Discorso di presentazione di Mons. Eugenio Corecco, Vescovo eletto, alla Televisione della Svizzera Italiana. 28 giugno 1986
Vi parlo da questo Monastero di clausura sopra Claro, dove vive una comunità di benedettine. E’ senza dubbio una delle realtà più preziose della nostra Diocesi. Sono salito quassù per prepararmi, perché domani sarò ordinato Vescovo di Lugano; per moltissimi di voi, vostro Vescovo nel senso più stringente del termine.
È una regola antichissima della Chiesa che un Vescovo sia consacrato da tutti i Vescovi delle regioni circostanti, per significare che l’ordinazione di un Vescovo non concerne solo la Chiesa locale, ma tutta la Chiesa universale. Sarà perciò un atto liturgico molto solenne, trasmesso dalla Televisione, posto da tutta la Chiesa diffusa nel mondo. Non saranno presenti solo Vescovi svizzeri, ma anche stranieri. Tutti mi imporranno le mani per esprimere che il Signore e la Chiesa prendono possesso della mia persona.
E un atto liturgico che tocca non solo la mia persona, ma tocca tutti voi cattolici e, indirettamente, secondo rapporti di relazione diversificati, anche i non cattolici e i cittadini non cristiani del nostro Cantone. Questa nuova appartenenza a Cristo e alla Chiesa non implica per una persona solo nuove responsabilità, ma le conferisce anche una grande sicurezza: è perciò in ultima analisi un fatto liberante.
In effetti, una delle aspirazioni più profonde della persona umana è quella di appartenere a qualcuno, su cui poter contare. lo potrò sempre rivolgermi a Cristo e a voi. Voi potrete trovare nella mia persona qualcuno, cui potrete sempre rivolgervi. Attraverso questo rapporto con un Vescovo, avete la garanzia di essere ricollegati, attraverso i secoli, agli apostoli, che hanno visto e toccato Gesù di Nazaret, il Cristo, redentore degli uomini, al quale i cristiani appartengono personalmente già in forza del Battesimo.
Tra le molteplici cose che verranno ufficializzate domani, ve ne sono due che voglio illustrarvi rapidamente.
La prima è il testo, che ho fatto imprimere sulla immagine ricordo, tolto dall’episodio dell’incontro del giovane ricco con Gesù di Nazaret: «Maestro, cosa devo fare per avere la vita eterna, poiché da sempre mi sono sforzato di praticare tutti i comandamenti?». «Allora ti manca una cosa» ha replicato Gesù: «Va, vendi tutto quello che hai e distribuiscilo ai poveri». Questa risposta di Gesù tocca l’essenza stessa del cristianesimo, che non è, come ha fatto osservare Romano Guardini, una religione in cui si aderisce semplicemente ad una dottrina astratta, a un sistema, e si pratica una morale, ma l’incontro con una persona: la persona di Cristo. È un riferimento personale, un appartenere alla sua persona storica, come si appartiene a un padre e a una madre.
Dopo che il giovane se ne fu andato tutto triste, Gesù ribadì: «Non vi è nessuno che abbia abbandonato la sua casa, il suo campo, la moglie, i fratelli, i genitori o i figli per me, che non riceva il centuplo, già in questa vita, e, nel tempo futuro, anche la vita eterna». Questa esperienza di un distacco, che gratifica del centuplo, non è solo per chi è chiamato al sacerdozio o alla vita religiosa, ma è possibile indistintamente per tutti i cristiani. Tutti, per appartenere a Cristo, dobbiamo lasciare qualche cosa. Chi una cosa, chi l’altra, qualcuno magari tutto. Non è possibile appartenere a Cristo assieme a tutte le cose che ingombrano la nostra persona. Abbandonare vuoI dire, come minimo, affermare in tutti i nostri rapporti con cose, situazioni e persone, la priorità di Dio. Nella società moderna retta, come ha osservato il filosofo contemporaneo Erich Fromm, dal principio dell’avere e non da quello dell’essere, non è facile accettare tale priorità. Eppure il distacco, materiale, o almeno interiore, dalle cose, in nome di Cristo, non ci impoverisce, ma ci arricchisce.
Il testo del Vangelo garantisce che Cristo ci rifonde il centuplo già in questa vita. Ciò significa che l’esperienza cristiana non mortifica la nostra persona, ma la esalta in tutte le sue potenzialità espressive, la rende ancora più profondamente umana. Ognuno di noi può fare questa esperienza.
Il secondo fatto ufficializzato con la mia ordinazione è lo stemma episcopale che comprende: un motto e due segni araldici.
Il motto dice: «In omnibus aequitas quae est Deus». Traducibile approssimativamente come «l’equità in tutto, perché è Dio». Sono convinto, con tutta la tradizione cristiana che ha prodotto questa formula già nel 1200, che l’equità è una forma superiore della giustizia.
Anzi, coincide con la giustizia di Dio. La giustizia di Dio, nella sua essenza, è misericordia e perdono. Non ha come simbolo la bilancia umana, dove si pesa meticolosamente il dare e l’avere, ma ha come simbolo la croce
che è l’espressione della redenzione e del perdono di Dio. Questa realtà noi dobbiamo renderla presente nella storia attraverso il perdono che ci concediamo vicendevolmente.
Gli altri due elementi dello stemma sono la graticola, simbolo di San Lorenzo, patrono della Chiesa Cattedrale di Lugano, e l’immagine di San Gottardo.
La graticola su cui è stato bruciato San Lorenzo ci richiama l’attualità drammatica del martirio. Il martirio non è un fenomeno esclusivo della Chiesa primitiva, dilaga attualmente in tutta la Chiesa d’oriente e d’occidente. Le persone che sono torturate o soppresse a causa della loro fede in Cristo sono innumerevoli nella cristianità moderna. Non possiamo, tuttavia, non stabilire il nesso che questi martiri hanno con tutti quegli uomini e quelle donne, ancora più numerosi, che subiscono le peggiori torture e la morte in difesa della propria e dell’altrui libertà, della propria concezione filosofica e politica. In effetti Papa Giovanni Paolo Il ha affermato proprio qui in Svizzera durante la sua visita pastorale che viviamo in una civiltà della morte. La nostra grande distrazione rispetto a questi fatti orrendi, appena interrotta da qualche sussulto di coscienza di fronte a singoli fatti particolarmente gravi, è il sintomo che stiamo impoverendo nello spirito; una povertà spirituale mal compensata dalla nostra ricchezza materiale.
La scelta di San Gottardo come mio simbolo personale nello stemma, non è dovuto solo ad un fremito vallerano. Il colle di San Gottardo è il simbolo di tutto il Ticino, della nostra unità etnica e culturale, della nostra italianità. Ha determinato la storia di tutte le genti che ci hanno preceduto in queste vallate e nelle quali si riconosce ogni ticinese. Prima abate di Baviera e poi Vescovo di Hildesheim all’inizio dell’undicesimo secolo, San Gottardo fu un grande precursore della cultura cristiana europea. Ha fondato in quell’epoca una scuola di musica e di pittura e nei brevi anni del suo episcopato ha costruito ben trenta chiese. Per questo l’iconografia lo rappresenta sovente con una chiesa in mano. Non saranno le chiese quelle che mancano oggi, ma un Vescovo è costruttore della Chiesa di Cristo, per cui l’ho scelto come patrono. Il culto di San Gottardo è diffuso in tutta Europa, dal nord della Germania a Milano, dove esistono due chiese in suo onore; dalla Lituania alla Spagna. E’ diventato il patrono della via delle genti. Ci ammonisce perciò di non chiuderci su noi stessi e di accogliere lo straniero, perché secondo il diritto delle genti i passi, come i mari, appartengono a tutti. San Gottardo ci ricorda che la direttrice sud-nord che nel passato fu la dorsale culturale dell’unità cristiana d’Europa, ha assunto oggi un significato nuovo, ancora più vasto. E diventata la direttrice economica nord-sud con l’impegno per tutti i paesi ricchi di aiutare quelli più poveri in vista dell’unità e della pace del mondo. La figura di San Gottardo è perciò carica di un simbolismo che dobbiamo riscoprire, ed oggi abbiamo più che mai bisogno di simboli, se non vogliamo soffocare nei nostri piccoli orizzonti.
Ecco, vi ho detto alcune cose in cui mi identifico; se domani qualcuno di voi mi ricorderà al Signore, gliene sarò infinitamente grato.