Prima lettera pastorale nella Pasqua del Signore dell’anno 1987
Fedeli carissimi,
«Il divorzio che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo».1
In questa constatazione lapidaria dei 2400 Vescovi presenti al Concilio Vaticano II trova conferma storica il velato presentimento contenuto nella vibrante esortazione rivolta da San Paolo ai cristiani della prima generazione: «… resistete fermi e saldi nella fede e non lasciatevi allontanare dalla speranza promessa nel Vangelo che avete ascoltato» (Col. 1,23).
Consapevoli, dopo duemila anni, dell’attualità del monito dell’Apostolo delle Genti, i Padri Conciliari non hanno esitato a denunciare come grave errore il fatto che noi cristiani di questo secondo dopo-guerra viviamo in modo diviso, come se la fede che professiamo ogni domenica nel Credo non avesse più una reale incidenza sulla prassi della nostra vita quotidiana.
Da sempre, anzi, fin dai primissimi battiti della sua storia, come documenta ampiamente il Nuovo Testamento, la cristianità ha assistito a molti tentativi di falsificazione della fede. Mentre però le antiche o meno antiche eresie vertevano sui contenuti della fede, snaturandone il significato, l’errore di oggi si concretizza in una spaccatura tra la fede e la vita di tutti i giorni.
1. La spaccatura tra fede e vita quotidiana
Il fenomeno di una simile spaccatura è ovviamente sempre esistito a livello della vita morale. Ogni cristiano ha fatto quotidianamente, come noi, questa esperienza. Tuttavia oggi il fenomeno della spaccatura assume un significato diverso, non solo perché è più vasto, ma perché è penetrato più in profondità. Non investe solo la nostra fragilità nel comportamento morale, bensì tutta la nostra persona nel suo modo di concepire e progettare la vita, previo al problema morale stesso. Il fenomeno da morale è diventato così un fenomeno culturale.
Tale divisione non tocca solo il nostro agire etico concreto, ma investe alla radice il nostro modo stesso di pensare, personale e collettivo. Diviso è il nostro modo di progettare ed organizzare la vita concreta di tutti i giorni in tutte le espressioni fondamentali della nostra esistenza: il matrimonio e la famiglia, i figli e la scuola, il lavoro e la professione, la convivenza sociale, il divertimento, l’avvenire. Cedenti di fronte alla mentalità comune e alla cultura dominante, che non sono più determinate in profondità da un’aderenza reale ai valori cristiani, anche il nostro comportamento etico, se non è peggiorato, certo non è in questo dopo-guerra migliorato.
Questo divorzio nella nostra persona, tra la fede e la vita reale del quotidiano ha le sue radici più remote negli sviluppi avvenuti nel corso di questi ultimi secoli in seno alla cultura moderna. Nata dal Rinascimento, tale cultura ha tradito il Rinascimento stesso che, malgrado avesse posto l’uomo al centro della propria attenzione, del proprio pensiero filosofico e della propria espressione letteraria e artistica, aveva comunque conservato uno stretto legame con la matrice cristiana della cultura precedente.
L’uomo moderno ha consumato questa rottura pro gettando, passo dopo passo, il mondo e la convivenza umana, prescindendo dalla fede cristiana e utilizzando come punto di riferimento sempre più esclusivo il criterio della ricerca empirica e sperimentale, peculiare alle discipline scientifiche ed umane moderne, cui, in ultima analisi, non soggiace più la filosofia ma il calcolo matematico. Su questa strada la fede in Dio, tollerata come elemento appartenente alla sfera interiore e privata della persona, è stata progressivamente bandita dalla sfera sociale: quella che interessa il vivere in comune nella collettività. Sono nati così una cultura umana ed un comportamento sociale secolarizzati, estranei, se non addirittura contrari alla fede cristiana.
Non ci interessa, cari fedeli, in questa lettera pastorale, stabilire le responsabilità del fenomeno appena descritto. In larga misura esse ricadono anche su noi cristiani. Ci interessa invece constatare il fatto, assieme ai Padri del Concilio Vaticano II, poiché esso incide in modo determinante sulla coscienza che abbiamo di noi stessi, prima ancora che sul nostro modo di vivere concreto. Questo fenomeno incide così profondamente sull’autocoscienza delle nostre persone e sulla nostra identità, da aver indotto il Concilio Vaticano Il a ritenere il cristiano moderno come persona divisa in se stessa, disassociata nell’intimità del proprio «io». Un cristiano che si riferisce alla sua fede quando si reca in chiesa la domenica ed accede ad alcuni sacramenti, ma che, nella vita di tutti i giorni, quella che conta veramente e per la quale lavoriamo, amiamo e soffriamo, si conforma all’opinione dominante e alle abitudini prevalenti, spesso fino a identificarsi con essi. Si realizza in noi su grande scala la situazione che già ai primordi del cristianesimo aveva provocato il monito rivolto da San Paolo ai cristiani di Roma: «Non conformatevi alla mentalità di questo mondo» (Rm. 12, 2).
2. La perdita del senso religioso: causa ultima di tale spaccatura
Di quanto fosse già reale e profonda la dissociazione tra la fede e la vita di tutti i giorni nella nostra generazione di cristiani, nati o cresciuti in questo secondo dopoguerra, che ha registrato in occidente uno sviluppo tecnico ed economico senza precedenti, si era accorto, alla vigilia del Concilio, uno dei più grandi artefici del Concilio stesso: il Cardinale Montini.
Guardando l’immensa ed attivissima metropoli lombarda che storicamente e culturalmente sollecita ed esprime le aspirazioni più profonde, consapevoli o inconscie, anche di tutti noi che viviamo ed operiamo in questa nostra terra ticinese – l’allora Arcivescovo di Milano scriveva nella sua prima lettera pastorale del 1957: «Ecco: davanti a noi si stende il panorama del nostro mondo contemporaneo, pieno di vita, di pensiero, di attività, di conquiste. La città terrena va trasformandosi e construendosi in nuove e grandi forme di civiltà. L’uomo cresce: di numero, di cultura, di potenza. Studi ed affari, imprese ed interessi, macchine e soldi, viaggi e ricchezze, divertimenti e piaceri, sogni e progetti assorbono il suo spirito, che si è fatto chiaro, calcolatore, operoso, sociale, edonista. L’attualità lo prende. Anche le sue speranze sono diventate dinamiche per il presente. La terra è il suo regno. Ed il regno dei cieli? E la vita futura? E il destino soprannaturale dell’uomo? E il mistero della vita e dell’universo? E Dio? L’uomo moderno va perdendo il senso religioso».
Abbiamo magari mille ragioni per valutare con una certa distanza interiore l’entusiasmo e l’ottimismo di chi divenne il futuro papa Paolo VI. Infatti siamo stati tutti clamorosamente disincantati dall’esperienza delle vicende umane di questi ultimi decenni, nei quali abbiamo assistito a centotrenta conflitti armati locali con trenta milioni di morti e feriti; conflitti che hanno lasciato gravissime conseguenze nella coscienza delle nuove generazioni.
A queste esperienze dolorose se ne sono aggiunte molte altre. Non possiamo, infatti, dimenticare che siamo spettatori di milioni e milioni di profughi e perseguitati che devono abbandonare i loro paesi con tutti i mezzi della disperazione; non possiamo dimenticare il fatto di vivere sentendo incombere la minaccia dell’apocalisse atomica o della guerra stellare; di dover paventare la catastrofe ecologica o quella della manipolazione genetica; di dover constatare che un terzo dell’umanità è regolarmente decimata dalla fame; di sapere che l’Aids potrebbe intaccare l’uomo nella sua resistenza fondamentale.
Forse abbiamo ragione di essere oggi cautamente meno ottimisti, ma un punto rimane fermo ed è la constatazione drammatica formulata dal Cardinale Montini con assoluta lucidità trent’anni or sono: l’uomo moderno va perdendo il senso religioso.
A ben vedere, la perdita del senso religioso è un errore ancor più grave del divorzio tra la fede e la vita quotidiana, denunciato dal Concilio Vaticano II, poiché investe l’uomo stesso, nella sua attitudine naturale a percepire qualche relazione con la divinità. Si affievolisce in noi la capacità, iscritta nella persona umana, nel bisogno, consapevole o inconscio, di porci globalmente il problema del nostro destino e del senso ultimo della nostra esistenza.
Questa coscienza razionale, che l’uomo ha di se stesso, coincide con la sua capacità di conoscere anche l’esistenza di Dio. Questo livello della religiosità precede la capacità stessa dell’uomo di porre l’atto di fede, tipico della esperienza religiosa cristiana. L’atto di fede presuppone un profondo senso religioso, eliso dalla propria vita, invece, da chi si professa ateo.
L’ateismo, teorico o pratico, consiste nel fatto di non sapere più o non volere riconoscere l’esistenza di un Dio trascendente e personale: in questo modo l’uomo vive e fa l’esperienza dell’assenza di Dio dalla sua vita, ad un livello della coscienza che precede la fede cristiana in quanto tale.
Si può, infatti, essere non-credenti, dal profilo cristiano, senza essere atei, poiché la fede cristiana è qualcosa di più della stessa certezza razionale dell’esistenza di un Dio personale. La fede è la risposta interiore alla Parola di Dio nella sfera del pensiero e della volontà dell’essere umano; è la risposta e l’adesione, libera e personale, alla rivelazione attraverso cui Dio manifesta se stesso all’uomo e gli si manifesta non solo 2 come principio di tutte le cose, conoscibile come tale dalla semplice ragione umana, ma come l’essere trinitario, conoscibile solo grazie ad un dono soprannaturale, che Dio stesso fa all’uomo. Questo dono è la Grazia della fede.
Dio si rivela esistente come Padre, Figlio e Spirito Santo; come Creatore del mondo; come Verbo che si è fatto uomo in Gesù Cristo, per la nostra salvezza; come Spirito Santo che prende dimora nel cuore dell’uomo e nella Chiesa. Mentre la conoscenza razionale dell’esistenza di Dio impegna l’uomo a livello della sua intelligenza, la fede nel mistero della Trinità presente nel mondo attraverso Cristo e la Chiesa, coinvolge necessariamente l’uomo «tutto intero» 3, nella totalità delle sue facoltà mentali, volitive, psicologiche ed affettive.
Nell’atto di fede l’uomo non risponde a Dio solo con una parte di se stesso, ma con il consenso di tutta la sua persona. Vive un rapporto di amore con Dio, nella reciprocità. L’uomo affida se stesso, e si consegna a Dio, con tutta la sua persona. La fede, infatti, non consiste solo nell’accettazione intellettuale dei contenuti delle verità rivelate, quelle che recitiamo nel Credo. Questa conoscenza del Dio Trino postula un coinvolgimento della persona umana in tutte le sue risorse vitali, incidendo così anche sul nostro modo di concepire il nostro destino e il significato della storia.
Nella fede, l’uomo aderisce nel suo cuore a quel Dio che in concreto si manifesta al mondo attraverso il volto umano di Gesù Cristo, ancora presente nella storia attraverso la Chiesa, vale a dire attraverso la comunità universale e particolare di tutti coloro che, in nome di Cristo e con l’aiuto dello Spirito Santo, vivono in comunione di amore con Dio e tra di loro. La Chiesa, infatti, malgrado le sue molteplici precarietà, è il segno inconfondibile della presenza di Cristo Salvatore nel mondo.4
L’adesione alla Chiesa coincide, perciò, con l’adesione al mistero della Trinità, alla cui immagine e somiglianza l’uomo è stato preventivamente creato «per mezzo di Cristo » (Ef. 1, 4). Infatti, in Cristo nostro Signore, come ci insegna ancora San Paolo, «Dio ci ha scelti prima della stessa creazione del mondo» (Ef. 1, 4). In Cristo, la nostra appartenenza a Dio è ancora più antica di quella dell’universo creato: si perde nella profondità eterna di Dio.
Ciò che abbiamo appena descritto è la dinamica dell’atto di fede; della nostra fede personale. Se ne fossimo consapevoli, dovremmo gloriarci, come ci suggerisce di fare la liturgia ogni qualvolta ci fa ripetere le promesse battesimali. Certo, dobbiamo gloriarcene; essere cioè ad un tempo lieti, pieni di stupore e riconoscenti a Dio di essere stati immersi nell’orizzonte senza confini di questo mistero trinitario. È un orizzonte che valica i confini dell’intelligenza umana, ma che nello stesso tempo è comprensibile da ogni intelligenza, anche da quella della persona più semplice!
La fede in Cristo introduce alla conoscenza di un mistero che concerne Dio in se stesso, il nostro destino personale e quello del cosmo e della storia. È un mistero questo di cui l’uomo, tra tutti gli esseri, è l’unico a poter prenderne coscienza.
Senza cedere ad alcuna tentazione di presunzione, dobbiamo essere pienamente consapevoli dei contenuti e della forza culturale di questa nostra fede cristiana, proprio perché non investe solo la nostra persona, ma tutta la storia dell’umanità in quanto tale e del mondo. Il problema della nostra generazione è, per l’appunto, quello di ridiventare lucidamente, e dunque anche culturalmente, consapevoli di questa dimensione culturale della nostra fede.
La progressiva perdita del senso religioso e l’erro re della dissociazione tra la fede e la nostra vita quotidiana sono sintomi inequivocabili che noi cristiani siamo oggi potenzialmente in procinto di perdere la piena consapevolezza della nostra fede. È come se lentamente, ma inesorabilmente, anche noi stessimo per diventare atei o non credenti.
Stiamo, infatti, cedendo su due fronti: quello della consapevolezza di ciò che siamo come uomini e quello della coscienza di ciò che siamo come cristiani.
3. La consapevolezza di essere uomini
La cultura dominante nella nostra società moderna, chinatasi sull’uomo dal Rinascimento in poi, parla sovente dell’uomo. Ne parla però in modo riduttivo, perché lo affronta non nella sua concretezza reale, ma in modo astratto, seguendo di volta in volta i modelli astratti pro- posti dalle ideologie più diffuse.
Innanzi tutto, seguendo l’ideologia del consumismo, predominante forse nella nostra società svizzera e ticinese. In esso l’uomo è valutato a partire dalla sua capacità di fruire, sempre di più, di tutti i beni di consumo offerti dall’opulenza neocapitalista. Il modello di uomo, costantemente insinuato, è quello della persona che vale perché riesce ad emergere sugli altri nel possesso di ogni genere di beni materiali e culturali. L’uomo è stimato ed additato non per quello che è, ma per quello che possiede.
In secondo luogo l’ideologia del conformismo democratico, che stravolge la natura stessa della matrice culturale democratica e federalista del nostro Paese, essenzialmente pluralista. Tale ideologia impone di fatto il principio secondo cui nessuno deve pensare o agire in modo non conforme alla mentalità comune e all’opinione dominante. L’uomo «bene» è colui che si adegua nella sua vita, privata o sociale, ai parametri di convenienza fissati dal comportamento prevalente. Per questa ragione, oggi, avere molti figli, non divorziarsi quando la convivenza diventa un problema, non procurare l’aborto di un feto portatore di handicap, diventare prete, entrare in convento, oppure rinunciare alla possibilità di arricchirsi rapidamente, sono comportamenti e scelte considerate come spreco delle possibilità che la vita moderna offre all’uomo contemporaneo.
In terzo luogo l’ideologia razionalistica-liberale, che tende a far coincidere la dignità della persona con la sua libertà di fare o non fare quello che vuole, dando adito all’equivoco secondo cui la libertà non consiste, invece e in primo luogo, nella possibilità di aderire a valori morali oggettivi, previ alla libertà stessa di scelta. Se ognuno è libero di fare ciò che vuole, pur dovendo rispettare le norme della legge, valevole per tutti i cittadini, indistintamente, l’interesse ed il successo personale diventano gli elementi che nella vita contano più di tutto,
come se questo desiderio di espressione soggettiva coincidesse con l’essenza stessa del bisogno più profondo insito nel cuore dell’uomo.
Infine, l’ideologia marxista, meno diffusa nel nostro ambiente a livello di espressione teorica, ma molto penetrante a livello del metodo di analisi utilizzato per affrontare la realtà sociale, politica e culturale. Un’analisi che parte dal presupposto secondo cui l’uomo è, di fatto, sempre uno strumento asservito al potere. Un soggetto, cioè, che manipola ed è sempre, nello stesso tempo, manipolato. Questo presupposto, che nega di fatto la capacità dell’uomo di essere interiormente libero nelle sue scelte, identifica l’essere umano con i suoi bisogni temporali e terreni, rendendo ultimamente irrilevanti le sue aspirazioni religiose.
La consapevolezza che dobbiamo avere di noi stessi, come uomini è, invece, un’altra. E la consapevolezza che l’uomo non è un’astrazione in funzione di un progetto politico o di un’ideologia, bensì una realtà concreta e reale. L’uomo è un essere concreto e individuale, creato a immagine e somiglianza di Dio.
La novità culturale dell’Enciclica Redemptor hominis di papa Giovanni Paolo II sta, infatti, nell’aver riparlato a tutti, indistintamente, di quest’uomo concreto e reale, irriducibile nella sua dignità ad un numero appartenente alla massa dei quattro miliardi di uomini esistenti nel nostro pianeta. È quest’uomo concreto e reale che dobbiamo riascoltare in noi stessi! È la sua tensione all’assoluto, presente in tutti e in ciascuno di noi, perché creati ad immagine e somiglianza del Dio Uno e Trino, che dobbiamo imparare di nuovo ad ascoltare.
Il lavoro che tutti, credenti e non credenti, dobbiamo fare è quello di risalire alle spalle della cultura e delle ideologie moderne, come hanno fatto i cristiani dei primi secoli. Non si sono conformati alla cultura greco-romana di allora, pur avendone assunto molti valori fondamentali, ma sono stati fedeli al dato originale.
Dobbiamo imparare a risentire e ad accogliere tutta la provocazione di quest’uomo reale che sta nel cuore di noi stessi. Risentire questa provocazione equivale a sviluppare in noi il senso religioso che è stato colto con impareggiabile intuizione da Sant’Agostino quando scrisse all’inizio delle sue «Confessioni»: «Tu ci hai fatto, Signore, per Te; ed è irrequieto il nostro cuore, finché non riposa in Te!».
In questa inquietudine creativa batte e pulsa tutto ciò che esiste di più profondamente umano: il senso della nostra appartenenza a Dio, la ricerca della verità, l’insaziabile bisogno del bene, la sete di amore, la fame della libertà, la nostalgia del bello, lo stupore del nuovo, la voce della coscienza. La dignità dell’uomo coincide con il suo senso di appartenenza e di dipendenza da Dio e con la coscienza che il proprio destino è indissolubilmente legato a quello eterno di Dio.
Noi cristiani, come tutti gli uomini, non possiamo essere presenti nel mondo senza tener conto, per noi e per gli altri, che ogni tentativo di elidere o ignorare questo insopprimibile bisogno di Dio riduce il dato originale dell’uomo.
4. La coscienza di essere cristiani
Il punto di partenza per ritrovare la nostra capacità di credere le verità cristiane, che ci sono state rivelate e tramandate, è dunque il ricupero dell’immagine e della coscienza di cosa siamo in quanto uomini, cioè, di che cosa sia l’uomo. Ogni persona coincide, infatti, con l’uomo reale e concreto presente nel suo cuore. È quest’uomo reale concreto che noi cristiani non dobbiamo e non possiamo perdere in noi stessi.
Il primo passo, che noi cristiani dobbiamo compiere per poter far rifiorire in noi ed attorno a noi la nostra fede cristiana, è quello di prendere profondamente coscienza, a livello personale e comunitario, della presenza in noi di questo anelito religioso naturale, che permette di varcare la frontiera della temporalità, pur vivendola fino in fondo con tutte le sue esigenze storiche.
Questa capacità di vedere Dio in trasparenza nella nostra persona, negli altri uomini e donne, nelle cose che ci circondano, è l’itinerario culturale e religioso proposto a tutti gli uomini, e perciò anche a tutti i cristiani, da papa Giovanni Paolo II nella sua prima Enciclica, che inizia con la frase storica: «Il Redentore dell’uomo Gesù Cristo, è centro del cosmo e della storia».
II secondo passo è quello di prendere coscienza del potenziale ateismo pratico che alberga anche nella nostra mente e nel nostro cuore. Solo se ci accorgiamo della perdita progressiva nella nostra coscienza e nella nostra vita concreta del senso della nostra appartenenza a Dio Trino, in forza del fatto che siamo stati da Lui creati, che siamo stati redenti da Cristo e siamo diventati dimora dello Spirito Santo il giorno della Pentecoste; solo se ci rendiamo conto che in realtà viviamo per noi stessi e per le cose che facciamo, quasi che la vita ci appartenesse in proprio e non fosse un dono di Dio, dal quale siamo stati «creati per conoscerlo, amarlo e servirlo quaggiù onde poterlo godere per sempre in Paradiso», come ci inculcava il catechismo di un tempo, allora, e solo allora, sarà per noi possibile riappropriarci pienamente della fede nel mistero trinitario e nella Chiesa. Allora, e solo allora, ricupereremo quella fede che la tradizione cristiana ha fatto giungere fino in fondo alle nostre valli disseminandole di chiese, croci e cappelle, di generazione in generazione, e che ci è stata data in dono il giorno del nostro battesimo.
Il terzo passo, che noi cristiani dobbiamo compiere, è quello di capire la ragione ultima di tutti questi nostri cedimenti nel modo di vivere la fede cristiana. Infatti, se assistiamo in noi al divorzio tra la nostra fede e la nostra vita quotidiana, se non sappiamo più come utilizzare le nozioni centrali della nostra fede in Cristo, morto e risorto per noi, per affrontare i problemi fondamentali dell’esistenza di tutti i giorni, se le verità contenute nella nostra fede rimangono marginali rispetto agli obiettivi della nostra esistenza reale, questo avviene perché ultimamente viviamo una religiosità, e perciò anche una fede, deboli. La nostra fede è debole perché conta troppo poco nella nostra vita ed è incapace di diventare generatrice di un’esistenza e di una progettualità veramente cristiana.
Il quarto e decisivo passo è quello di renderci conto che la fede cristiana è un dono di Dio; un dono che ognuno di noi può accogliere, solo liberamente e volontariamente, nella profondità della propria coscienza e intelligenza, della propria affettività e della propria esigenza primordiale di vivere fino in fondo il gusto essenziale di essere uomo o donna.
Paradossalmente ogni uomo e ogni donna è qualcosa di più grande dell’uomo. Oltre ad avere dentro per natura l’immagine e la somiglianza trinitaria di Dio, l’uomo reale ha ricevuto in dono anche la capacità di compiere l’atto di fede che è un atto di abbandono libero, totale al Dio personale nella sua intelligenza e nella sua volontà; atto che solo Dio però può aiutare a compiere.
Professare: «Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra… Credo in un solo Signore Gesù Cristo, unigenito. Figlio di Dio… Credo nello Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio… Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica… Credo alla risurrezione dai morti e alla vita del mondo che verrà», significa, da una parte, pronunciare parole semplici dal cui accostamento emerge però un significato inesauribile; dall’altra, essere immediatamente introdotti in quel mistero della Chiesa, Corpo Mistico di Cristo e nuovo Popolo di Dio, che custodisce e rende attuale questo stesso significato per noi e per tutti gli uomini.
È questa fede che ci dice cosa siamo come cristiani. È questa stessa fede che dà dignità e senso al nostro vivere quotidiano. Per questa ragione, cari fedeli, se è vero che la fede senza la vita quotidiana risulta inutile e si perde, è altrettanto vero che la vita senza la fede arrischia di essere arida, per il fatto di non possedere una finalità carica di significato eterno. Questa finalità orienta la vita terrena verso quella dimensione trascendente, di cui la comunione ecclesiale è il segno storico e tangibile.
Fedeli carissimi, la constatazione del Concilio Vaticano II, che nei cristiani della nostra epoca è avvenuta una divaricazione tra la fede e la vita quotidiana, non può perciò lasciare tranquillo nessuno di noi.
Il dualismo descritto dai Padri Conciliari non ha origine solo nella nostra incapacità personale di vivere in modo corretto dal profilo morale la fede cristiana. Se il problema fosse solo quello della nostra fragilità morale, allora il rimedio istituito da Cristo, e da sempre propostoci dalla Chiesa, sarebbe semplice: quello del sacramento della penitenza. In realtà, però, da molti anni disertiamo il confessionale, qualche volta sostituito in buona fede dalla confessione comunitaria, la quale, se fosse stata vissuta correttamente, avrebbe comunque dovuto ricondurci al confessionale. Se ciò non è avvenuto è perché abbiamo smarrito anche il senso del nostro peccato. Ciò è un indice che la nostra vita quotidiana sfugge globalmente a un giudizio dato a partire dai contenuti della nostra fede. Il problema perciò non è semplicemente quello della moralità, ma, ripeto, esso è più profondo, perché investe il modo stesso con il quale concepiamo globalmente la nostra esistenza, sottraendola al giudizio della fede.
Il rimedio a questa spaccatura non può essere solo quello di riconoscere e confessare le nostre colpe, ma, assieme a questo, quello di riappropriarci della nostra fede cristiana sul piano dei contenuti e sul piano dell’impegno esistenziale, personale e comunitario. Tale riappropriazione tocca non solo la sfera intellettuale, ma anche quella psicologica ed affettiva della nostra persona. La fede interpella tutto il nostro modo di vivere, con priorità su ogni altra cosa.
Ciò significa rendersi conto che nella vita tutto è necessario: il lavoro, la famiglia, la professione, lo svago, i soldi, la casa, ma che il compito fondamentale di ogni cristiano è quello di ricavare dalla fede tutta l’energia per vivere e quello di darne testimonianza agli altri. Già San Paolo chiedeva ai cristiani di Corinto: «Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio». Anche a noi il tempo della vita è donato per maturare in questa stessa fede, che è la fede della e nella Chiesa. Assumendola fino in fondo esprimiamo la nostra personalità, che non coincide con il fatto di essere preti o monache, di essere professionisti o operai, di essere padri o madri di famiglia, ma di essere cristiani. Per una simile maturazione, personale e comunitaria, è indispensabile la catechesi, la quale è sempre stata considerata dalla Chiesa come uno dei suoi impegni più fondamentali.5
5. Necessità e urgenza della catechesi
La riappropriazione della fede cristiana deve avvenire, come abbiamo già detto, a due livelli: quello dei contenuti e quello del loro significato per il modo concreto di vivere in seno alla società contemporanea.
Il primo momento della catechesi è quello di apprendere l’insegnamento impartito dalla Chiesa. Papa Giovanni XXIII nel lontano 1961 ha intitolato la sua prima Enciclica Mater et magistra, proprio per sottolineare che la Chiesa è Madre, in quanto genera continuamente nuovi figli con il battesimo, ma che è anche Maestra perché con l’insegnamento delle verità di fede, attraverso la catechesi, essa nutre il «sensus fidei» dei fedeli, cioè il senso e il bisogno innato, esistente nel loro cuore e sviluppato in loro dal battesimo, di possedere la fede in modo così reale da diventare criterio di vita. 6
Secondo papa Paolo VI, la catechesi, come la predicazione, non devono trasmettere «dubbi e incertezze nati da una erudizione male assimilata, ma alcune certezze solide, perché ancorate nella parola di Dio». «I fedeli» – continua questo grande papa che non era certo né teologicamente problematico, né culturalmente chiuso – «hanno bisogno di queste certezze per la loro vita cristiana e ne hanno diritto in quanto figli di Dio».7
Queste certezze, che abbiamo largamente perso, non possono nascere da una conoscenza superficiale della nostra fede. Il Sinodo straordinario dei Vescovi, celebrato nel 1985 per commemorare il ventesimo anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II, non ha infatti esitato ad ammonire la nostra generazione per non aver letto attentamente ed in profondità i suoi testi.8
Troppo spesso ci si è limitati a prendere una visione superficiale dei documenti conciliari. Se è vero che la certezza non deve essere confusa con la presunzione, è altrettanto vero che il dubbio non serve alla conoscenza adeguata del mistero e quindi a renderci forti nella fede. Tutti i fedeli hanno perciò il diritto di ricevere da coloro che nella Chiesa, per ufficio o per mandato, sono responsabili della catechesi e della predicazione, risposte chiare sulle verità certe della fede e risposte responsabili sui problemi aperti e discussi.
Il secondo livello della catechesi è quello in cui impariamo ad accogliere i contenuti oggettivi della nostra fede nella interiorità psicologica ed affettiva del nostro “io”. Non basta, infatti, conoscere le verità e le certezze della fede, poiché la fede nella sua essenza è anche un atto di sequela e di fiducia nella persona di Cristo, in cui crediamo.
Gli Apostoli, i martiri, i confessori, i santi e tutti coloro che hanno contribuito a diffondere nel mondo il nome di Cristo, hanno scommesso la loro vita dando fiducia alla promessa di Cristo fatta al giovane ricco: «Chiunque ha lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o moglie o figli o campi per il mio nome, riceverà il centuplo ed erediterà la vita eterna» (Mt. 19, 29).
La fede è un’adesione, di natura intellettuale e affettiva, grazie alla quale il cristiano consegna tutta la sua persona e tutta la sua vita a Dio Padre, che lo ha creato a immagine e somiglianza della Trinità; a Cristo che lo ha redento e unito a sé nel battesimo; allo Spirito Santo che ha preso definitiva dimora nel suo cuore nel sacramento della Confermazione.
Il terzo livello è quello del confronto dei contenuti di fede con la prassi della nostra vita quotidiana. Si tratta di mettere in evidenza le implicazioni della fede riguardo il tempo o il luogo in cui si vive, le condizioni di vita, la famiglia e il lavoro. In altri termini si tratta di mostrare come per un cristiano non sia possibile vivere, neppure una parte della propria umanità, al di fuori di quel senso della vita che scaturisce dalla fede in Cristo. Così l’intera nostra condizione umana, del singolo come della comunità ecclesiale, viene progressivamente illuminata e vagliata dai contenuti della fede che convergono tutti verso la persona di Cristo.
Il Vangelo, infatti, non è riducibile ad una dottrina, magari più sublime di qualsiasi altro insegnamento religioso o etico. Il Vangelo è l’annuncio della incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, Figlio di Dio, e, nel contempo, la spiegazione del significato della sua persona per la nostra vita personale e per la storia dell’umanità. Il continuo paragonare la nostra vita con la fede diventa perciò inevitabilmente dialogo e confronto sincero e critico, oltre che con noi stessi con la cultura e la mentalità dominante, in seno alle quali viviamo e respiriamo a pieni polmoni.
Dal dialogo e dal confronto del Vangelo con la cultura, nasce, come quarto momento della catechesi, anche un giudizio culturale sui fatti, sugli avvenimenti, sulle tendenze, sulle dottrine, sui comportamenti comuni della società. «Per la Chiesa» – affermava con fermezza papa Paolo VI – «non si tratta soltanto di predicare il Vangelo… a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza».9
Il manifesto di questa posizione critica e profetica che il cristiano deve assumere nel mondo contemporaneo, che vive il dramma della «rottura tra Vangelo e cultura»10 è stato anticipato nella sua metodologia più profonda da San Paolo con questa consegna: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono». (1 Ts. 5, 21). Questo principio conferma in forma sintetica il monito rivolto ai colossesi: «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia, con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo»
Oltre a giudicare noi stessi, nel nostro comportamento quotidiano, la catechesi deve aiutarci perciò ad essere attenti e critici nei confronti della realtà che ci circonda .11 Non si tratta certo di compiacersi in un atteggiamento gratuito di critica per partito preso, bensì di saper utilizzare nella nostra vita e nel rapporto con gli altri la novità insita nelle verità e nella grandezza della nostra fede in Cristo.
La testimonianza che dobbiamo dare a Cristo non può essere infatti limitata al buon esempio della nostra vita. In una società come quella contemporanea, sempre pronta ad interrogare il cristiano e la Chiesa con implacabile esigenza, la nostra testimonianza deve essere offerta anche con il sapere dare ragione della nostra fede. Già San Pietro esortava i primi cristiani ad essere sempre «pronti a rispondere a chiunque vi domanda la ragione della speranza che è in voi» (I Pt. 3, 15). Noi cristiani alla soglia dell’anno duemila non possiamo e non dobbiamo fare di meno.
6. Invito finale ad un cammino comune
È perché dobbiamo sempre essere pronti, di fronte a noi stessi e di fronte agli altri, a dare ragione del dono della fede in Cristo Gesù, oggi come domani, che vi invito, fedeli carissimi, a fare in questi prossimi anni un intenso cammino comune di catechesi, prioritario magari su tante altre cose, che non possiamo comunque tralasciare. Invito tutti, ma soprattutto gli adulti, a fare questo cammino, assieme ai presbiteri della nostra diocesi, alle religiose e ai religiosi, assieme a tutti quei fedeli laici che già sono impegnati, molto generosamente, nella catechesi sacramentale parrocchiale, e a tutti quelli, giovani e meno giovani, che vorranno unirsi per aiutare loro stessi e gli altri a riscoprire la fede cristiana come criterio di vita.
Questa catechesi deve permetterci di diventare tutti «forti nella fede». Saremo forti in essa nella misura in cui sapremo dare a noi stessi e agli altri la ragione del nostro credere e della nostra adesione personale a Cristo, Redentore di tutti gli uomini.
Ci sia di guida e sostegno l’esempio della Madonna «diventata realmente presente nel mistero di Cristo proprio perché ha creduto».12 Essere presenti nel mistero di Cristo significa essere determinati da esso nel nostro modo di esistere.
1 Gaudium et spes, n. 43.1.
2 Cfr. A. FROSSARD. N’ayez pas peur!. Dialogue avec Jean Paul Il, Paris 1982, 57-123.
3 Dei Verbum, n. 5.
4 Lumen gentium, n. 1.
5 Cfr. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Catechesi tradennae. Introduzione, 1.
6 Cfr. AAS 53 (1961) 401
7 Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 79.
8 Relazione Finale, I, 3-5; cfr. anche il Messaggio ai Fedeli, n. III
9 Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 19
10 Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 20.
11 Cfr. 1 Cor. 2, 10-15.
12 Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptoris Mater, n. 2.