Omelia durante la celebrazione eucaristica di fine anno 1988
Cari fratelli e sorelle nel Signore, durante il tempo di Avvento mi ha colpito, nella preghiera del Breviario, questa perentoria affermazione del profeta Isaia:
«Non hanno intelligenza quelli che portano un idolo da loro scolpito e pregano un Dio che non li può salvare » (Is. 45, 20).
Il richiamo sferzante del profeta evoca l’immagine di popoli che sfilano in processioni rituali, portando sulle spalle i propri idoli: simulacri dall’aspetto umano o animale fatti oggetto di culto e venerazione.
È un’immagine alla quale noi uomini del ventesimo secolo guardiamo con ironico distacco, che ci deriva dalla nostra inculturazione, ma che conserva tuttavia una forte attualità.
Potremmo ritenere, infatti, che l’evoluzione di millenni di storia e di sviluppo ci abbia messo al riparo dal cadere in espressioni così primitive e goffe del senso religioso.
Eppure, agli albori dell’era moderna il filosofo naturalista inglese Francis Bacon metteva ancora in guardia tutta l’umanità dalle tentazioni idolatriche, in cui continuava a cadere. Ed individuava in particolare una serie di idoli dell’uomo moderno, capaci di deformare la coscienza dei singoli e delle masse, impedendo una corretta conoscenza della realtà e della verità.
Per il filosofo inglese anche l’uomo moderno, forse meno incline dei suoi antecessori alle processioni rituali, più sensibile alle esigenze ed ai condizionamenti della razionalità e dell’intelligenza, era preda di numerosi ed altrettanto devianti idoli: quelli della tribù, cioè dell’ambiente etnico, etico e culturale in cui l’uomo è cresciuto ed ha formato la propria personalità; gli idoli della spelonca, cioè quelli originati dal suo substrato psichico, oggetto, in tempi recenti, di indagini non sempre appaganti della psicanalisi; gli idoli del foro, vale a dire quelli che derivano all’uomo dal commercio con i suoi simili e perciò dalla corsa al benessere ed al potere; infine, gli idoli del teatro, che sorgono dall’accoglimento acritico, da spettatore passivo, di dottrine ed ideologie.
Ma questi concetti erano già stati enunciati millecinquecento anni prima, con la sensibilità cristiana che costituisce il nostro patrimonio spirituale, da San Paolo, l’Apostolo delle Genti, allorché scongiurava il Vescovo Timoteo di essere prudente di fronte alle ideologie della sua epoca: «Verrà un tempo, infatti, in cui gli uomini non sopporteranno più la sana dottrina, ma, secondo le proprie voglie, si circonderanno di una folla di maestri, facendosi solleticare le orecchie, e storneranno l’udito dalla verità, per volgersi alle favole. Tu, però, sii prudente in tutto…» (2 Tim. 4, 3-5).
Cari fratelli e sorelle, vale la pena di soffermarci per un istante queste immagini di uomini, che percorrono il cammino della loro esistenza, come in processioni rituali, portando issati sulle spalle gli idoli che hanno scolpito, sia con le proprie mani, sia con i propri comportamenti privati o sociali e con le proprie ideologie ed opinioni individuali o collettive; vale la pena di soffermarci su questi uomini che inseguono le favole narrate loro da una folla di falsi maestri, che solleticano le loro orecchie.
Nel momento in cui volge al termine questo anno, riflettiamo sugli idoli che accompagnano il nostro procedere quotidiano. In molti di essi possiamo facilmente riconoscere quello stesso elenco di deformazioni etiche e pratiche formulato dal filosofo Bacon.
Gli idoli, sia che assumano le forme ingenue dei simulacri con sembianze umane o animali, sia che si concretizzino in una scala di valori che guidano il nostro agire quotidiano o di obiettivi da raggiungere nella nostra esistenza, ai quali conformare tutte le nostre energie e risorse materiali e spirituali, sono pur sempre il frutto della nostra limitatezza, parzialità ed imperfezione.
Il problema degli idoli, oggi come in qualunque momento della storia, tocca al fondo, il senso ultimo dell’esistenza dell’uomo.
Poiché, attraverso le varie forme antiche o moderne di idoli, l’uomo manifesta ciò cui aderisce nel profondo dell’animo. In base a questo suo credo l’uomo regola, magari anche solo inconsciamente, la sua dimensione spirituale e il suo agire verso gli altri uomini. Dà, insomma, un’ impronta al suo destino ed alla sua propria storia.
In effetti, se ci domandiamo per che cosa abbiamo vissuto in questo anno, anche noi potremmo scoprire di aver portato, nel nostro cuore o nel nostro rapporto con gli altri, idoli da noi scolpiti a nostra immagine e somiglianza, cioè a misura delle nostre esigenze e desideri, dei nostri sogni, delle nostre velleità, dei nostri pregiudizi. Idolo è ciò che ci è più caro nella vita.
Quando nel libro della Genesi il Signore ha ricordato all’uomo di averlo creato a sua immagine e somiglianza, lo ha reso attento al fatto del rapporto di derivazione dell’umano dal divino, e, quindi, che l’uomo deve misurare la propria azione ed ispirare la propria vita al rapporto con la divinità. È solo un amaro paradosso della storia quello che ha spinto l’uomo di ieri, e spinge l’uomo di oggi, a far derivare il divino – cioè il proprio innato desiderio di appagamento spirituale – dall’umano, e quindi a divinizzare il proprio appagamento materiale. E a scolpirsi i propri idoli.
Il lirico e drammaturgo inglese Eliot scriveva nel 1934 che l’uomo contemporaneo, se, nel processo di razionalizzazione del proprio esistere, nelle sue componenti materiali e spirituali, è convinto di aver superato tutti gli dei delle religioni antiche (dalla Bibbia qualificati come idoli scolpiti dall’uomo), in realtà ne ha conservati alcuni: l’usura, la lussuria, il potere.
L’usura come sete di danaro e di benessere egoistico; la lussuria come sete di piacere effimero e sensoriale; il potere come sete di dominio sul prossimo.
Non possiamo sottacere che questi valori negativi rappresentano gli idoli della coscienza contemporanea, di cui gli strumenti di comunicazione sociale ed un forma di cultura dominante hanno saputo offrirci suggestive immagini, creando di essi quasi un culto, una religione, con nuovi sacerdoti. Ma si tratta di idoli che, se danno l’effimera felicità di un giorno, non possono certamente dare la salvezza di cui parla Isaia.
Anche una serata di gala a scopi benefici per la fame nel mondo o per i terremotati dell’Armenia, quale quella della Notte stellata, teletrasmessa dal Grand Casinò di Ginevra alcuni giorni fa, portava con sé una pesante impronta di idolatria, nel senso che abbiamo detto. Infatti, al di là delle ammirevoli intenzioni e dell’apprezzabile esito materiale, non possiamo non chiederci se inconsapevolmente la nostra appagata società, che non sa fare a meno, neppure nei momenti più drammatici, del proprio atteggiamento ludico, non stesse ancora una volta portando in processione gli idoli da essa costruiti, in particolare quello del benessere, dietro cui si nasconde un’inconfessata responsabilità verso tutti quegli uomini e quei bambini che trascorrono la propria vita – a volte brevissima – negli stenti e nella miseria.
La consapevolezza di queste contraddizioni, di queste stridenti ingiustizie, cari fratelli e sorelle, ce la può dare soltanto la fede; la fede, cioè, non in uno o più idoli creati da noi stessi a nostra misura, ma la fede in un Dio che, avendoci fatti tutti uguali in quanto creati a sua somiglianza, ha elevato ciascuno di noi ad una dignità che non è solo uno stato personale, ma è un obiettivo da realizzare attraverso lo sforzo di solidarietà sociale.
E questa dignità dell’uomo, la cui ragione più alta consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio, si realizza allorché gli è permesso di vivere in mezzo ai suoi simili senza forme di schiavitù sociale, economica, psichica, razziale, ideologica. Queste situazioni di vita, non possiamo nascond ercelo, sono il frutto degli idoli venerati dalla parte appa- rentemente vincente dell’umanità. Ma questi idoli, non solo non possono salvare l’uomo, come affermava Isaia, ma al fondo attentano alla sua stessa dignità di creatura di Dio.
E si potrebbero citare innumerevoli esempi di attentati alla dignità dell’uomo, consumati in nome di falsi idoli, talora addirittura invocando malintesi diritti della persona umana.
Tra questi ultimi, permettetemi, cari fratelli e sorelle nel Signore, di ricordarne alcuni, che vanno consolidandosi sempre più nella mentalità comune.
Così, la pretesa libertà dell’uomo di autodeterminarsi nel sublime compito della pro c reazione, e che si ritiene re nda i coniugi arbitri di interv e n i re artificialmente nei pro c e ssi fisiologici del concepimento e di condizionarne gli esiti; ora, impedendo meccanicamente o chimicamente il fatto procreativo, ora causandolo nell’artificio di una provetta.
A quest’ultimo proposito, l’erronea proclamazione del diritto della coppia sterile di possedere e disporre di un figlio ricorrendo alle tecniche della procreazione artificiale eterologa od omologa, costituisce forse l’espressione più insidiosa della tendenza all’autoaffermazione dell’uomo contemporaneo, proteso a rendersi autonomo dalla sua radicale dipendenza da Dio, che lo ha creato a Sua immagine e somiglianza.
La fecondazione artificiale omologa, cioè tra marito e moglie, benché convergenza di intenti e di amore, non raggiunge l’espressione adeguatamente completa dell’amore coniugale, perché in essa l’unione spirituale ed affettiva è separata da quella corporale.
È vero, fedeli cristiani, che nella storia della Chiesa ha spesso prevalso una concezione che ha sottovalutato l’espressione corporale dell’amore, tuttavia, la posizione più antica e radicata nella Chiesa ha valorizzato in tutta la sua vibrazione spirituale il rapporto sessuale tra uomo e donna nel matrimonio. Ne è prova il fatto che, al di là dei vari orientamenti delle scuole teologiche, il Magistero, pur avendo sempre riconosciuto la validità del matrimonio della coppia sterile, ha sempre affermato l’invalidità e perciò l’inesistenza dei matrimoni viziati di incapacità al rapporto sessuale; anzi, ha concesso la dissoluzione dei matrimoni, anche sacramentali, non perfezionati dall’unione dei corpi. Dunque, l’imprescindibilità dell’unione corporale, dell’unica carne, nella quale si perfeziona il Sacramento del matrimonio nella sua indissolubilità, per adempiere il ministero della procreazione.
In questo senso, non può non apparire disinvolto un recente documento con cui la Commissione Justitia et Pax, sia pure a nome proprio e senza impegnare la Conferenza dei Vescovi svizzeri, mette in alternativa la propria opinione all’insegnamento del Papa – pur non ancora definitivamente vincolante – sull’illiceità della fecondazione artificiale omologa. Ciò fa pensare che gli idoli possono essere prodotti non solo da un’errata impostazione della ragione filosofica, ma anche da una teologia che cede di fronte ai postulati razionali, frutto del debole pensiero moderno, senza ascoltare fino in fondo il richiamo più profondo della fede.
Un altro esempio degli attentati alla dignità dell’uomo può rinvenirsi nella tendenza a fronteggiare lo spaventoso dilagare dell’AIDS, ricorrendo a strumenti di preservazione pur di non accettare il dovere della fedeltà coniugale o un corretto comportamento sessuale, che trova la sua espressione più nobile nella virtù della castità. Virtù, che, dall’etimo latino «virtus», significa forza d’animo, coraggio e consistenza della persona; elementi necessari per superare la fragilità dei sensi che caratterizza il nostro essere uomini.
Un altro idolo è quello dell’affermato diritto della donna a disporre non solo del proprio corpo, ma anche dell’embrione, che in esso si sviluppa, e sottrarsi, così, con l’aborto, alla sua condizione femminile, naturalmente orientata anche alla procreazione e perciò all’accoglienza e alla protezione della vita.
Se questi sono i guasti morali e sociali determinati dagli idoli scolpiti a misura d’uomo, anche noi, cari fedeli, chiudendo questo anno, segnato da avvenimenti mondiali luttuosi, ma anche da speranza, e nella nostra vita personale da gioie e da dolori, dobbiamo interrogare la nostra coscienza.
Ci faremmo delle illusioni se credessimo non più attuale rispetto al nostro vivere quotidiano l’affermazione di San Paolo, quando definiva imperdonabili gli uomini allorché, dopo aver conosciuto Dio, non lo glorificarono come Dio, né gli resero grazie; e così, «ritenendosi sapienti divennero sciocchi, e scambiarono la gloria di Dio incorruttibile con le sembianze di uomo corruttibile, di volatili, di quadrupedi, di serpenti» (Rom. 1, 22-23).
Anche noi, pur credendo in Dio, non lo glorifichiamo, né lo riconosciamo come Dio, quando portiamo nel nostro c u o re gli idoli, ai quali siamo attaccati, avendoli costruiti a nostra misura. In questo consiste il nostro vero peccato…
Se questa sera siamo riuniti nella nostra Cattedrale a ringraziare il Signore con il «Te Deum» per tutte le grazie, per tutti i benefici che abbiamo ricevuto, per il fatto stesso di esistere a sua immagine e somiglianza e per il dono fattoci dallo Spirito Santo di cre d e re nella persona di Cristo, unico salvatore della nostra esistenza, abbiamo mille motivi anche per domandare al Signore, dal profondo del cuore, di perdonarci tutte le nostre piccole e grandi idolatrie.