2. Annunciate il Vangelo

Lettera pastorale della Quaresima 1989

1. Vivere il dono della fede
Nella prima lettera pastorale Siate forti nella fede ho sottolineato l’urgenza, per tutti noi, di riscoprire la nostra fede, non solo a livello intellettuale, ma soprattutto psicologico e affettivo.
Il divario che esiste in noi tra la fede e la vita trova la sua espressione nei nostri cedimenti di fronte alla mentalità della cultura dominante e nella nostra sudditanza al modo comune di pensare della società, diffuso dai mezzi delle comunicazioni sociali.
Poiché il senso religioso e la nostra fede cristiana sono diventati deboli, non sappiamo più come utilizzare le nozioni centrali della nostra fede nel mistero della Trinità, rivelatoci da Cristo, per affrontare i problemi fondamentali dell’esistenza. Esse rimangono marginali rispetto agli obiettivi reali della nostra esistenza.
Siamo forti nella fede quando raggiungiamo la consapevolezza che nella vita il compito fondamentale è quello di vivere secondo la logica della fede, che ci è stata data, cercando di farne il fulcro di tutta la nostra esistenza, senza peraltro lasciarci prendere dalla paura di dover rinunciare alla pienezza della dimensione umana, che la vita ci offre .
Infatti, tutto è necessario ed importante di ciò che la vita domanda o propone di fare: la famiglia, il lavoro, la professione, lo svago, i soldi, la casa: ma l’essenziale è riuscire a vivere tutte queste realtà in unità profonda con Dio, per salvare il loro vero significato: «Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio».13
Il primo compito di chi voglia essere cristiano, il primo compito, perciò, della nostra vita, quello che ha priorità su tutti gli altri, sta nel vivere la nostra esistenza secondo la logica della nostra appartenenza a Cristo nella fede.
S. Ilario di Poitiers ha scritto, nel IV secolo, una frase luminosa: «la vita non ci viene data solamente per morire ». Non basta, egli dice, il possesso, né il godimento tranquillo della vita stessa. Non possiamo contentarci dei beni e della sicurezza, altrimenti obbediremmo solo al nostro ventre e alla nostra pigrizia.14
L’antica risposta del catechismo alla domanda «perché Dio mi ha creato?» è valida anche oggi: «per conoscerlo, amarlo, servirlo in questa vita e per goderlo per sempre in Paradiso».15 Infatti, il vertice della vita, nella sua duplice espressione terrena e eterna, è raggiunto solo se amiamo Dio per quello che è: «Questa è la vita eterna: che cono- scano Te unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo».16 La vita terrena è vissuta realmente solo se riusciamo a mobilitare tutte le nostre energie verso questa finalità; la fede è perciò principio generatore di una vita intensamente vissuta. Conferisce alla stessa uno scopo più alto ed esaltante di quello che ad essa può imprimere qualsiasi finalità particolare e contingente.
Il dono inestimabile della vita, ricevuta per un atto d’amore assolutamente gratuito di Dio, è stato fatto individualmente a ciascuno di noi, affinché entriamo in comunicazione con Dio e viviamo con Lui un destino che perdura anche dopo la morte corporale. Proprio in questo destino consiste il valore inestimabile del dono della vita.
La conoscenza e l’adesione personale a Dio garantisce tutto il suo significato al nostro esistere, al nostro diventare adulti, al nostro amore interpersonale, al nostro educare i figli, al nostro lavoro, ai nostri progetti, alla nostra morte temporale.
L’emergere alla vita dipende da una scelta che Dio fa personalmente nei confronti di ciascuno di noi. È la chiamata, o vocazione, a vivere l’esistenza come itinerario destinato a sfociare oltre i limiti terreni del tempo e dello spazio, nel mistero eterno di Dio. È il mistero della Trinità, ad immagine e somiglianza del quale, per l’appunto, ognuno di noi è stato creato.
La fede è la capacità di conoscere tutta la verità di questo nostro destino, aderendo a Cristo che ce lo rivela, per poterlo raggiungere con certezza. «La vita non ci viene data solamente per morire». La sola ragione non è in grado di prospettarci tutta la dimensione e tutta la verità del destino al quale siamo chiamati.
Certo, Dio trova il modo, ben al di là dell’immaginazione di cui è capace la nostra misericordia, di salvare anche coloro che, per ragione indipendenti dalla loro volontà, non entrano in contatto con il Figlio di Dio fatto uomo. Per chi nella vita ha incontrato Cristo, però, questa salvezza dipende dalla risposta personale che riesce a dare a Dio per la vocazione ricevuta.
La salvezza, cioè il poter vivere ogni aspetto della nostra vicenda terrena senza spaccature interiori e il poter conoscere Dio e il senso del nostro destino personale nella visione eterna della Trinità, dipende dalla nostra adesione a Cristo come Redentore. La salvezza, dice infatti, San Paolo, «viene dalla fede».17
Vivere questa fede ed essere forti in essa, superando ogni tentazione di vanificarla, sostituendo le forme di sapienza solamente umana, è perciò il primo compito della nostra esistenza. Tutti gli altri compiti particolari di cui la vita ci investe sono ad esso subordinati. Ognuno di noi, cari fratelli e sorelle nel Signore, deve rendersi conto di avere già incontrato Gesù Cristo nella sua esistenza. Ognuno di noi ha ricevuto, nel Battesimo, il dono della fede.
La fede è quella conoscenza intellettuale, psicologica ed affettiva che ci è stata infusa, come dono, dallo Spirito Santo nel Battesimo: «Ora voi», scrive San Giovanni, «avete l’unzione ricevuta dal Santo Spirito e tutti avete la scienza»,18 cioè la conoscenza, in germe, del vostro destino in Dio. La nostra fede battesimale, cioè quella conoscenza conferitaci con l’unzione o consacrazione sacramentale, stabilisce in noi il contatto con la realtà soprannaturale di Dio. Ci mette in contatto con Dio e con il nostro destino in tutta la loro verità.
«E quanto a voi» continua San Giovanni «l’unzione che avete ricevuto da Lui (dallo Spirito Santo) rimane in voi, e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri. Ma come la sua unzione (cioè la fede conferita con la consacrazione battesimale) vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in Lui».19 La fede rimane in noi e dobbiamo stare saldi in lei, perché ci fa capire e ci ammaestra su ogni cosa.
Si tratta perciò, nella vita, di far crescere, a livello di conoscenza e di adesione esistenziale, il seme della fede depositato dallo Spirito Santo nel nostro cuore, resistendo all’autorità della pura ragione umana che, nella cultura moderna, cerca di far valere, quale unica categoria valida per l’esistenza e la convivenza sociale, quella della certezza scientifica.

2. La fede, per sua essenza, richiede di essere trasmessa
Se il dono della vita non ci è stato dato solamente per morire, non ci è stato dato neppure solamente per essere consumato a titolo personale.
La vita ci è stata donata per essere trasmessa agli altri nei nostri figli. La stessa logica regge il dono della fede, poiché la fede non ci è stata conferita per una finalità solo personale. Ci è stata data per essere annunciata agli altri, man mano che essa si sviluppa in noi in modo articolato ed organico.
L’annuncio della fede agli altri è essenziale alla fede stessa. È proprio dell’essenza della fede, come della vita, l’essere trasmessa.
San Paolo ha stabilito questo assioma: la fede dipende dalla predicazione. Nella lettera ai romani si pone, infatti, questa domanda: «Come potranno credere senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? Ora la fede dipende dalla predicazione» .20
Perché uno possa accedere al Battesimo ed alla fede ha bisogno di un annuncio: quello promesso dai genitori quando fanno battezzare il loro bambino; oppure quello diretto ed esplicito fatto ad un adulto da qualsiasi persona. Un annuncio che può avere la funzione di primo annuncio della fede, oppure quella di far riscoprire una fede già ricevuta.
È esattamente su questo punto, cari fratelli cristiani, che dobbiamo confrontarci quest’anno, dopo aver meditato, nella lettera pastorale Siate forti nella fede, sulla natura stessa della fede e sul nostro dovere di viverla quale impegno prioritario della vita.
La fede in Cristo è stata data a ciascuno di noi come dono dello Spirito Santo, assieme al mandato di comunicarla agli altri.
In realtà, la fede è realmente vissuta da una persona solamente nella misura in cui essa sente dentro di sé l’urgenza e la passione di comunicarla agli altri: di fare agli altri l’annuncio della sua adesione a Cristo. La fede diventa così l’oggetto del suo rapporto con le altre persone. La fede è forte, solo quando mobilita una persona fino al punto di diventare contenuto della sua conversazione e del suo rapporto con gli altri.
L’uomo tende naturalmente a comunicare agli altri se stesso, i suoi pensieri, le sue opinioni, i suoi desideri, le sue gioie e le sue angosce. L’uomo è essenzialmente bisognoso di relazione con le altre persone.
Se la fede non entra, come contenuto di questa trama di rapporti della persona, significa che il soggetto non la possiede quale energia e forza spirituale e che essa non gli appartiene come elemento costitutivo della sua personalità.
La necessità di trasmettere la fede agli altri deriva, prima di tutto, dal fatto che essa implica un’adesione a tutto il mistero della persona di Cristo. È il mistero del Figlio di Dio venuto nel mondo e nella storia per rivelare all’uomo l’esistenza, non conoscibile per pura ragione, del Dio personale Uno e Trino.
Il Figlio di Dio, infatti, è colui che è stato mandato dal Padre per la salvezza del mondo. Non è venuto da se stesso, ma è stato mandato dal Padre: «Non sono venuto infatti da me stesso, ma Lui (il Padre) mi ha mandato».21
«Le opere che faccio mi rendono testimonianza che il Padre mi ha mandato».22 «Devo annunziare la buona novella del regno di Dio, per questo sono stato mandato23. Queste affermazioni di Cristo riassumono quanto aveva già proclamato a Nazareth, quando era entrato la prima volta nella sinagoga, ed aveva applicato a sé la profezia di Isaia:24«Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio».25

 3. Il mandato di annunciare la fede
Questo stesso annuncio della salvezza dell’uomo, del tempo cioè della Nuova Alleanza stabilita da Dio con gli uomini, portato da Gesù nel mondo per mandato del Padre, deve essere riproposto pazientemente a tutti gli uomini nel progredire del tempo e della storia.
Gesù è stato il primo ad annunciare la buona notizia (espressione che traduce in italiano il termine greco «evangelo »); è stato il primo evangelizzatore del mondo per incarico del Padre, ma ha mandato noi, dopo di lui, a fare lo stesso annuncio: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi»;26 «andate perciò a proclamare questa buona novella in tutto il mondo»27; «andate e fate discepoli in tutte le nazioni»28.
Questo comando dato da Cristo agli Apostoli vale anche per noi, per tutti noi cristiani, chierici e laici, sia pure secondo modalità diverse.  Se tutti abbiamo incontrato Cristo nella vita e possediamo perciò una vocazione irreversibile a vivere nella fede, tutti abbiamo ricevuto anche la vocazione ed il mandato di annunciare agli altri la salvezza da noi incontrata.
L’apostolo Giovanni ci ricorda questo fatto con la vibrazione tipica delle sue parole: «Colui che era fin dal principio, colui che noi abbiamo sentito, colui che abbiamo veduto con i nostri occhi, colui che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato, cioè il Verbo della vita eterna, che era presso il Padre e che si è manifestato a noi… lo annunzio anche a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi»29. Come Giovanni evangelista, anche noi abbiamo ricevuto da Cristo il mandato di trasmettere la nostra fede «affinché anche gli altri abbiano comunione con noi».
L’annuncio della fede agli altri non incombe solo ai vescovi, ai presbiteri, ai religiosi, incombe a tutti i cristiani indistintamente, a tutti quelli che credono; incombe, perciò, con la stessa urgenza, anche a voi laici che credete in Gesù Cristo.
Gli Apostoli e i loro successori i Vescovi, assieme ai presbiteri e ai diaconi, hanno ricevuto questo mandato a livello ministeriale, attraverso uno specifico sacramento, quello dell’ordine sacro, che li ha resi continuatori e garanti, nella storia, della missione stessa di Cristo.
Ma anche voi fedeli laici, indistintamente uomini e donne, sia che viviate nel mondo, sia che abbiate abbracciato la vita religiosa, tutti accomunati ai ministri ordinati dal Concilio Vaticano II a costituire nell’unità il nuovo Popolo di Dio, che è la Chiesa, siete depositari di questo mandato, grazie al sacramento del battesimo che conferisce a tutti i fedeli un sacerdozio comune.
Il battesimo, se apre a tutti i fedeli, laici e chierici, le porte della Chiesa come realtà sacramentale visibile, conferisce anche a voi laici il mandato di annunciare agli altri, nel rispetto e nella sequela del magistero del Papa e dei Vescovi, la «buona novella» della salvezza universale.
La vostra partecipazione alla missione della Chiesa non può ridursi ad una assunzione attivistica di responsabilità nelle comunità: deve diventare, come dice la recentissima Esortazione Apostolica Post-Sinodale Christifideles laici di Papa Giovanni Paolo II, «slancio e azione missionaria verso quanti ancora non credono, o non vivono più la fede ricevuta nel battesimo».30
Tutte e due questi sacramenti, il battesimo e l’ordine sacro, conferiscono una partecipazione, sia pure differenziata, al Mistero della persona di Cristo. La differenza in questa partecipazione non sta nell’urgenza, o nella necessità del mandato di annunciare il Vangelo, bensì nella sua natura; nel fatto, cioè, che la responsabilità della garanzia della autenticità è affidata solo al sacerdozio ministeriale, cioè ai Pastori.
«Guai a me se non annunciassi il vangelo» ha esclamato San Paolo31. Guai a noi fedeli se non annunciassimo il vangelo. La nostra fede sarebbe debole e non sarebbe del tutto vera. Non saremmo pienamente consapevoli, né di che cosa il nostro incontro con Cristo sia stato per la nostra vita, né di cosa sia la salvezza che abbiamo ricevuto.
Se tutti voi laici, anche quelli che vivono nel mondo, siete costituiti responsabili della trasmissione della fede, con la parola di testimonianza, le opere e la vita, su di voi incombe una responsabilità ancora più grande quando ricevete il sacramento del matrimonio.
La famiglia infatti ha una particolare valenza ecclesiale, tanto che il Concilio Vaticano II l’ha paragonata ad una «Chiesa domestica».32 In essa deve avvenire il primo annuncio della fede ai figli. È questa la ragione per cui la famiglia è sempre stata considerata quale «cellula portante della cultura cristiana».33
Senza l’annuncio della fede fatto in seno alla famiglia, la Chiesa incontra difficoltà sempre più gravi nell’annunciare la fede nella società contemporanea, perché trova un ambiente culturale sempre più estraneo, o avverso, alla verità che Dio ha rivelato.

4. Possedere la consapevolezza del mandato
Le condizioni imprescindibili perché anche in noi possa nascere l’urgenza e lo slancio di comunicare agli altri la nostra fede sono due: possedere la coscienza di essere investiti di questa missione da Cristo e dalla Chiesa, e possedere la coscienza di aver ricevuto in dono una verità da comunicare.  È prima di tutto fondamentale essere consapevoli del fatto che l’annuncio agli altri di ciò che crediamo nella fede è parte essenziale della fede stessa. trasmettere agli altri; una verità che non vale solo per noi, ma per tutti.
Annunciare la buona notizia, cioè la salvezza da cui siamo stati investiti nella fede, non è una scelta che può dipendere dalla nostra voglia personale, come se dipendesse solo dalla propria volontà e come se si trattasse di annunciare un evento solo a nome proprio.
La fede dobbiamo trasmetterla agli altri, ai nostri figli, alle persone che incontriamo, a quelle che amiamo più di tutte, al marito e alla moglie; a quelli in cui la vita, la professione, i rapporti sociali, gli eventi necessari o casuali ci fanno imbattere e mettono nell’orizzonte del nostro destino umano, perché il Signore Gesù ci ha investiti di questo mandato. Non lo facciamo perciò in nome proprio, ma in forza del mandato che abbiamo ricevuto, indipendentemente dal nostro statuto ecclesiale, dall’essere ministri consacrati o laici.
Quando non avessimo la consapevolezza di questo mandato, o quando l’avessimo perduta, il nostro annuncio diventa immediatamente velleitario, inconsistente o ideologico; diventa facilmente strumento per dominare sugli altri, prevalendoci di qualche cosa che crediamo di possedere.
Evero, cari fratelli e sorelle nel Signore, che l’uomo moderno, come ha scritto Papa Paolo VI nella sua Enciclica Evangelii nuntiandi, «è sazio di discorsi e si mostra spesso stanco di ascoltare»; è vero che è immunizzato contro la parola e che taluni affermano che «l’uomo moderno ha superato la civiltà della parola, ormai inefficace ed inutile, e vive oggi nella civiltà della immagine … »34, ma ciò non diminuisce la forza permanente della parola e non ci deve far perdere la fiducia in essa.
L’assioma stabilito da San Paolo è sempre valido anche oggi: «la fede dipende dalla predicazione», cioè dall’«annuncio orale». È la Parola di Dio ascoltata che porta a credere e noi dobbiamo trasmettere questa Parola con la nostra parola e con la nostra testimonianza.
Tutti abbiamo perciò ricevuto, originariamente, la vocazione di essere missionari. Quando parliamo di missione non dobbiamo pensare immediatamente all’America Latina, all’Africa o all’Asia; dobbiamo pensare a quella cerchia di persone che affolla la nostra vita quotidiana e che fatica a mantenere la fede in Cristo, oppure l’ha già persa.
Questo impegno di diffondere la nostra fede attorno a noi fa parte della nostra identità cristiana. È un fatto al quale dobbiamo convertirci se vogliamo vivere in profondità, e con verità, la nostra fede. Assumere una posizione di apertura e di responsabilità verso gli altri, così da sentirci autorizzati a comunicare loro ciò che crediamo, è elemento fondamentale della nostra conversione personale.
La fede non comunicata non è vera fede e non ci salva; non raggiunge la pienezza del suo significato salvifico nel nostro cuore umano. La fede è vera, invece, quando si trasforma in testimonianza, provoca l’ammirazione e la conversione, si fa predicazione ed annuncio della buona novella.35
Proprio perché non si tratta di imporre una verità a nessuno, l’annuncio non è mai una violazione della libertà personale degli altri, ma è piuttosto un omaggio a questa libertà della persona, alla quale si annuncia e si propone una scelta, un’adesione.36
Papa Paolo VI, rispondendo all’obiezione spesso circolante nell’opinione moderna, che la missione, cioè l’annuncio, costituisce un attentato alla libertà di coscienza, si è giustamente chiesto: «È dunque un crimine contro la libertà altrui proclamare nella gioia una buona novella che si è appresa per misericordia di Dio?». Perché solo la menzogna è l’errore, la degradazione e la pornografia avrebbero diritto di essere proposti e spesso imposti dai mass-media?37
Questo modo rispettoso di proporre Gesù Cristo come redentore dell’uomo, oltre ad essere un nostro diritto e un nostro dovere, è un diritto dei nostri fratelli cristiani e non. Essi hanno il diritto di ricevere il vangelo.
Il vero problema è solo quello di sapere se noi, per negligenza, per ignoranza, per paura, per rispetto umano, per quella vergogna che fa «arrossire il vangelo»,38 o, per falsa ideologia, trascuriamo di annunciarlo, perché ciò significa tradire il mandato conferitoci da Dio.
Se non abbiamo il coraggio di testimoniare agli altri la nostra fede è perché abbiamo perso la consapevolezza del dono ricevuto, la coscienza della nostra identità cristiana e il senso dell’amore per gli altri.
Il segno più sicuro, infatti, del bene, che dovremmo volere alle persone, sta nella cura di comunicare loro la verità di cui siamo stati gratificati da Dio nella fede39. L’espressione più nobile della nostra carità verso i fratelli è quella di illuminarli con la conoscenza della verità che salva noi e loro.
Ogni rapporto, che un cristiano intrattiene con un’altra persona, per essere vero fino in fondo non deve mortificare in noi la dinamica dell’essere testimoni della verità di Cristo, con le opere e con la parola.
Se la società moderna sta perdendo la coscienza della propria origine cristiana, ciò è dovuto in larga misura al fatto che la maggior parte di noi ignora il mandato ricevuto da Cristo di essere Suoi testimoni nel mondo. Se la società si è scristianizzata, cedendo all’inevitabile impulso della secolarizzazione, è perché la nostra fede, da molto tempo, è diventata muta, incapace di esprimersi nella testimonianza e di coinvolgere gli altri.

5. È richiesta la certezza di una verità da trasmettere
Il secondo presupposto per riscoprire l’urgenza di confessare agli altri la nostra fede è quello di essere consapevoli di essere in possesso di una verità da offrire a chi ancora non la possiede, o a chi ha dimenticato di avere incontrato Cristo nel battesimo.
Noi cristiani dobbiamo sentirci «debitori del vangelo» verso tutti, così come ha scritto l’Apostolo Paolo.40
Ma se non possediamo la coscienza della verità, che ci è stata rivelata nella fede, non avremo il coraggio di aprirci, non matureremo in noi, sacerdoti, religiosi e laici, il senso della responsabilità per la verità e la consapevolezza di essere debitori a tutti del vangelo.
La coscienza della verità, scrive Papa Giovanni Paolo II: cioè «la consapevolezza di essere portatori della verità che salva, è fattore essenziale del dinamismo missionario della intera comunità ecclesiale, come testimonia l’esperienza fatta dalla Chiesa fin dalle origini. Oggi, in una situazione nella quale è urgente por mano ad una nuova evangelizzazione, una forte e diffusa coscienza della verità appare particolarmente necessaria».41
Proprio perché noi cristiani abbiamo perso la coscienza di essere stati investiti da Dio con la Sua verità, è avvenuta in noi una caduta della tensione missionaria, individuale e comunitaria. Possiamo essere una presenza carica di annuncio e di testimonianza nella società solo nella misura in cui, nella nostra vita, viviamo la memoria dell’evento che ci è accaduto e continua ad accaderci. L’evento di aver incontrato Cristo ed, in Lui, la verità su Dio e sul nostro destino umano.
Quando questa certezza opera una lenta e progressiva trasformazione della nostra vita, genera in noi, sacerdoti e laici, una personalità dotata di una nuova percezione del nostro «Io» e di quanto accade attorno a noi. Carichi di questa verità che è una novità trasformatrice, affrontiamo l’esistenza in modo diverso, fin al punto di palesarci agli altri. Quando l’evento dell’incontro con Cristo nella fede ci percuote veramente, esso si allarga in noi sino a ricomprendere tutti i nostri gesti e i nostri comportamenti, comunicandosi agli altri spontaneamente.
Ciò presuppone, però, in noi, l’idea chiara di aver ricevuto in deposito, nel profondo del cuore, grazie alla consacrazione battesimale, una verità rivelata, che la ragione umana, da sola, non può conoscere. È la coscienza di essere stati raggiunti dalla luce misericordiosa di Dio e di essere perciò chiamati a diventare luce del mondo: «Voi siete la luce del mondo»,42 cioè i depositari di una conoscenza salvifica. Il Cardinale di Bologna Giacomo Biffi scrive, a questo proposito, che in una cultura in cui si privilegia il dubbio, considerato «segno di una mente libera ed aperta a tutti i valori, mentre le certezze esprimerebbero angustia, dogmatismo, intolleranza, chiusura ad ogni dialogo», anche noi cristiani cediamo facilmente di fronte alla paura di essere considerati dal mondo laico come integristi e il nostro annuncio agli altri si affievolisce.
La certezza (che non ha niente a che vedere ton l’ostinazione nella difesa immotivata di opinioni senza fondamento) «è per se stessa una qualità positiva della conoscenza; non un suo difetto»: il dubbio invece (che non ha niente a che vedere con la giusta instancabili nella ricerca e nell’approfondimento della verità) «è di per sé un’impurità della coscienza della quale non c’è ragione alcuna di vantarsi; è uno stato morboso da cui l’uomo, che è fatto per la verità, deve sempre tentare di uscire».
Coloro che colpevolizzano il credente di avere delle certezze «hanno sempre essi stessi delle convinzioni che ritengono indiscutibili. Abbiamo invece bisogno, per esistere ragionevolmente, di verità indiscutibili sulle quali appoggiare la nostra esistenza».43
Queste verità fondamentali le possederemo se il Credo, da noi recitato tutte le domeniche, diventasse veramente il punto di riferimento della nostra vita. E proprio questa la ragione, fedeli cristiani, il motivo per aver iniziato in Diocesi la catechesi per adulti, scegliendo gli articoli fondamentali del Credo, come linea conduttrice per la nostra rieducazione alla fede.

6. L’annuncio non può prescindere dalla testimonianza personale
La coscienza di certezza diventa presupposto della nostra inquietudine missionaria e del nostro amore per gli altri, solo quando assume anche un carattere, non solo intellettuale, ma anche esistenziale.
Solo se siamo in grado di vivere esistenzialmente in noi stessi l’effetto salvifico delle verità che crediamo nella fede, la nostra testimonianza diventa veramente comunicativa. Comunicativo infatti, per sua forza, diviene l’annuncio in ogni uomo che lo vive nella propria persona. È una comunicazione che produce in noi e negli altri una trasformazione radicale e continua.
Basta pensare alla Samaritana nell’attimo in cui, colpita nel segno dall’annuncio del Cristo, corre trasecolata ad annunciare agli abitanti del suo villaggio: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Non sarà lui il Messia?».44 L’incontro con Cristo è stato per lei un avvenimento che l’ha colpita nel cuore del suo essere. Perciò corre a comunicarlo agli altri.
Anche l’esperienza di San Paolo descrive assai bene la dinamica dell’annuncio. Arrestato nella sua corsa da Cristo, apparsogli sulla via di Damasco, ne resta così profondamente trasformato, che da tutto il suo comportamento trasparirà la presenza viva di una memoria: quella di aver incontrato Cristo. Per questo egli si pone ovunque, e in qualunque cosa compia, come missionario. Il suo annuncio, infatti, è il riverbero sugli altri di ciò che era accaduto e stava continuamente accadendo in lui.
Tutta la predicazione degli Apostoli ha come fondamento psicologico ed esistenziale l’esperienza del loro incontro personale con Cristo. Abbiamo già ricordato San Giovanni quando scrive: «Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo a voi». Non è solo il racconto dell’esperienza del primo incontro con Cristo, ma il resoconto di quanto l’apostolo Giovanni ha vissuto durante tutta la vita e che ha trasformato la sua esistenza.
Anche il primo discorso tenuto da San Pietro a Gerusalemme, ai pellegrini provenienti da tutte le parti dell’impero romano per la celebrazione della Pentecoste ebraica, risponde alla stessa dinamica: quella di testimoniare l’esperienza che lui stesso aveva fatto di Cristo: «Fratelli, parliamoci francamente.
Gesù il Nazareno fu uomo accreditato da Dio presso di voi con prodigi, portenti e miracoli… e voi l’avete ucciso inchiodandolo al patibolo. Ma Dio lo ha risuscitato… E noi tutti ne siamo testimoni. Egli è stato dunque esaltato alla destra di Dio, ha ricevuto dal Padre il dono dello Spirito, come voi ora vedete e ascoltate». A queste parole i presenti furono profondamente turbati e dissero a Pietro e agli altri Apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli? ». Pietro rispose loro: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per ottenere il perdono dei vostri peccati: e riceverete il dono del Santo Spirito». Essi allora accolsero la sua parola e furono battezzati, e in quel giorno si aggiunsero a loro quasi tremila persone.45
La straordinaria capacità di Cristo di raccogliere attorno a sé gli Apostoli, all’inizio della sua predicazione, non è il risultato di un discorso intellettuale sulla salvezza e sulla Nuova Alleanza, ma di una proposta concreta: quella di condividere con lui la vita quotidiana: «Gesù voltatosi e visti i due discepoli che lo stavano seguendo disse loro: «Che cercate? ». Gli dissero: «Rabbi, dove abiti?». Disse loro: «Venite e vedrete».46
Se non esiste un nesso esistenziale tra ciò che vorremmo trasmettere agli altri e ciò che è accaduto in noi, un nesso cioè con la verità annunciata e l’esperienza da noi vissuta, la nostra testimonianza non è totalmente vera e perde molta della sua efficacia.
«Predicate veramente quello che vivete?», domanda Papa Paolo VI nella sua grande EnciclicaEvangelii nuntiandi. La testimonianza della vita, infatti, «non solo attraverso le opere, ma attraverso il racconto della propria esperienza personale, è divenuta più che mai una condizione essenziale della predicazione».47
Accanto alla predicazione del Vangelo in forma generale Gesù, infatti, ha praticato anche l’altra forma: quella da persona a persona, che ogni cristiano può e deve facilmente praticare. Così con Nicodemo, Zaccheo, la Samaritana, Simone e il fariseo e con altri: «C’è forse in fondo una forma diversa di esporre il Vangelo che trasmettere agli altri la propria esperienza di fede?», si domanda ancora il Papa nella Evangelii nuntiandi.48
Se il Vangelo ha toccato il nostro cuore può toccare anche quello degli altri, perché la nostra esperienza personale dà una vibrazione interiore alle nostre parole, così da produrre sull’altro il sapore e il convincimento della verità.

7. L’annuncio del Vangelo: contributo alla promozione umana
La mancanza dell’annuncio della fede e i danni che ne derivano sono comprovati dalle angosce dell’uomo, dalla turbolenza, dai dissidi e dai conflitti che percorrono la società civile e gli stessi rapporti tra i popoli.
Evidentemente questo fenomeno, prima che dalla mancanza della fede cristiana, è ingenerato dalla caduta del senso religioso. L’uomo, privo di senso religioso, pone se stesso al centro dell’esistenza, in una posizione autonoma rispetto al Trascendente. Ne è riprova il fatto che l’uomo moderno tende a dare una giustificazione puramente antropologica o sociologica a tutti i dissesti peculiari dell’epoca contemporanea.
È, ad esempio, ricorrente l’analisi sociologica e comportamentale delle cosiddette devianze, dei disadattamenti, delle emarginazioni ed alienazioni che accompagnano, sia l’opulenza della nostra società occidentale, sia la massificazione sociale propria dei Paesi marxisti. Quelle del drogato, del violento, dell’alcolista, dell’omosessuale e di tutte le altre forme di diversità sono posizioni individuali o collettive, che vengono sistematicamente ricondotte ad origini familiari, interpersonali o sociali di incomprensione, a disaffezione, a contrasti, a discriminazioni, a prevaricazioni di potere, a sperequazioni socio-economiche e arretratezza culturale.
Dati, questi, che possono certamente produrre, favorire e accompagnare l’insorgere di queste situazioni. Tuttavia, sempre, al fondo di esse, vi è un dato che raramente viene colto dalle ricorrenti analisi su questi guasti e posizioni residuali. Il fatto che essi siano il fenomeno emergente di spazi sempre più vasti, nella coscienza del singolo come nel sentire collettivo, mancanti del senso di Dio e della appartenenza a Lui di tutte le cose: di una esperienza umana, cioè, priva di un senso religioso naturale, o di una fede cristiana in valori soprannaturali.
L’uomo che non vede in se stesso e nel prossimo l’immagine di Dio può dissociare la propria persona, far mercimonio del proprio corpo, infliggere violenza fisica o psichica agli altri, senza percepire tutta la gravità del proprio agire.  Non solo ai margini della società possono individuarsi tali forme negative, ma, in modo forse più drammatico e pericoloso, per il futuro dell’uomo, anche in quelle acquisizioni della creatività dell’uomo e del suo sapere scientifico, ritenute positive e come tali socialmente apprezzate.
Il progresso tecnologico, la liberazione da tutti i tabù, l’emancipazione dalla norma oggettiva e il dominio sulla legge di natura, sono troppo spesso vissuti come valori fine a se stessi, come valori davanti ai quali deve inchinarsi qualsiasi considerazione di morale, di religione o di fede cristiana.
Quando la novità è considerata sempre come progresso, come naturale sviluppo della capacità creativa dell’uomo cui tutto deve soggiacere, si entra in una dinamica esistenziale nella quale non c’è più posto per il confronto con la trascendenza.
E allora diventa lecito, positivo e valido, tutto ciò che l’uomo può creare e tutto ciò che l’uomo vuole sperimentare e produrre. Diventano così espressione del progresso, della libertà dell’uomo di autodeterminarsi, della sua capacità di emancipazione e simbolo di liberazione, l’aborto, l’eutanasia, il controllo delle nascite e la procreazione artificiale, l’ingegneria genetica e tutto ciò cui l’uomo può conferire, modificare o togliere l’esistenza e le sue modalità.
Ancora una volta l’uomo, come Prometeo, rincorre il mito di rubare il fuoco a Dio per rischiarare il proprio cammino nella storia, verso mete di cui vuole essere l’unico programmatore. Sia le devianze che i risultati della sfida tecnologica, che caratterizzano l’ora presente, sono in larga misura, infatti, la risultante di una cultura che ha smarrito il senso della appartenenza a Dio e che non ascolta, o soffoca i richiami della fede in Cristo.
È questa una ragione in più, cari fratelli e sorelle nel Signore, per sostenerci nella consapevolezza che l’annuncio della fede cristiana è un’urgenza che non trova soltanto una giustificazione teologica, ma che è esigita anche da una preoccupazione sociale, politica e culturale.
Per il cristiano la prima forma di promozione umana consiste, infatti, nel trasmettere la fede, cioè, nella comunicazione al prossimo del dono più grande, assieme alla vita data da Dio all’uomo. La condizione previa ad ogni promozione umana sta, infatti, nel rinnovamento interiore dell’uomo stesso.
Quando il nostro annuncio riesce a far percepire all’uomo la novità dell’avvenimento di Cristo suo Salvatore, si instaura in lui, inevitabilmente, una dialettica serrata con la realtà sociale in cui vive e cerca di trasformarla per renderla più umana. Non esiste promozione umana compiuta, esauriente e vera, se non nel solco e all’interno della promozione umana che Dio ha compiuto nella storia, rivelando all’uomo la verità di se stesso e quella sul destino dell’uomo, da Lui creato a Sua immagine e somiglianza.
L’uomo comprende in tutta la sua lucidità la propria dignità e il proprio destino solo se lascia risuonare in sé l’annuncio della salvezza. Quando cerca di essere uomo al di fuori di questo annuncio di Dio, fattogli attraverso Gesù Cristo e la Chiesa, non riesce più a misurare con esattezza le proprie dimensioni, perde facilmente la sua libertà e il senso della sua vocazione storica.
È per questo, cari fedeli cristiani, che non possiamo non prendere sul serio il mandato conferitoci da Cristo e riconfermatoci dalla Chiesa nel battesimo: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo»: perché non solo lo esige la nostra appartenenza a Cristo, ma anche il nostro amore per l’uomo e per la società in cui siamo immessi. Questo amore è il banco di prova della nostra fede cristiana.

8. L’annuncio attraverso la catechesi
Accanto al Magistero della Chiesa – quale garante ultima di autenticità -,accanto all’omelia nella celebrazione eucaristica, alla predicazione in genere, alla testimonianza personale e comunitaria, uno degli strumenti privilegiati dell’annuncio della fede è la catechesi.
Nella lettera pastorale Siate forti nella fede ho fatto l’analisi della dinamica secondo cui dobbiamo vivere la catechesi, sottolineando quattro momenti diversi.49
Prima di tutto il momento dell’apprendimento della dottrina della Chiesa, compendiata nelle formule del Credo. Si tratta in primo luogo di nutrire, a livello di conoscenza, il sensus fidei, cioè quel patrimonio quasi “genetico” di fede conferitoci con la consacrazione battesimale. Esso si radica profondamente nel bisogno innato, esistente nel cuore dell’uomo, di aprirsi a Dio. Solo se sviluppiamo in noi questo patrimonio e questa sensibilità iniziali, la fede può diventare progressivamente criterio reale, vita e logica che determina non solo in modo settoriale, ma globalmente la nostra esistenza.
Il secondo momento è quello in cui impariamo ad accogliere i contenuti intellettuali oggettivi della fede nella interiorità psicologica ed affettiva del nostro “io”. Non basta, infatti, conoscere le verità e le certezze della fede, poiché la fede, nella sua essenza, è anche un atto di sequela affettiva ed esistenziale della persona di Cristo. È un atto di natura intellettuale ed affettiva con il quale il cristiano fa fiducia a Cristo e consegna la sua persona e tutta la sua vita a Lui e al mistero della Trinità.
Il terzo momento è quello del confronto dei contenuti della fede con la prassi della nostra vita quotidiana. Ciò per evitare che s’insinui nella nostra persona un divorzio tra la verità creduta e il nostro modo reale di pensare, di agire e di operare.
Il quarto momento è quello della elaborazione di un giudizio sui fatti, sulle tendenze, sugli avvenimenti, sulle dottrine e sui comportamenti comuni e dominanti nella nostra società. Un giudizio sulla immagine del mondo che, riprodotto dai mass-media, da questi trae anche nutrimento. Un dialogo e un confronto con la cultura, nella consapevolezza che la fede ha una valenza culturale insopprimibile, come la storia ampiamente dimostra. La regola d’oro di condotta in questo sforzo critico è stata formulata già agli albori del cristianesimo da San Paolo: «Esaminate ogni cosa e tenete ciò che è buono».50  In una società come quella contemporanea, sempre pronta ad interrogare il cristiano e la Chiesa con implacabile esigenza, il nostro annuncio deve essere in grado di dare anche la ragione della fede, secondo la raccomandazione di San Pietro: «Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domanda la ragione della speranza che è in voi».51

9. La catechesi degli adulti
Nella prima lettera pastorale, cari fedeli cristiani, ho esortato soprattutto gli adulti a riprendere il cammino della catechesi, quale elemento ineliminabile dalla nostra esperienza cristiana ed ecclesiale. Ciò deve avvenire assieme ai presbiteri della nostra Chiesa particolare, alle religiose e ai religiosi, ai catechisti operanti nelle scuole, nelle parrocchie e nei movimenti.
Forse quel primo appello non è stato recepito in tutta la sua importanza e urgenza. Ciò dipende probabilmente anche dal fatto che la catechesi degli adulti, presupposto di ogni maturazione religiosa e, di conseguenza, della possibilità di annunciare la nostra fede agli altri, è andato pro g re ssivamente scomparendo dalla nostra coscienza comune.
Ci vorranno magari anni prima di ridare ancora alle comunità ecclesiali, parrocchiali o non, la consuetudine alla catechesi. È stato compiuto solo il primo passo e non dobbiamo scoraggiarci. Urge tuttavia continuare questo sforzo collettivo per far riacquisire a tutti gli adulti il desiderio di una formazione catechetica permanente.
Quando questo nostro desiderio e questa nostra consapevolezza sono autentici, si traducono spontaneamente in invito rivolto ai parenti, al marito, alla moglie, ai figli, giovani o adulti, ai colleghi di lavoro e agli amici a riprendere anche loro, con noi, il cammino della catechesi. La comunità cristiana è nata, fin dalle origini, e si è sviluppata, proprio grazie alla capacità dei cristiani di coinvolgere, credenti e non credenti, in una prassi catechetica. È un coinvolgimento, spesso molto più efficace delle prediche recepite dal pulpito; è una forma di annuncio.
Ha registrato invece grande successo la Scuola Diocesana di Catechesi, organizzata per tutte quelle persone desiderose di impegnarsi ad aiutare gli altri, oltre che se stesse, a riscoprire la fede cristiana, come criterio sul quale declinare la propria esistenza. Fatto estremamente positivo, perché rivela la presenza in Diocesi di alcune centinaia di persone decise ad impegnarsi per annunciare la fede attraverso l’insegnamento del catechismo agli altri fratelli e sorelle nella fede.

10. La catechesi della cresima
Un fenomeno, per contro, molto preoccupante è quello della catechesi ai ragazzi della Cresima. Non esiste più nessun dubbio che la cresima, chissà da quanti anni, è diventata, per la maggioranza dei nostri ragazzi, il sacramento di uscita dalla Chiesa. Una specie di cerimonia conclusiva di una fase della vita, quella della pubertà o dall’adolescenza, dopo la quale la pratica religiosa e l’appartenenza reale alla vita della comunità cristiana vengono considerate superflue.
I ragazzi e le ragazze abbandonano il campo, con la stessa disinvoltura con la quale la maggior parte di loro chiude i libri, dopo la scuola d’obbligo, con un senso di liberazione, per buttarsi nella vita e rincorrere altri interessi, senza dubbio legittimi, ma, con molta superficialità e immaturità, ritenuti estranei o incompatibili con l’esperienza cristiana.
La complicità dei genitori è gravissima. Sia perché pensano di aver compiuto tutto il loro dovere di educatori alla fede e alla vita, consegnando i loro figli alla parrocchia per la catechesi della cresima; sia perché non accettano di coinvolgere se stessi in questo momento decisivo per la crescita spirituale dei loro figli; sia perché si dichiarano troppo affrettatamente incapaci di continuare in seguito a dialogare con loro, non potendosi oramai più imporre con autorità sulla questione della loro pratica religiosa. Ciò significa che, nei genitori stessi, la fede e il senso della appartenenza alla Chiesa hanno toccato ormai il livello di guardia.
Sarebbe, ben inteso, ingiusto attribuire tutta la colpa ai genitori, senza menzionare i padrini e le madrine, che troppo spesso si presentano alla celebrazione della cresima come testimoni muti ed assenti, orgogliosi solo di svolgere un effimero ruolo sociale, spoglio di ogni significato ecclesiale. Padrini e madrine che non provano neppure un po’ di malessere di fronte al fatto di non accedere al Sacramento della Penitenza e della Eucarestia assieme ai loro pupilli.
È una situazione insostenibile per tutti, per i genitori, per i padrini e soprattutto per i cresimandi; che si sentono da loro così affettuosamente ingannati nel loro giovanile desiderio di autenticità, da non avere neppure il coraggio di eccepire.
Una grossa responsabilità grava, senza dubbio, anche sulla catechesi stessa. Sul modo con la quale la concepiamo. La catechesi non è una scuola in cui il ragazzo viene indottrinato su una materia, la religione, bensì un cammino che il ragazzo intraprende con i suoi compagni e le sue compagne di classe, per fare con loro una prima esperienza ecclesiale parrocchiale cui appartengono. È fondamentale dare ai cresimandi la possibilità di incontrare il fatto cristiano concreto, presente nella comunità ecclesiale locale, così da coinvolgerli in una realtà viva: quella appunto della comunità ecclesiale parrocchiale cui appartengono. Non basta perciò per il momento didascalico, esso deve essere accompagnato da incontri tra i cresimandi, da attività comuni, da momenti di preghiera, da ritiri spirituali ecc…
Solo così i ragazzi capiscono che la fede esige una conversione della loro persona, un cambiamento nel loro modo di essere, di vedere le cose e di comportarsi. Devono imparare a considerare la comunità cristiana e la Chiesa come punto di riferimento della loro persona. Solo così matura in essi la consapevolezza che la cresima è il sacramento che li conferma nella loro adesione al Cristo e alla Chiesa.
La catechesi sacramentale, a tutti i suoi livelli: prima comunione, cresima, matrimonio, deve saper offrire ai cristiani l’occasione non solo di un’istruzione, ma di un’autentica educazione ecclesiale.
Dobbiamo passare dalla nozione di preparazione ai sacramenti a quella, più globale ed efficace, di educazione alla fede, applicando in modo adeguato all’età i quattro livelli, intellettuale, esistenziale, etico e culturale, di cui abbiamo parlato a proposito della catechesi degli adulti. Si tratta di educare ad una fede percepita come criterio di esistenza e non semplicemente come contenuto mnemonico di alcune verità, che generalmente permettono ai cre s i m a ndi di uscire indenni da questo momento, senza essere toccati centralmente nella loro coscienza e nella loro azione.

11. L’insegnamento religioso nelle scuole
Un ultimo aspetto preoccupante nell’ambito generale della trasmissione e maturazione nella fede è quello dell’insegnamento religioso nelle scuole. Da una parte si registra il fatto, in se stesso molto positivo, che circa l’80% della popolazione del nostro Cantone vuole che l’insegnamento religioso continui ad essere impartito nelle scuole pubbliche; dall’altra il fatto che la percentuale della frequenza diminuisce progressivamente nelle scuole medie, fino a raggiungere tassi minimi nelle scuole superiori.
Le cause di questo fenomeno sono molteplici e dovranno essere esaminate e discusse con grande attenzione prima di tutto dalla Diocesi, assieme agli insegnanti stessi.  In questa sede, tuttavia, non posso non rivolgermi ai giovani e ai genitori, prima di accedere a proposte dottrinali affrettate o a conclusioni poco realistiche di natura politica.
Le ragioni che spingono i giovani a fare uso del diritto di dispensa molto spesso non hanno nulla a vedere con il diritto alla libertà di coscienza, garantito dall’art. 49 della Costituzione Federale.
L’indifferenza religiosa, maturata in seguito ad un’educazione approssimativa alla fede; la pressione esercitata dalle scadenze scolastiche, dalla competitività, dai ritmi di lavoro, dalla corsa ai mezzi di trasporto; l’ora di religione non sempre collocata in momenti favorevoli della giornata, il desiderio legittimo di rientrare presto a casa o di avere momenti di libertà, il fatto che l’insegnante stesso non sempre corrisponde alle aspettative oggettive, o magari solo soggettive del ragazzo; l’essere non attrattivo della materia in un momento di sviluppo della loro persona, facilmente distratta da interessi spesso futili o puramente consumistici, sono tutti motivi troppo frequentemente confusi, nella mente dei ragazzi, con la vera e propria natura della libertà di coscienza.
Più che una libertà di coscienza per motivi confessionali o religiosi, si fa valere, inconsapevolmente, una libertà di non impegno e di non confronto con il dovere di istruirsi e formarsi dal profilo religioso e culturale.
Anche in questo caso le famiglie sono largamente responsabili, perché, troppo facilmente cedenti di fronte alla tentazione di disimpegno dei loro figli, concedono con leggerezza la dispensa o accettano, disarmate, il fatto compiuto.
Le gravi responsabilità di cui le famiglie cristiane sono investite nei confronti della formazione della coscienza e del futuro dei loro figli, dovrebbero indurle a non lasciare nulla di intentato per aiutarli a comprendere che la vita non si esaurisce nella soluzione del problema dello studio, e della professione, vissuti e prospettati nell’ottica della carriera, perché è inscindibilmente legata al problema religioso, che tocca centralmente la crescita globale della persona stessa.
L’istruzione religiosa nelle scuole, infatti, non concerne solo il problema della fede in quanto tale, ma anche la crescita umana globale dei giovani, perché come abbiamo visto, la fede cristiana ha un’ineluttabile valenza culturale.
L’insegnamento religioso nella scuola, infatti, pur essendo distinto per la sua finalità e metodologia dalla catechesi – che tende primariamente a suscitare la fede -, ha come scopo quello di giustificarla, dando voce alla razionalità; in questo senso esso è complementare alla catechesi.
L’insegnamento religioso nella scuola, fatto da un punto di vista cristiano e cattolico, propone ai giovani un confronto razionale, e perciò critico nei confronti dei contenuti e della valenza culturale della fede, nel solco della metodologia scientifica propria dell’insegnamento teologico a livello accademico, sia pure proporzionale al grado di formazione intellettuale degli alunni delle medie.
Essa pone i giovani di fronte al problema di Dio, dell’interpretazione del mondo, del senso e del valore della vita, delle norme etiche dell’agire umano e sociale; li aiuta a rendere conto della loro fede per mezzo dell’intelligenza in un confronto culturale, che li prepara ad orientarsi in modo più maturo e più personale, fondato e responsabile, in rapporto alle altre confessioni e religioni, alle ideologie e al pluralismo delle visioni della vita e al problema della verità; fa crescere in loro la capacità di decidersi liberamente a livello esistenziale, così da arrivare ad una scelta consapevole di fronte alla fede e alla Chiesa.52
L’insegnamento religioso, assieme alla necessaria presentazione dei contenuti della fede, tende perciò alla formazione della persona dei giovani, offrendo una risposta, articolata e scientificamente commisurata all’età, agli interrogativi che essi incontrano e vivono, non solo all’interno della vita sociale, cui si schiudono progressivamente, ma anche all’interno della scuola stessa, dove sono confrontati, al contatto con le altre materie, con i mille problemi della vita e con le soluzioni spesso contraddittorie a loro date.

12. Conclusione
Carissimi fratelli e sorelle nel Signore. Concludendo questa mia lettera il 2 febbraio, festa liturgica della Presentazione del Signore al Tempio, vi ricordo che Maria di Nazareth quando si è recata da Elisabetta sua cugina, compiendo un duro cammino di 100 km, non intendeva semplicemente condividere con lei la gioia della sua gravidanza, bensì annunciarle il fatto che il Signore aveva iniziato nella sua persona l’opera della Redenzione di tutta l’umanità.
Maria di Nazareth ha sentito l’urgenza di comunicare la propria fede a Elisabetta ed ha fatto il primo annuncio cristiano della storia della Chiesa.
Anche per questo fatto dobbiamo guardarla come «figura perfetta» di ogni credente. Il vero credente, infatti è colui che annuncia agli altri il Vangelo e la propria fede.
In questa lettera ho volutamente sottolineato solo l’aspetto personale dell’annuncio: quello che incombe esistenzialmente come mandato a ciascuno di noi personalmente, chierici e laici, senza possibilità di deleghe agli altri.
Non possiamo tuttavia dimenticare che questo mandato non l’abbiamo ricevuto dal Signore Gesù Cristo solo individualmente, pur restando vero che tutto nella Chiesa comincia imprescindibilmente dalla conversione individuale di ciascuno di noi. La Chiesa si edifica tra di noi proporzionalmente alla conversione individuale delle nostre persone.
Il mandato dell’annuncio è affidato però anche, contemporaneamente, a tutta la comunità cristiana, cioè alla Chiesa, nella quale ognuno di noi è inserito con il Battesi- mo e gli altri sacramenti. E essenzialmente un annuncio anche comunitario, cioè della Chiesa in quanto tale. Di questo aspetto comunionale della nostra fede, tuttavia, vi scriverò diffusamente in un’altra lettera.
Il Signore vi benedica nel vostro desiderio di prepararvi, in questa Quaresima, alla Pasqua.

13  Cor. 10, 31
14  La Trinità 1, 1-2
15  Catechismo Cattolico, a cura di Pietro Gaspari, Brescia 1932. p. 26
16  Gv. 17,3
17  Gal. 2,16
18  1Gv. 2,20
19  1Gv.2,20
20 Rom. 10,14-17
21 Gv. 8,42
22 Gv.5,36
23 Lc.4,43
24 Is.61,1
25 Lc.4,18
26 Gv.20,21
27 Mc.16,15
28 Mt.28,19
29 1Gv.1,1-3
30 cap.III

31 1Cor.9,16
32 Lumen gentium, 11,2
33 J.Ratzinger, Trasmissione della fede e fonti della fede. Marietti 1985
34 34 Evangelii nuntiandi Esortazione apostolica di Sua Santità Paolo VI, 1975, (Abbr. EN), n.42
35 EN, 15
36 EN, 80
37 EN, 80
38 Rm 1,16
39 EN, 79
40 Rm.1, 14-16
41 Giovanni Paolo II, Allocuzione ai sacerdoti della Diocesi di Roma, 5.03.1981
42 Mt. 5,14
43 Missione e coscienza della Verità, Marietti 1974, 2.3.4.- 2.5.1.
44 Gv. 4,29
45 Atti, 2,14-41
46 Gv. 1,38-39
47 EN, 76
48 EN, 46
49 ibidem n.V
50 1Ts.5,21
51 1Pt.3,15
52 Sinodo nazionale della Germania Federale, Marietti 1974, 2.3.4- 2.5.1.