Omelia per l’ordinazione episcopale nella Cattedrale di Lugano, 29 giugno1986
L’atto liturgico straordinario celebrato assieme in questa chiesa Cattedrale di Lugano ha un’ascendenza storica di quasi due millenni. Fu infatti il primo Concilio Ecumenico della cristianità, convocato dall’imperatore Costantino a Nicea nell’anno 325, ad esigere che ogni Vescovo fosse consacrato in relazione ad una sede episcopale determinata, come oggi per quella di Lugano, da tutti i Vescovi della provincia circostante o almeno da tre prelati in rappresentanza di tutti gli altri.
Il significato ecclesiologico di questa regola antichissima, che a così grande distanza di tempo ha ancora guidato questa nostra celebrazione liturgica, è duplice. Questo atto liturgico, così solenne, in cui è stata proclamata la Parola di Dio e sono stati posti i segni simbolici ed efficaci del Sacramento, si rivela nello stesso momento essere anche un atto vincolante dal profilo sociale e giuridico. In esso è avvenuta contemporaneamente l’ordinazione sacramentale di un nuovo Vescovo e la sua assunzione, o presa di possesso, del ministero o ufficio episcopale della Diocesi di Lugano.
Questa unità tra sacramento e istituzione esprime un aspetto fondamentale dell’esperienza cristiana. La dimensione sociale della fede e il carattere vincolante dell’istituzione sono inerenti alla forza salvifica della Parola e del Sacramento che celebriamo. La socialità in cui ci troviamo coinvolti, celebrando liturgicamente il Mistero cristiano e l’istituzione che la ordina, con forme e criteri variabili nel corso dei secoli, non derivano prima di tutto dalla insopprimibile esigenza sociale insita nella natura della persona umana, ma dalla imperatività e dalla potenza aggregativa della Parola di Dio e del Sacramento. Si tratta di una socialità generata dal nuovo rapporto interpersonale che si instaura tra i cristiani in forza della loro unica appartenenza a Gesù Cristo nella fede e nel Battesimo.
Questa visibile appartenenza reciproca che investe l’esistenza dei cristiani, assume una connotazione di valore e un nome specifico rispetto a qualsiasi altra forma di socialità umana: quella di essere nella sua essenza un rapporto di comunione. L’appartenenza comune allo stesso Cristo crea tra di noi un legame oggettivo di reciprocità totale dell’uno nell’altro, antecedente alla stessa coscienza che di esso dovessimo avere.
La comunione ecclesiale si esprime senza dubbio come legame nella carità e fraternità reciproca e in un rapporto di solidarietà profonda. Dovremmo saperla vivere con la determinazione di chi è consapevole che essa costituisce la forma stessa della nostra esistenza umana. Non si esaurisce tuttavia in un semplice rapporto psicologico e affettivo. La comunione è prima di tutto un rapporto oggettivo e strutturale che determina tutte le componenti essenziali del nostro essere Chiesa. Essa significa che nella Chiesa di Cristo nulla può essere separato e diviso. La comunione è un rapporto di immanenza e di indivisibilità, che ha origine dal nostro rapporto di unità profonda con Dio e con gli altri cristiani.
In effetti il cristiano non può autoconcepirsi se non come colui che, appartenendo a Cristo, appartiene agli altri e come colui al quale tutti gli altri battezzati appartengono quale parte integrante di se stesso. I cristiani in effetti sono un popolo di persone che, al di là di ogni barriera di sangue, di razza, di lingua e di cultura, si appartengono reciprocamente e si costituiscono come Corpo mistico di Cristo. Basterebbe scandagliare più a fondo questa verità per scoprire i mille scompensi del nostro vivere individualisticamente l’identità reale della nostra persona, battezzata nel Cristo.
Potremmo fare un elenco esauriente dei fatti in cui si realizza questo principio della immanenza e della indivisibilità degli elementi: dalla inseparabilità che lega la Parola di Dio e il Sacramento, alla indissolubilità del rapporto tra l’uomo e la donna nel sacramento del matrimonio; mi limiterò oggi a soli due aspetti del mistero cristiano: il rapporto di mutua dipendenza esistente tra i fedeli e il Vescovo e il rapporto di immanenza esistente tra la Chiesa locale e quella universale.
Esiste un rapporto di necessarietà reciproca, e perciò di comunione, tra il sacerdozio comune di tutti i fedeli e il sacerdozio ministeriale del Vescovo, dal quale derivano e dipendono tutte le altre forme ministeriali; quella dei presbiteri e dei diaconi, ed eventualmente di altri. Il sacerdozio comune a tutti i battezzati si realizza secondo specificità che devono essere vissute integralmente senza sconfinamenti reciproci.
Esiste infatti un rapporto di mutua complementarietà tra la responsabilità del fedele laico e la ministerialità del fedele che riceve il sacramento dell’ordine sacro. Quando il laico non assume la propria responsabilità, secolare ma cristiana, nei confronti del mondo, dello statuto culturale, sociale e politico della società umana, e quando i ministri ordinati non assumono la responsabilità della Parola e del Sacramento in funzione dell’unità di tutti i fedeli, il rapporto di immanenza tra i fedeli si rompe e si rompe la comunione. Quando i laici e i ministri ordinati non si lasciano giudicare dalla presenza profetica dei religiosi e delle religiose e quando questi ultimi non assumono la responsabilità di dare una testimonianza chiara e radicale della loro vocazione, la comunione nella Chiesa si appiattisce in un rapporto di forze, senza significati spirituali.
All’interno di questa dinamica di mutua dipendenza e di reciprocità tra tutti i fedeli, a qualsiasi stato di vita essi appartengano, dobbiamo valutare anche il ministero del Vescovo.
Un Vescovo nasce nella Chiesa e dalla Chiesa. Come per il Verbo Incarnato la cui appartenenza al genere umano non andrà mai persa, così si deve dire del Vescovo rispetto alla comunità ecclesiale in cui e da cui è nato come credente. Chi è diventato Vescovo è giunto ad esserlo come membro e frutto di una Chiesa che gli è stata madre, come membro di una comunità particolare di fede, che lo ha generato.
Questa derivazione ecclesiale, che può anche essere particolare quando assume la connotazione di un carisma specifico (come quello di .un movimento ecclesiale), non può mai essere ignorata, né posta sotto silenzio, né cancellata. Il Vescovo infatti, per riprendere la celeberrima espressione di S. Agostino, è cristiano tra i cristiani, tra i quali però esiste una pluralità di espressione: «Se mi terrorizza» scrive il Vescovo africano di Ippona «quello che sono per voi, mi consola ciò che sono con voi. Per voi sono Vescovo, con voi sono cristiano» (Sermo 340, l). Nel Vescovo sussiste una fraternità con tutti i fedeli che non può essere cancellata dalla paternità che deve esercitare nei loro confronti, pronunciando la Parola normativa di Cristo, con tutta l’anteriorità e l’autorità che le è propria.
Questa duplice dimensione oggettiva, di fraternità, che abbraccia indistintamente tutti senza elidere i carismi particolari, e di paternità, esistente tra i fedeli e i presbiteri e tra i presbiteri e il Vescovo, appartiene all’essenza stessa della esperienza ecclesiale.
Il Vescovo non è il principio e il fondamento della Chiesa locale,come il Papa non lo è della Chiesa universale, perché per molti aspetti tutti quanti siamo con la stessa legittimità principio e fondamento di quella Chiesa che costituiamo storicamente aderendo alla persona di Cristo. Il Vescovo secondo l’insegnamento del Vaticano II (LG 23,1) è il principio e il fondamento dell’unità della Chiesa locale. E il garante della comunione, del fatto che nella Chiesa locale «il tutto si realizzi nel frammento» come ha formulato il grande teologo Hans Urs von Balthasar.
La seconda funzione del Vescovo è inoltre quella di essere garante dell’unità della Chiesa locale con la Chiesa universale. Questo è l’altro aspetto messo in evidenza dall’atto liturgico che sta per concludersi in questa Cattedrale. La presenza di Vescovi svizzeri e stranieri sta a significare che l’ordinazione di un Vescovo concerne non solo questa nostra Chiesa particolare di Lugano, ma tutta la Chiesa universale.
La cattolicità nasce dalla presenza nel mondo di migliaia di altre Chiese particolari che si diversificano fra di loro, non a partire dalla diversa cultura e situazione storica in cui vivono, ma dalla interpretazione e dalla assunzione nella fede che i cristiani sanno fare delle differenti culture. La cattolicità nasce dal fatto che tutti i valori cristiani essenziali, vissuti in un determinato luogo e secondo modulazioni culturali diverse, sono accolti e vissuti almeno potenzialmente in tutte le altre Chiese particolari sparse nel mondo.
Questa unità fondamentale, nella pluralità, è comunione; l’unità e l’immanenza di tutte le Chiese che si riconoscono in comunione con la Chiesa di Roma. Ciò significa che se tutti i cristiani hanno diritto di cittadinanza in tutte le Chiese particolari del mondo, hanno anche il dovere di accogliere, nella loro eucaristia e nella comunità che da essa viene generata, tutti i fratelli, stranieri o non stranieri, provenienti dalle altre Chiese particolari con tutti i loro bisogni materiali e spirituali. Questo principio che sembra privilegiare il prossimo, in armonia con il comandamento del Signore di amare il prossimo, non esclude nessun’altra solidarietà cristiana ed umana, ma urge pedagogicamente ad allargare tutte queste solidarietà verso orizzonti senza confini.
In una società assetata di unità ma determinata da una cultura particolaristica, divisa da barriere sociali, etniche ed ideologiche, che sembrano essere insuperabili, noi cristiani abbiamo bisogno di immettere fin nelle pieghe più recondite del nostro essere tutto il respiro dell’universali- tà della Chiesa di Cristo, per saper dare al mondo una testimonianza di unità. Da essa, infatti, gli uomini riconosceranno che il Figlio di Dio è stato mandato per salvare il mondo (Gv 17,23).
L’unità della Chiesa è stata definita dall’attuale Pontefice come il contributo più grande che la Chiesa deve dare alla pace nel mondo. Ogni Chiesa, che non apre se stessa all’orizzonte della universalità, realizza in modo imperfetto l’unica Chiesa di Cristo, ingenerando una falsificazione più o meno profonda della stessa esperienza di fede. La comunione che si realizza secondo gradi diversi, ma tende verso una coincidenza sempre più perfetta dei contenuti della fede, vissuti nelle singole Chiese particolari con quelli della Chiesa universale di Cristo, è il principio che deve guidare lo sforzo di riconciliazione di tutti i cristiani. Il dovere di ricomporre l’unità dell’unica Chiesa di Cristo incombe, infatti, a tutti i battezzati, per volontà stessa del Signore (can. 755 § 1).
Il ministero del Vescovo è il punto di convergenza istituzionale, della dimensione particolare e universale della Chiesa di Cristo, perché egli rappresenta la propria Diocesi in seno al collegio universale dei Vescovi, con a capo il Papa, e nello stesso tempo rende presente nella propria Chiesa locale la communio Ecclesiarum che si esprime nel collegio universale dei Vescovi della Chiesa. Ecco perché San Cipriano con espressione audace, ma esatta per quello che intende significare, ha potuto scrivere nel III secolo che «la Chiesa (l’unica Chiesa di Cristo) è nel Vescovo e il Vescovo è nella Chiesa» (Carta 66,8,1).
Questo è il significato della presenza di molti Vescovi alla consacrazione di uno solo. Prendere atto del significa- to ecclesiale dell’avvenimento, che abbiamo vissuto in questa Chiesa Cattedrale, rinfranca in noi la coscienza della nostra appartenenza alla Chiesa e ci aiuta a vivere con risonanze spirituali e culturali più vaste la nostra fede personale in Cristo.
Tutto quanto abbiamo detto finora sulla comunione e sulla Chiesa deve essere compreso nella prospettiva del mandato, che tutti abbiamo ricevuto, di trasmettere la nostra fede in Cristo a tutti gli uomini. «Andate per tutto il mondo, predicando il vangelo a tutta la creazione» (Mc 6,15). Viviamo la fede nella misura in cui ne diamo testimonianza agli altri. Anche la vita ci è stata data per essere trasmessa agli altri. In questo l’uomo è costituito a somiglianza di Dio, che è amore (l Gv 4,8). Proprio perché Dio è nella sua essenza amore, ha reso partecipi il mondo e l’uomo della sua esistenza, nella creazione.
Se l’uomo non può trasmettere la vita in modo solo biologico, come avviene nel regno animale, ma solo come atto di amore, che fa riecheggiare nell’io della persona umana la dignità stessa del Creatore, il cristiano deve ripetere in se stesso l’atteggiamento di Cristo che «pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio», per cui comunicò se stesso facendosi uomo (FiI 2,5-8).
Il compito fondamentale della vita del cristiano è perciò quello di testimoniare e trasmettere la fede, ricevuta come dono gratuito da Dio. Esiste tutto, la famiglia, la professione, l’impegno culturale, sociale, politico, esiste la vocazione al matrimonio, al sacerdozio e alla vita religiosa consacrata, ma il compito fondamentale del cristiano è quello di testimoniare la propria fede in Cristo, realizzando tutte queste cose.
La personalità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, dei quali ricorre oggi la solennità liturgica, ci deve far riflettere su quest’ultimo tema. Hanno vissuto come compito della loro vita quello di testimoniare agli uomini di qualunque stirpe e di qualunque nazione la risurrezione di Cristo. Testimonianza da dare agli uomini, perché l’interl ocutore della Chiesa è l’uomo, tutti gli uomini, senza esclusione di nessuno: l’uomo che è presente nel cristiano e l’uomo che è presente nel cittadino credente o non credente. L’uomo è il referente di Dio che ha mandato il Cristo per salvarlo.
L’uomo, con la sua dignità, con la sua intelligenza, con la sua passione e gioia di vivere, deve rimanere il referente di tutti gli altri uomini: del poeta, dell’uomo di cultura, dello scienziato, non solo come singoli, ma anche nelle loro formazioni sociali, quali i partiti politici, i sindacati, lo stato, la scuola, e di noi tutti che siamo Chiesa.
Nel concludere questa omelia desidero testimoniare la mia devota gratitudine al Santo Padre, assicurandogli a nome di questa solenne assemblea l’impegno della nostra Chiesa a vivere nella piena comunione.
Non posso inoltre fare a meno di rivolgere un affettuoso pensiero e ringraziamento ai miei predecessori, interpretando l’attesa di tutta la Diocesi: Monsignor Ernesto Togni e Monsignor Giuseppe Martinoli, che così tanto hanno dato, danno e daranno a questa Chiesa nell’esercizio di un ministero vissuto in spirito di totale, e talora sofferta, dedizione.
Ai confratelli nell’episcopato e alle Chiese che sono qui presenti nella loro persona; al clero diocesano e religioso, alle religiose, alle associazioni e ai movimenti ecclesiali e a tutto il popolo di Dio, con il quale siamo questa Chiesa di Lugano, l’augurio di percorrere in comunione fraterna un coraggioso cammino.
Alle Autorità civili, in primo luogo al Consiglio federale, qui rappresentato dal presidente della Confederazione, onorevole Alphons Egli; ai membri della deputazione ticinese alle Camere federali; ai rappresentanti dell’Autorità giudiziaria, dei Comuni, dei Patriziati e delle Parrocchie; al Governo del Cantone Friburgo e della città; alle Autorità militari; ai membri del Corpo Diplomatico e Consolare; agli eminenti colleghi di varie Università, in particolare al rettore dell’Università di Friburgo; al presidente del Consiglio superiore della Magistratura della Repubblica Italiana; ai rappresentanti di gruppi e associazioni civili, la mia gratitudine per aver onorato la nostra Diocesi con la loro ambita e significativa partecipazione, pegno di futura e consapevole collaborazione per il bene del nostro Paese.
Che la Vergine Santissima, venerata in questa Cappella delle Grazie, ci protegga con la tenerezza con la quale ha accompagnato suo figlio Gesù, il Cristo Redentore degli uomini.