Omelia la giornata ecumenica. Lugano, 21 gennaio 1990
Quasi al termine della sua missione apostolica e probabilmente durante la prima prigionia romana, l’Apostolo delle Genti ha redatto, o fatto redigere da un discepolo, la Lettera agli Efesini, che forse, in realtà, fu indirizzata a più comunità dell’Asia minore.
Intuendo che la fine della sua missione apostolica era vicina, ha voluto sviluppare in forma più sistematica e completa il tema della sovranità universale di Cristo, già esposta nella Lettera ai Colossesi.
Quasi come in un testamento finale San Paolo ha sintetizzato il vertice del suo pensiero sul disegno divino della salvezza, in cui tutti, indistintamente ebrei e pagani, sono salvati in Cristo, mediante l’inserimento nel suo corpo, che è la Chiesa.
La chiave di volta di questa Lettera è quella della vocazione di tutti gli uomini in Cristo. In Lui, il Cristo, Figlio di Dio, siamo stati scelti dal Padre, prima della creazione del mondo (cfr. Ef 1, 4), perché facessimo parte di quell’edificio che è la Chiesa (cfr. Ef 3, 21), che ha per fondamento gli Apostoli e i Profeti, mentre Cristo stesso è la pietra angolare (cfr. Ef 2, 20).Nel contesto di questo insegnamento dobbiamo anche noi ascoltare il grido di San Paolo, in catene per amore di Cristo, rivolto ai cristiani da lui stesso generati alla fede, grido con il quale propone a tutti il criterio supremo della vita cristiana: vi invito a condurre una vita degna della vocazione alla quale siete stati chiamati.
La consapevolezza di essere stati chiamati da Dio è il presupposto e il fondamento imprescindibile di ogni esperienza cristiana. Un’autentica vita cristiana è possibile solo se possediamo la coscienza che il valore della vitacoincide con la risposta data da ognuno alla propria vocazione personale. La santità cristiana nasce dalla corrispondenza della nostra vita con la chiamata che ci è stata rivolta. Un principio totalmente estraneo alla cultura moderna che ha dichiarato l’uomo artefice autonomo della propria vita e del proprio destino personale e collettivo.
II capitolo 17 di Giovanni ci aiuta a capire fino in fondo questo elemento fondante e misterioso del significato della nostra vita. Nella preghiera dell’ultima cena Cristo afferma che il Padre ci ha consegnati a Lui; «erano tuoi e [tu] li hai dati a me» (17, 6). Apparteniamo al Padre che, nella creazione, ci ha chiamati alla vita; ma il Padre ci ha affidati al Figlio: «Erano tuoi e li hai dati a me».
La coscienza di appart e n e re al Padre, in forza della sua creazione, non basta per conferire un significato compiuto alla nostra vita e al nostro destino. Il Figlio è stato mandato nel mondo per rivelare all’uomo che il Padre ha consegnato tutta l’umanità a Cristo, nel quale, del resto, tutti siamo già stati antecedentemente creati. Il Padre, infatti, ci ha scelti in Cristo, prima della creazione stessa del mondo.
La salvezza implica la coscienza di questo fatto originario: quello della nostra appartenenza al Padre attraverso il Figlio, «tutto è stato fatto per mezzo di lui senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1, 3). Il Figlio, infatti, è venuto nel mondo proprio per rivelarci che il Padre ci ha consegnati a Lui, fin dall’inizio della nostra esistenza. Con la sua incarnazione Cristo ha rivelato questo mistero ed è per questa ragione che nell’ultima cena dice al Padre: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo… glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te, prima che il mondo fosse… tutto le cose mie sono tue… e io sono glorificato in loro» (Gv 17,3).
La vocazione compiuta dell’uomo è perciò di appartenere, non solo al Padre, ma anche al Cristo, per mezzo del quale siamo stati creati: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 1.5.10). La vita eterna sta dunque nel prendere coscienza della nostra appartenenza a Cristo, e noi cristiani abbiamo in comune proprio questa missione: quella di far conoscere agli uomini questo mistero: «Come tu mi hai mandato nel mondo, [così] anch’io li ho mandati nel mondo» (Gv 17, 18). Come il Padre ha mandato il Figlio nel mondo per farci conoscere la nostra originaria elezione in Cristo, così anche noi siamo stati mandati nel mondo da Cristo, per far conoscere a tutti gli uomini la verità totale del nostro destino, quello della nostra appartenenza a Cristo, fin dal momento della nostra creazione.
Condurre una vita degna della vocazione alla quale siamo stati chiamati significa, prima di tutto, condurre una
vita consapevole di questo nostro radicamento in Cristo, precedente dal profilo storico e cronologico la redenzione stessa.
Questa coscienza ci deve aiutare a capire anche le modalità imprescindibili, secondo cui dobbiamo vivere per rimanere inseriti degnamente in questo mistero. Nel testo di Efesini 4, San Paolo, riprendendo il discorso sulla fede, la speranza e la carità, già sviluppato nella Prima Lettera ai Corinzi (cap. 13), ribadisce il fatto che il metodo per vivere la nostra vita in modo degno della nostra vocazione è quello di viverla inserendoci nella dinamica conoscitiva e operativa delle tre virtù teologali: della fede, della speranza e della carità.
Tutte le culture religiose e tutte le filosofie hanno individuato e sistematizzato alcune virtù fondamentali secondo cui l’uomo deve operare per vivere in modo degno la sua esistenza. Lo schema più celebre è quello elaborato dallo stoicismo. Per Seneca l’ideale etico è quello dell’uomo che vive fondandosi sulle quattro virtù cardinali: della giustizia, della fortezza, della prudenza e della temperanza.
Anche se questo prodotto della filosofia naturale è stato recepito dal cristianesimo, non rappresenta tuttavia la base per una vita cristiana autentica. Il cristiano è chiamato a vivere non secondo le quattro virtù cardinali, ma secondo le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità: virtù infuse da Dio e per cui si invera nell’uomo il dono della redenzione. San Paolo ci rivela nella Lettera agli Efesini che siamo stati chiamati a credere in un solo Signore, a ricevere un solo Battesimo e a pensare secondo una sola fede; siamo stati chiamati ad una sola speranza ed a conservare la nostra unità nella carità. «Esistono queste tre cose», afferma nella Prima Lettera ai Corinti, «la fede, la speranza e la carità, ma la più grande di esse è la carità» (13, 13).
Se noi cristiani viviamo prescindendo dalla pratica di queste virtù teologali, nelle quali possono essere riassunte tutte le virtù umane, così come nella carità si riassumono tutti i dieci Comandamenti, non viviamo in modo degno della nostra vocazione. Come cristiani non possiamo più retrocedere al livello di una vita vissuta con la pratica delle virtù naturali, perché invece di vivere inseriti nel mistero soprannaturale della nostra vocazione, rimarremmo imbrigliati nella dinamica dell’uomo carnale, cioè dell’uomo che vive nel mondo secondo i criteri del mondo.
La preghiera di Gesù nell’ultima cena, riferita dal cap.
17 di S. Giovanni, affronta esattamente questo problema. «Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che [tu o Padre] mi hai dato, perché sono tuoi… Io ho dato a loro la tua Parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo… Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi, [infatti], non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità». (cfr. 17,9.14.15.).
La verità nella quale Cristo domanda al Padre di consacrarci è di vivere, non secondo i criteri del mondo, cioè della nostra natura umana, ma secondo i criteri soprannaturali della fede, della speranza e della carità.
Ogni qualvolta i cristiani hanno rinunciato a vivere secondo la logica specifica delle virtù teologali, hanno provocato una rottura del tessuto ecclesiale. Le spaccature all’interno della cristianità hanno sempre avuto origine nella mondanizzazione e nella secolarizzazione della Chiesa di Cristo.
Il peccato del cristiano e il nostro peccato personale hanno sempre origine in una retrocessione dal livello esistenziale specifico del cristiano, della fede, della speranza e della carità, al livello di una vita vissuta secondo i criteri di una filosofia della sola ragione umana naturale; di una vita, cioè, non redenta; di una vita vissuta secondo i criteri del mondo.
L’eresia, infatti, è sempre il frutto di una mondanizzazione della fede o della speranza; nasce quando i cristiani vivono in modo subordinato rispetto alle posizioni culturali e filosofiche del mondo, oppure quando la speranza cessa di essere l’attesa, nella certezza, che la storia del mondo si realizzi all’interno della storia della salvezza, per trasformarsi in un tentativo umano di determinare il corso della storia, a partire da progetti messianici fondati sulla capacità della ragione umana di guidare scientificamente la storia.
Lo scisma nasce quando i cristiani invece di cercare e conservare l’unità della Chiesa e del mondo nella carità, si lasciano guidare ideologicamente da una concezione mondana dell’unità e del potere.
Se la rottura dell’unità dei cristiani ha sempre la sua radice ultima in una mondanizzazione dell’esperienza ecclesiale, dobbiamo essere consapevoli, cari fratelli e sorelle nel S i g n o re, che anche la ricostituzione di questa unità perduta è possibile solo attraverso una conversione personale e comunitaria ad una vita sempre più profondamente vissuta secondo la dinamica specifica delle virtù teologali, che determinano esistenzialmente l’identità del cristiano.
Prima della sua glorificazione, attraverso la morte e la Risurrezione, Cristo ha pregato il Padre di consacrare i suoi discepoli, e con essi tutti noi, nella verità. «[Padre], per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (17, 19). La verità, in cui Cristo ha voluto porci e consacrarci con la sua morte e Risurrezione, non abbraccia solo l’aspetto intellettuale della fede; ma implica esistenzialmente tutti gli aspetti e tutte le dimensioni della vita. La verità si realizza totalmente solo quando i cristiani vivono in modo degno e globale la vocazione, alla quale sono stati chiamati. Ciò implica che il cristiano creda sempre più profondamente alla necessità di non vivere secondo i criteri del mondo, ma secondo la logica della sequela di Cristo.
Ogni nostro incontro ecumenico, cari fratelli e sorelle nel Signore, è efficace nella misura in cui ci aiutiamo a capire, con sempre maggiore trasparenza e convinzione, che l’unica strada sicura per ricomporre tra di noi l’unità, che è il valore supremo della Redenzione, è quella della nostra rispettiva conversione ad una vita di fede, di speranza e di carità, all’interno della nostra rispettiva tradizione ecclesiale.
In questo si avvera il principio fondamentale del dialogo ecumenico, che afferma la necessità per ogni Chiesa e confessione di essere prima di tutto impegnata in una profonda purificazione e in un profondo processo di conversione di se stessa.
L’emergere in questo momento all’appuntamento con la storia dei popoli dell’Est europeo, con la profondissima testimonianza di fede delle loro Chiese, sopravvissute per intere generazioni ad un regime di persecuzione e di catacombe, non può non scuotere la nostra coscienza cristiana ed ecclesiale fin nelle sue fondamenta.
Queste Chiese sono un dono che il Signore fa alle nostre Chiese occidentali, perché sappiano riscoprire la necessità di vivere in modo più degno la vocazione alla quale sono state chiamate.