Omelia per la S. Messa di Pentecoste, 1990
Pentecoste è la festa nella quale invochiamo il dono dello Spirito Santo sulla Chiesa. Un dono del Padre e del Figlio, perché la Chiesa possa con fedeltà inverare nella storia l’opera della salvezza compiuta da Cristo stesso. Un dono fatto prima di tutto ai cristiani, perché possano aderire nella libertà e con decisione alla persona di Cristo. «Nessuno, infatti, può dire “Gesù è il Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12, 3).
Con l’atto di riconoscere Gesù Cristo come Salvatore avviene tra i credenti un’aggregazione spirituale e sociale. La Chiesa, infatti, è quella comunione di credenti che si riconoscono tra di loro, in forza del fatto di avere in comune la fede in Gesù Cristo. In questa nuova realtà sociale, che è la Chiesa, si realizza il miracolo della nuova creazione, di una nuova società di persone già redente nelle loro manifestazioni umane fondamentali.
Caratteristica fondamentale e primaria della Chiesa è quella dell’unità. «Credo la Chiesa una…» professiamo ogni domenica nella celebrazione dell’Eucaristia. L’unità è il valore supremo che la Comunità dei cristiani è chiamata a realizzare in se stessa e a proporre al mondo. L’unità dei cristiani è la testimonianza attraverso la quale il mondo può riconoscere che il Padre ha mandato il Figlio come Redentore (Gv 17, 23).
L’unità non é convivenza, ma comunione tra le persone. Il gesto supremo dell’unità è il momento nel quale i cristiani comunicano al corpo e al sangue di Cristo nell’Eucaristia.
L’unità lascia intatta la caratteristica individuale di ogni persona, salvandone tutta la propria ricchezza umana e soprannaturale. Non significa affatto uniformità. Lo Spirito Santo ha una ricchezza inesauribile che, invece di uniformare, crea, attraverso i suoi doni, un’infinità di individualità ecclesiali. La pluralità nella diversità di ogni cristiano deve però rimanere organica. Questa organicità, cioè questa profonda convergenza e complementarità dei cristiani, è il presupposto perché nella Chiesa possa svilupparsi una vita e una creatività inesauribile. La vita naturale e la vita soprannaturale sono possibili solo se esiste un’organicità tra i soggetti che la costituiscono.
La teologia di S. Paolo (1 Cor 12) sulla varietà dei doni e dei carismi e quella sul Corpo Mistico, in cui ogni membro è coinvolto nelle gioie e nel dolore dell’altro, non lascia nessun dubbio sul senso e sul valore dell’unità nella Chiesa. L’obbedienza a questa pluralità ed organicità, che hanno, nel mistero episcopale e papale, il loro punto di riferimento e coesione imprescindibile, è norma di vita per coloro che riconoscono Gesù Cristo come Salvatore.
S. Paolo, infatti, invita i cristiani a riconoscere l’unicità della loro origine, nella diversità delle sue manifestazioni e, di conseguenza, a mettere a frutto i loro carismi «per l’utilità comune» (1 Cor 12, 7).
La libertà dei cristiani si realizza nella capacità di consegnare se stessi all’utilità comune, per l’edificazione di quel Popolo di Dio e di quel Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa.
Questo compito nell’edificazione della Chiesa può essere realizzato solo se i cristiani accettano di cambiare il loro comportamento sociale mondano. L’edificazione della Chiesa esige una dinamica di comportamento che sia ecclesiale, cioè consona alla natura stessa della Chiesa. Solo a questa condizione può formarsi nel mondo una comunione di cristiani, in cui inizi veramente la nuova creazione.
In questo contesto di Pentecoste, che ci richiama così potentemente alla ricchezza della pluralità e all’imprescindibilità dell’unità, la Chiesa contemporanea, e noi tutti, dobbiamo porci degli interrogativi.
Da venti anni, dopo cioè la promulgazione dell’Enciclica Humanae vitae nel 1968, e nel contesto culturale della contestazione studentesca europea, è nato il fenomeno del dissenso ecclesiale.
Esso si radica nella storia della Chiesa come dissenso, prima, sulla morale coniugale, poi, su altri aspetti di natura disciplinare, mettendo in gioco il rapporto tra teologi e magistero, tra lettera e spirito del Concilio, tra una certa «base» ecclesiale ed il Papa con i Vescovi. È un fenomeno che si nutre di un sospetto: il Magistero è deciso ad applicare il Concilio Vaticano II e a rimanere nello spirito del Concilio?
Nel linguaggio ecclesiale avviene, in quel momento, una profonda mutazione: la pluralità diventa pluralismo, l’opinione diversa diventa dissenso.
Il pluralismo rivendicato dal dissenso non è la pluralità delle opinioni e delle scuole teologiche, né sono le multiformi espressioni della fede, poiché esso tende ad erigersi fine a se stesso, snaturando i criteri dell’unità a semplice forma di convivenza che spesso nega il valore supremo della verità come criterio oggettivo di unità.
La divergenza delle opinioni ed il disaccordo si trasformano in dissenso: cessando di essere un semplice dato di fatto, per altro ineliminabile dalla storia, per erigersi a diritto. Nasce così il fenomeno del credente «à la carte», che rivendica il diritto di essere considerato come cattolico, anche quando accetta una verità, ma ne nega un’altra.
Il teologo si considera libero solo se ha il diritto di insegnare il contrario di ciò che insegna la Chiesa. La verità negata può essere più o meno fondamentale: il fenomeno come tale si distingue, però, perché, di fatto, dichiara la teologia altrettanto competente del magistero, erigendola a magistero parallelo.
Il diritto rivendicato è il diritto di essere alternativi, e perciò norma oggettiva anche per le coscienze. Ciò va ben oltre alla critica legittima e alla diversità del giudizio. Il dissenso ecclesiale moderno è sempre uguale, sia che si ponga come fenomeno progressista, sia che si ponga come fenomeno di retroguardia. Non esiste se non in forza del fatto di ritenere che nella Chiesa esiste la libertà solo a condizione di potersi costituire come opposizione e alternativa legittima al ministero episcopale, valida però per il comportamento dei fedeli.
La radice del dissenso ecclesiale, che ha subito il fascino dell’impennata ideologica sessantottina, pur non avendo magari il coraggio di seguirla sul terreno politico, è tut- tavia più profonda della stessa, perché, in ultima analisi, deriva da un’idea intellettualistica della Redenzione.
La Redenzione non è considerata come l’evento della persona di Cristo, ma ridotta, nella prassi e nel solco della cultura razionalista moderna, a rivelazione di una dottrina astratta. La verità è una dottrina, non la persona di Cristo. Si dimentica che il Verbo, cioè la Verità, si è fatto carne (cfr. Gv 1).
È solo all’interno di un’adesione personale a Cristo, morto e risorto, che la fede riesce a cogliere le verità rivelate, in se stesse e nella loro gerarchia, per prestare a Dio, che si rivela nella persona di Cristo, l’assenso del proprio intelletto e della propria volontà, cioè di tutta la sua umanità (DV 5).
Solo se l’uomo si lascia incorporare a Cristo, vivendo in Lui e nel suo Corpo Mistico, che è la Chiesa, impara ad aderire integralmente alle verità di fede ed a viverle. La vita cristiana si configura come incontro globale e totale della persona con il Cristo vivo ed adorabile; incontro che avviene nella Chiesa, quale ambiente di vita degli uomini redenti.
Fuori da questa prospettiva, l’adesione a Cristo, e perciò alla Chiesa, diventa parziale e regionale. Quando la rivelazione è ridotta ad una serie di verità astratte ed intellettuali, l’assenso della fede cerca subito di distinguere, tra le verità, quelle che devono obbligatoriamente essere tenute e quelle sulle quali si può avere un’opinione personale, anche se ciò implicasse il dissentire ad ogni costo dal magistero.
In questa prospettiva, le verità ritenute vincolanti sono ridotte di fatto ad un piccolo nucleo, che lascia amplissimo spazio alla circolazione del «libero pensiero», trasfor- mando il principio della pluralità delle opinioni in pluralismo, cioè convivenza di pensieri più protesi ad affermare le diversità dottrinali, regionali o nazionali, che l’unità.
Non meraviglia che, in questa prospettiva intellettuale ed astratta, anche l’idea di appartenenza ecclesiale diventi un’idea debole. L’incontro con Cristo non è più concepito come incontro con la sua persona risorta. Con la sua persona, la cui presenza obbliga a cambiare il nostro comportamento.
Non meraviglia neppure che il Magistero della Chiesa, del Papa e dei Vescovi in comunione con lui, venga spesso trattato come un’opinione tra le altre. Il criterio di giudizio non è più direttamente ancorato alla fede, ma prevalentemente, anche se spesso involontariamente, all’opinione dominante.
Il dissenso allora si paluda con le vesti della battaglia per la libertà e la democrazia nella Chiesa, quando, in realtà, altro non è se non il mezzo per contrabbandare nella Chiesa l’ideologia dominante.
È inevitabile che questa appartenenza debole alla Chiesa si traduca in teorizzazione della conflittualità, che non esita ad infrangere i confini della carità e della comunione, e non indietreggia neppure di fronte al sospetto ed alla denigrazione.
La carità e la comunione sono il valore supremo dell’esperienza ecclesiale e sono il segno inequivocabile di un’appartenenza forte alla Comunità ecclesiale: forte, perché implica la disponibilità a sacrificare, almeno in via provvisoria, la propria opinione.
Una simile posizione lede facilmente la funzione del Magistero dei Vescovi e del Papa, cui è sempre dovuto, secondo la «Lumen Gentium» (25) “religioso rispetto”, anche quando non godono o non dovessero avvalersi della prerogativa dell’infallibilità.
Ovviamente questo “religioso rispetto” non è richiesto solo in materia di fede e di morale; implica anche un’attenzione ed un ascolto reali, non solo formali, verso l’iniziativa pastorale dei Vescovi. Ad essi non ci si può opporre teorizzando l’utilità o la necessità della polemica pubblica, che per sua natura implica il rischio di stracciare l’indivisa tunica di Cristo, cioè l’unità della Comunità ecclesiale.
La conflittualità, connaturale al dissenso, ha sempre come risultato quello di offendere la fede del Popolo di Dio, che ha come supremo diritto quello di essere accompagnato nella sua esperienza ecclesiale nella verità e nella fiducia verso i pastori.
Tutto ciò non significa di certo che i Vescovi debbano essere ritenuti dai fedeli come padroni infallibili del gregge, ma piuttosto che non debbano essere a priori trattati con la diffidenza e il sospetto riservati ad un potenziale nemico, magari con il pretesto della loro origine, della loro storia e del loro temperamento.
La situazione attuale nella Chiesa in Svizzera dà luogo a molte riflessioni sul dissenso ecclesiale, che si avvale, per i propri fini polemici, dell’inevitabile risonanza e distorsione offerta da certa pubblicistica di opinione.
Paolo VI, che, dopo il Concilio ha assistito addolorato all’esplosione del fenomeno del dissenso ecclesiale, si è espresso più volte in merito. Forse vale la pena di ricordare qualche suo intervento: «Noi richiameremo ancora una volta chi si professa figlio della Chiesa a non arrendersi alla moda della contestazione sistematica (affermava nel 1976), quasi che questa posizione critica autorizzasse a corrodere quell’intima coesione che dev’essere di una Chiesa ben costruita, cioè di una società animata dalla carità».
Riferendosi, nel 1972, alla situazione della Chiesa, che presentava molte analogie con la situazione attuale in Svizzera ed altrove, papa Paolo VI non ha esitato ad affermare: «Si direbbe che da qualche misteriosa, no, non è misteriosa, da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio… credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di ricerche e di incertezze; si fa fatica a dare la gioia della comunione».
Se la Pentecoste è la festa del dono dello Spirito Santo, forse, al di là di tutte le inadempienze e di tutti i torti che la Chiesa ed i Vescovi possono avere, ci si può chiedere, cari fratelli e sorelle nel Signore, se il dissenso non sia piuttosto l’espressione di un non assenso allo Spirito Santo.
Tutti abbiamo bisogno di correggerci, ma questo è possibile solo se riusciamo ad invocare su di noi la grazia di essere docili ai doni, che oggi, se siamo interiormente preparati, lo Spirito Consolatore effonde su di noi.