In occasione della prima giornata diocesana di formazione per cantori e animatori liturgici, Lugano 9 ottobre 1988.
Cari confratelli nel sacerdozio,
cari fratelli e sorelle in Cristo, care suore.
Esistono due modi di concepire il cammino della santificazione della nostra persona, cui tutti siamo chiamati. Il primo è quello di cercarlo al di fuori del servizio ecclesiale nel quale siamo stati assunti; il secondo è di percorrerlo attraverso l’esercizio del nostro stesso ministero.
Per lungo tempo, dopo il Concilio di Trento, si è pensato che la formazione spirituale del clero, e perciò la sua educazione alla santità dovesse consistere nel prepararlo a vivere bene il proprio stato di vita clericale, piuttosto che a vivere il suo ministero apostolico in quanto tale.
La santità di vita era esigita in funzione di un esercizio fruttuoso del ministero pastorale. L’accento era messo sull’aspetto soggettivo della santità, come se dovesse essere raggiunta comunque, anche prescindendo dall’esercizio del ministero pastorale e missionario.
Tutta la formazione, perciò, era orientata verso le pratiche di pietà: la preghiera personale, la meditazione, il Breviario, il S. Rosario, la mortificazione, la Confessione frequente. Anche la partecipazione e la celebrazione dell’Eucarestia era in ultima analisi vissuta come pratica di pietà. Il cammino verso la santità personale rimaneva estrinseco all’esercizio del ministero apostolico, quello della predicazione della Parola e della celebrazione dei sacramenti, che correva così il rischio di essere ridotto ad un semplice ruolo da assumere.
Soprattutto con il Decreto Presbiterorum Ordinis (cap. 13), il Concilio Vaticano II ha corretto questa impostazione, mettendo in risalto che l’esercizio globale della funzione presbiterale costituisce, in quanto tale, la fonte primaria e specifica della santificazione del clero. Ha messo l’accento sul fatto che i presbiteri, pur aiutandosi e sostenendosi con la preghiera personale e tutte le altre pratiche di pietà, comuni a tutti i fedeli o tradizionalmente considerate specifiche del clero, devono santificare la loro persona attraverso l’esercizio del ministero, di cui sono investiti sacramentalmente.
Accettare questa indicazione conciliare è la condizione previa per elidere dalla formazione del clero il rischio dell’educazione al “ruolismo”, provocato dall’esercizio del ministero come professione distinta dalla propria persona e dalla propria esperienza reale di fede. In effetti, l’annuncio della Parola agli altri deve essere un annuncio fatto, prima di tutto, a se stessi. Nell’atto di celebrazione della liturgia il sacerdote, che la offre per tutti e assieme a tutti, deve offrire anche il sacrificio della propria persona. Nell’esercizio di tutte le altre attività derivanti dalla Parola e dai Sacramenti, cioè di tutto il lavoro apostolico con essi connesso, il sacerdote pratica la propria ascesi personale, rinunciando a perseguire interessi particolari propri.
Queste considerazioni formulate in ordine alla santità del clero, come esempio più facilmente comprensibile, valgono per tutti i fedeli; valgono anche per la vocazione alla santità dei laici. Tutti siamo chiamati a praticare l’ascesi e a perseguire la santificazione della nostra vita, attraverso e non al di fuori, o a lato, degli atti fondamentali che caratterizzano il nostro stato di vita nella Chiesa e la nostra attività in essa.
La preghiera, l’ascolto della Parola di Dio, la celebrazione dei Sacramenti, non possono rimanere fonte estrinseca di santificazione, rispetto al lavoro e ai compiti che siamo chiamati ad assumere nella vita come cristiani. Per i laici ciò significa prima di tutto santificazione attraverso il matrimonio con la vita familiare e la presenza del mondo e nell’ambiente professionale.
È nella testimonianza data attraverso lo svolgimento del proprio compito e della propria vocazione secolare che i laici realizzano il loro sacerdozio comune e il loro sensus fidei e, di conseguenza, la loro partecipazione alle tre funzioni stesse di Cristo, di santificazione, di annuncio della verità e di trasformazione del mondo.
L’ascesi, cioè la tensione ininterrotta verso una vita ricavata non dalla ragione o dal buon senso, ma dalla fede in Cristo, deve essere realizzata vivendo la verità intrinseca agli atti costitutivi della nostra vocazioni. Cosa serve la pratica dei Sacramenti e la partecipazione alla liturgia se il modo con il quale voi laici vivete la famiglia e la professione non coincidesse con la testimonianza della vostra fede, cui siete stati chiamati in forza della vostra incorpo- razione battesimale a Cristo e alla Chiesa?
La lettera agli Ebrei, (4, 12-13), ci offre lo spunto per approfondire la questione. Ascoltiamo questo brano della lettera in cui si afferma che «la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima».
Il dualismo, tra la santità ricercata con altri strumenti, e l’esercizio del ministero, in cui può incorrere facilmente il clero, insidia anche il vostro servizio specifico di laici o religiose, chiamati ad essere cantori o animatori liturgici. Non ha importanza ora sapere con esattezza in che misura il vostro servizio liturgico possa essere teologicamente definito come ministero, o meno. Importante, in ultima analisi, è solo il fatto che anche voi, come noi vescovi e presbiteri, investiti del ministero sacerdotale, potete svilire il vostro servizio liturgico, denaturandolo a semplice ruolo.
Ciò che soffoca la nostra fede e quella degli altri fedeli è “il ruolismo” dal quale ci lasciamo protagonizzare. Se la lettera agli Ebrei ci richiama al fatto che la Parola di Dio, cioè la verità, «è più tagliente di ogni spada a doppio taglio e dobbiamo lasciarla penetrare fino al punto di divisione della nostra anima», è segno che il dualismo nel vivere la nostra persona è un equivoco, che da sempre minaccia in profondità la nostra esperienza umana e cristiana.
Come non è possibile assumere solo estrinsecamente il ruolo di padre o di madre, senza compromettere nella sua essenza l’esperienza della vita familiare, e come non è possibile vivere l’esperienza professionale prescindendo dalla testimonianza della nostra fede, così non possiamo vivere il nostro essere cantori o animatori liturgici come un semplice ruolo: come se si trattasse di un servizio che non tocca la nostra persona a livello della fede.
Dobbiamo lasciar penetrare la spada della Parola di Dio fino al punto di questo dualismo della nostra persona.
Quando vivessimo il nostro impegno di cantori o animatori liturgici senza preoccuparci di approfondire in esso la nostra fede, il nostro servizio cessa di essere un servizio ecclesiale. È una mondanizzazione della nostra vita, alla quale tutti possiamo esporci; una mondanizzazione che riduce il nostro servizio a ruolo, perché, non incidendo sul nostro modo di porci davanti a Cristo, non permette di trasformare il nostro operare in esperienza e testimonianza intrinsecamente ecclesiali.
Anche la pericope tolta dal libro della Sapienza (7, 7- 11), ci invita a giudicare con la massima serietà l’atteggiamento con il quale viviamo il nostro servizio liturgico. Ciò che conta è l’estetica, in quanto tale, del nostro canto o della nostra ritualizzazione del mistero di Cristo. L’autore sacro ci ricorda, infatti, che la sapienza con la quale componiamo le nostre azioni è preferibile ad ogni altro valore: «preferii (la Sapienza) a scettri e troni. Stimai un nulla la ricchezza al confronto della sapienza, perché tutto l’oro al suo confronto è solo un pò di sabbia. L’amai più della salute e bellezza, preferii il suo possesso alla stessa luce».
Nel linguaggio biblico, la sapienza non coincide con la semplice saggezza umana. Consiste nella capacità di usare e possedere, con l’aiuto dello Spirito Santo, tutte le cose, mettendole al servizio di Dio e della Chiesa. La sapienza cristiana è l’esercizio della propria funzione non come ruolo, ma come luogo e fonte della nostra santificazione personale, a testimonianza per la santificazione degli altri fedeli. Dobbiamo cercare la nostra santificazione vivendo il nostro ministero o il nostro servizio come atto ecclesiale di cui Cristo è e rimane in ogni caso il primo protagonista. «Non sono io che vivo, esclama S. Paolo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).
Solo questi atti edificano la Chiesa. Il primo ed unico servizio che dobbiamo fare per la Chiesa è la nostra fede. Il servizio non consiste in ciò che facciamo, ma nel modo con il quale lo compiamo, la fede con cui lo viviamo. Al di fuori di questa dinamica e persuasione il nostro servizio si risolve in un attivismo senza significato ed efficacia ecclesiali.
L’assunzione di un servizio coinvolge perciò tutta la nostra vita. Non esiste nessuna preoccupazione estetica e nessun compiacimento personale, nessun ruolo, per quanto compiuto diligentemente, che possa edificare. la comunità ecclesiale, in quanto Popolo di Dio e Corpo Mistico di Cristo. Vale il principio di S. Benedetto, «Hoc est quod dicitur». Dobbiamo vivere i nostri compiti per quello che sono, rispettandone la verità intrinseca. Questa è la sapienza cristiana. Dobbiamo invocarla continuamente dallo Spirito Santo come dono, senza mai scoraggiarci di fronte alle nostre inadempienze e distrazioni.
Cari fratelli e sorelle nel Signore. Sono tante le conclusioni concrete che possiamo declinare da queste considerazioni, suggeriteci dalla lettera agli Ebrei e dal libro della Sapienza. Ognuno di noi pensi a se stesso e si lasci penetrare da questa verità fin dentro il punto di divisione della sua anima.
Se la partecipazione al coro e la collaborazione allo svolgimento del rito liturgico, sotto qualsiasi forma, non diventa un gesto e un momento nel quale mettiamo in discussione la nostra anima, nella profondità del nostro essere, snaturiamo il nostro impegno liturgico a semplice ruolo. Un ruolo che diventa facilmente spunto di dissidi, di durezze, di incomprensioni, di potere, di ricerca di noi stessi, di piccoli ricatti, di arroganza e affermazione della nostra ragione umana, di mancanza di obbedienza, non solo alle persone ma alla situazione in cui siamo chiamate ad operare.
Al testo del libro della Sapienza, in cui si afferma che tutto l’oro di questo mondo e tutta la bellezza, nei confronti della verità dei nostri atti è solo un po’ di sabbia, fa eco un altro testo: quello del tredicesimo capitolo della prima lettera ai Corinzi, i cui S. Paolo ci ricorda che se anche parlassimo tutte le lingue, quelle degli uomini e quelle degli angeli, o cantassimo come gli angeli dell’Apocalisse, o distribuissimo tutti i nostri averi ai poveri, o bruciassimo i nostri corpi per Lui, ma non avessimo la carità, non compissimo cioè un servizio ecclesiale fondato sulla verità ecclesiale della nostra azione, tutto questo, non solo non ci servirebbe a nulla, ma non servirebbe a nessuno. La nostra vita e la liturgia diventerebbero semplice ritualizzazione di un processo di azioni umane mondanizzate, senza nessuna efficacia in ordine all’edificazione della Chiesa.
Non ci ha forse dato il Signore come compito supremo quello di edificare la sua Chiesa? «Andate e amministrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28, 19).
La vocazione di cui siete investiti, cari fratelli e sorelle, non è quella di fare delle cose, ma di edificare la Chiesa, cambiando prima di tutto voi stessi per acquistare la consapevolezza che la vostra appartenenza alla Chiesa, in Cristo, è la radice della vostra vera identità come soggetti attivi e collaboratori della celebrazione del mistero liturgico.