaccarci alle circostanze fondamentali della nostra vita terrena, quasi conferissero, per se stesse, un significato esauriente alla nostra esistenza terrena.
Significa che la nostra persona, in quanto tale, è più importante della situazione in cui vive e delle cose attraverso cui si esprime.
Il significato della nostra vita non dipende da quello che facciamo. È la nostra vita e le nostre attività che ricevono significato dal come le viviamo. Il matrimonio, la famiglia, il lavoro, i soldi, i rapporti sociali, la politica, la scienza e l’arte, per essere umane e grandi, devono esprimere la coscienza che l’uomo ha del proprio destino eterno.
Nella prospettiva della risurrezione di Cristo e della nostra risurrezione personale la vita, con tutta la sua intensità, assume, perciò, una valenza umana più completa. L’umanità nell’uomo è tanto più grande, quanto più la prospettiva della risurrezione la investe alla radice delle contingenze, importanti e meno importanti, di questa vita terrena.
Ecco perché il Cristo risorto è il Redentore, il centro per l’uomo; il centro del cosmo e della storia.