Mons Pier Giacomo Grampa ricorda il Vescovo Eugenio Corecco
Roma – Seminario Giovanni Paolo II – Venerdì 27 ottobre 2006
1. Mi è stato chiesto un ricordo del Vescovo di Lugano Eugenio Corecco, uno dei padri fondatori di questo Seminario internazionale Giovanni Paolo II, morto di cancro osseo all’età di 64 anni, ancora nel fiore degli anni e con tanti progetti da realizzare, interrotti dall’imprevisto sopravvenire della malattia, che fu l’occasione per la sua testimonianza più autentica e vera.
Vorrei cominciare proprio da qui, leggendo quanto Eugenio Corecco disse sulla malattia.
La malattia non è solo momento profetico, che anticipa quello che sarà il momento finale; non è solo momento in cui emerge nella nostra persona la tentazione di ribellarci al Signore, così come avvenuto nella persona di Gesù Cristo nei confronti del Padre, ma è anche grazia. Dire che la malattia è una grazia è molto difficile. Forse non sarei mai riuscito a dirlo veramente neppure io. Dire che la malattia è una grazia urta contro il buon senso, urta apparentemente contro la ragione. Però se esaminiamo quello che avviene durante il corso di una malattia, ci accorgiamo che è così, che la malattia è una grazia. Abbiamo tutti paura o avremmo tutti paura a fare questa affermazione a un’altra persona. Eppure è profondamente vera. Perché se esaminiamo quello che avviene in noi durante la malattia, quello che la malattia provoca in noi, se la viviamo in modo cristiano, ci accorgiamo che nella persona avviene un grandissimo cambiamento. Da quando è incominciata la malattia a dopo, noi ci sentiamo profondamente cambiati, non siamo più quelli di prima: in questo sta la grazia. Per cui è vero che la malattia è una grazia. Lo possiamo dire però solo dopo. Se lo diciamo prima, è come se fosse troppo presto, è come se fosse una ideologia. E’ invece a partire dall’esperienza che abbiamo fatto, che io ho fatto sicuramente in una certa misura, che possiamo dire che la malattia è una grazia e dobbiamo saperla vivere come una grazia. Perché la malattia cambia il nostro rapporto con il Signore, ci avviciniamo sicuramente a Lui, preghiamo di più, fosse anche solo per invocare la guarigione; una preghiera legittimamente interessata.
La malattia ci fa sentire il tempo che viviamo in modo differente da prima. Ci accorgiamo che la vita è qualche cosa di estremamente prezioso, che è il dono più grande che abbiamo ricevuto dal Signore. Scopriamo che il tempo ha una intensità diversa da quella di prima, non più in rapporto a tutte le cose che dobbiamo fare, ma rispetto alla esperienza esistenziale della nostra persona. Sentiamo che il tempo è preziosissimo, perché urge, perché non abbiamo più la possibilità di sprecarlo, come l’avevamo prima. Il tempo diventa più consistente, qualche cosa che vorremmo vivere nel modo più intenso possibile.
La malattia ci cambia perché ci fa toccare proprio con le mani la solitudine che abbiamo dentro di noi. Ci sono infatti momenti, durante la malattia, in cui una persona capisce che in ultima analisi la questione è sua. Nessuno può supplirlo. Nessuno può fare o dire al suo posto. Sente la propria finitezza e da questa finitezza capisce che c’è una sola Persona, che può riempirla, perché questa Persona è qualcuno più grande di lui, è Colui che ci ha dato la vita. Scopriamo che la solitudine è insuperabile dentro l’esperienza umana; non possiamo superare la solitudine personale in nessuna situazione della nostra vita. Sia che ci sposiamo, sia che diventiamo ministri consacrati, sia che ci consacriamo al Signore, c’è un punto della nostra vita in cui siamo sempre soli davanti al Signore e nessuno all’esterno ci può aiutare al punto da sostituirsi alla nostra persona. Questo ci spinge, apre la porta in noi, alla scoperta del fatto che solo il Signore può riempire la solitudine umana che abbiamo dentro di noi. Basterebbero queste poche cose per farci capire che, dopo, facciamo l’esperienza che la malattia è veramente una grazia.
Detto all’inizio può sembrare assolutamente non vero o assurdo, ma dall’analisi di quello che avviene nella nostra persona, l’affermazione che la malattia è una grazia è profondamente vera.
2. Dopo questa forte, diretta testimonianza del vescovo Eugenio, vorrei ora sottolineare tre aspetti della sua ricca, poliedrica personalità e della sua incompiuta, ma feconda attività pastorale.
Il Vescovo Eugenio:
– fu un uomo nuovo, un Vescovo nuovo;
– fu un Vescovo di fede forte ed esigente, con sé e con gli altri;
– iniziò una pagina nuova che dobbiamo discernere per condurre a compimento.
Sappiamo che nella classicità latina l’homo novus era colui che approdava alle supreme magistrature, non provenendo dal cursus honorum, dalla trafila convenzionale di servizio.
Credo si possa dire lo stesso del Vescovo Eugenio giunto all’episcopato per superiore decisione del Pontefice romano, più che per indicazione degli addetti alla designazione. La sua scelta, se non fu una sorpresa per tutti, fu da tutti sentita come una designazione che intendeva introdurre un elemento non solo di novità, ma addirittura di rottura nella vita della diocesi. Uomo nuovo per la sua provenienza dagli studi universitari, ma soprattutto per le scelte personali, che ne avevano segnato in maniera originale e nuova la formazione e l’indirizzo ecclesiale.
Uomo nuovo per quella sua adesione convinta ad un movimento ecclesiale, Comunione e Liberazione, che non gli fece mancare con l’entusiasmo dei suoi, le incomprensioni e le diffidenze degli altri. Uomo nuovo anche di fronte al servizio episcopale affrontato con intenso dinamismo innovativo per esperienze e proposte, avanzate con coraggio, parso a più d’uno spesso temerario.
Non subito e non sempre fu capito questo Vescovo, che veniva dagli studi del diritto e dalla cattedra universitaria, che aveva militato nel movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione, che si presentava sorprendentemente giovane, persino sbarazzino nell’atteggiamento non conformista, particolarmente attento ai giovani, vicino al bene della gente, non condizionato da steccati storici, inventivo nella ricerca del bene delle anime e nelle proposte pastorali.
3. Eugenio Corecco fu un Vescovo di fede forte, esigente con sé e con gli altri. “Siate forti nella fede”, è il titolo del volume che ne raccoglie la memoria, le prime note biografiche, gli estratti più significativi del suo magistero, le testimonianze di molti che l’hanno conosciuto.
Ma “forti nella fede” è anzitutto il titolo che dice il contenuto della sua prima lettera pastorale, nella quale il cristiano viene invitato a una scelta non di opportunismo, di abitudine, di tradizione, ma di responsabilità, di consapevolezza, di coscienza forte.
Il cristianesimo non è una religione fatta da gesti dell’uomo, che propiziano la divinità, non è neppure un’etica che impegna in comportamenti moralistici e moraleggianti.
Il cristianesimo è una fede: una dimensione esistenziale di fondo, radicale, che risponde ad una rivelazione, ad una grazia totale del dono di Dio che si fa uomo e cambia la storia dell’umanità, non perché noi facevamo qualcosa, ma perché lui la visita e la trasforma dell’interno.
Aderire a lui vuol dire ricevere il centuplo quaggiù ed avere la certezza della vita eterna.
Una fede, quella cristiana, radicale, esistenziale, che non si immiserisce nel moralismo del singolo atto, ma offre un orizzonte di fondo, uno slancio di base, una prospettiva globale, un’apertura infinita all’inquieto desiderio del cuore umano.
In una visione così fondamentale, può essere sembrato talvolta che il Vescovo Eugenio non facesse abbastanza uso dei mezzi di mediazione, del metodo della mediazione, anche se non era per niente un primario, ma un secondario, riflessivo. Ma anche nella sua azione pastorale aveva preponderanza la slancio della novità, le intuizioni delle diversità, il coraggio della controtendenza rispetto a mode superficiali e riduttive.
Una pastorale di testimonianza che esigeva novità di vita cristiana, attenzione alle persone prima che alle strutture o alle organizzazioni, ma al tempo stesso con il rilancio dell’Azione Cattolica, il ritorno del Seminario in diocesi, la creazione della Facoltà di Teologia, ha saputo offrire strutture concrete e strumenti originali per affrontare le esigenze dei tempi futuri.
4. Corecco aveva maturato la convinzione profonda che compito fondamentale del Vescovo in una Chiesa fosse quello di generare alla fede.
Memore di quanto scriveva l’Apostolo Paolo ai Corinti nella sua prima lettera: “Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo”.
Mons. Corecco fu consapevole che questo fosse il compito primario di un Vescovo, quello della Paternità spirituale intesa nella sua accezione forte, non affettiva o sentimentale, ma evangelica: il compito di generare in Cristo, alla fede. Ricorda don Willy Volonté, un prete della diocesi di Lugano particolarmente vicino al Vescovo Eugenio, come il Vescovo fosse solito dire ai giornalisti e alla Direzione del quotidiano della Diocesi, il Giornale del Popolo, che riportava puntualmente la cronaca delle sue visite pastorali o l’incontro con parrocchie e associazioni cattoliche o per l’inaugurazione di questo o quell’altro edificio pubblico, a volte attardandosi più sulla cronaca che su quello che il Vescovo diceva: «Riportate anzitutto quello che dico piuttosto che quello che faccio, altrimenti come posso educare la mia gente?». Era convinto che l’educazione passava plasmando l’intelligenza e il cuore (l’interiorità) della gente.
Questo gli proveniva dall’essere per natura un uomo di cultura portato a indagare la realtà della Chiesa, era consapevole della potenza culturale dell’annuncio cristiano, e voleva penetrare anzitutto nell’intelligenza della persona, convincerla, avvincerla.
Ci sono omelie che sono più delle denunce di cedimenti culturali contrastanti il cristianesimo che contemplazioni astratte; più “contemplazioni dell’intelligenza profonda della realtà” che sollecitazioni di emozioni.
Eppure il vescovo Eugenio non era un trascinatore di folle per quanto riguarda l’eloquio. All’Università di Friburgo quando si iniziavano con lui le lezioni di Diritto canonico alle otto del mattino capitava spesso di appisolarci durante i suoi rigorosi ragionamenti, ma, quando si aveva la volontà di ascoltare si ritrovava in ogni sua affermazione la densità di una cosa meditata, chiara nell’enunciato, spesso inedita dal punto di vista dell’approccio teologico che induceva sempre ad una ulteriore riflessione per poter essere afferrata nella sua ricchezza.
5. Ritengo che anche l’erezione di questo seminario rientri nella dimensione paterna di questo Vescovo, preoccupato di non lasciar mancare alla Chiesa presbiteri ben preparati.
Infatti una delle sue riflessioni teologiche più specifiche fu appunto quella sul “Presbiterio diocesano” di cui si era persa quasi completamente la nozione stessa, relegando il suo significato a quella zona dell’altare dove officiavano i preti, ma non certamente un luogo di comunione condivisa tra presbiteri per servire l’edificazione della Chiesa.
Vi fu un avvenimento in questo contesto che destò così tanto scalpore da attirargli le ire di metà del Clero diocesano e la citazione in diversi organi di stampa anche all’estero che si occupavano di cose ecclesiastiche ed ecclesiali (ricordo che la Rivista italiana di documentazione Il Regno riportò la lettera di Corecco al Clero di Lugano). Infatti Corecco passò nell’opinione come un “decisionista” senza ritegno.
La situazione del Clero era così ingessata e bloccata come mentalità che il Vescovo sudava le proverbiali sette camice per spostare un prete da una parrocchia ad altro incarico. Mesi di trattative per non arrivare ad un risultato soddisfacente. È a questo punto che il Vescovo, rifacendosi alla promessa di obbedienza che ogni prete esprime durante il rito dell’Ordinazione, chiese con una lettera a tutti i preti della Diocesi di rimettere nella mani del Vescovo il loro incarico per poter provvedere in modo adeguato alle necessità delle comunità parrocchiali e dell’intera Diocesi.
Questo episodio fu per alcuni aspetti provvidenziale perchè si accorse che con una consapevolezza così fragile del proprio ministero da parte dei preti era necessario che la formazione dei futuri presbiteri dovesse essere attentamente vigilata dal Vescovo. Per questo motivo decise di riportare in Diocesi il Seminario, luogo di formazione dei futuri preti, per educarli in modo omogeneo alla comunione presbiterale nella Diocesi.
Ma, da uomo di cultura quale era, capiva che senza un luogo che garantisse la formazione accademica-teologica sarebbe stato come formare preti non adeguati ad essere una presenza di fede e capaci di un giudizio culturale che nascesse dalla fede sulla modernità cui erano destinati. E allora, ma solo in seconda battuta, nacque la Facoltà di Teologia di Lugano. È importante questo passaggio: la sua prima preoccupazione era la formazione personale del prete nella sua specifica identità di pastore, solo come conseguenza quella accademica che doveva completare e arricchire quell’identità e quella di altri cristiani che volevano mettersi al servizio della Chiesa. E proprio per questo volle una Facoltà di Teologia che avesse un’impronta nuova. Dove l’intelligenza della fede e la sapienza del cuore prendessero la loro linfa vitale dentro una comunità di docenti e discenti tutti protesi a sondare e a vivere insieme l’insondabile Mistero di Dio rivelato nella S.Scrittura e nella vita della Chiesa.
6. Mons. Eugenio Corecco iniziò una pagina nuova nella storia della diocesi che tocca a noi comprendere, valutare, portare a compimento. Essere custodi e testimoni della sua memoria non deve impedire di riconoscerne anche le incompletezze e i limiti, le insufficienze e le carenze. Confrontarci con i ricordi dei nostri Vescovi vuol dire acquisire consapevolezza della complessità della storia e capacità di leggerla: “semplici come colombe, ma avveduti come serpenti” come vuole il Vangelo, consapevoli che nel rileggere il passato si è esposti all’inganno, alla manipolazione, all’adulazione, al servilismo.
Vera memoria è quella che accresce la nostra libertà di giudizio, di iniziativa, di autentica identità individuale e collettiva. Coltiviamo una memoria che produca libertà, che ci liberi dai pregiudizi quanto dalle adulazioni, dal nulla come dall’oblio o peggio dalla manipolazione.
Una memoria che, mentre è forgiatrice di libertà, edifichi comunione.
“Da questo riconosceranno che siete miei discepoli, se vi amate gli uni gli altri, come io ho amato voi”. Dobbiamo imparare ad accettarci diversi, a rispettarci complementari, a dialogare sereni, a praticare la indispensabile mediazione per tradurre la fede in opere, che si incarnano in un tempo e in uno spazio ben precisi.
Della prova della malattia, dell’esemplare e coraggiosa testimonianza nella sofferenza ho già detto, e chiedono a noi di ringraziare il Signore per il dono di questo Vescovo, nonostante la sua prematura scomparsa.
Don Volonté ci ricorda che in una delle telefonate che Papa Giovanni Paolo II gli faceva personalmente, interessandosi della sua malattia, sentì il Vescovo Eugenio dire al Santo Padre: “offro tutto per lei e per la Chiesa”. Il Papa si fidava di lui e lo apprezzava. Lo stesso cardinale Dziwisz lo testimonia in una lettera in cui attesta a proposito di Eugenio Corecco: “Il Vescovo che il Servo di Dio Giovanni Paolo II tanto stimava”.
Nessuno è perfetto, ciascuno ha le sue peculiarità, tutti siamo tessere di un mosaico il cui disegno ci anticipa e ci precede. Il nostro impegno è capire dove e come possiamo collocare le nostre tessere oggi e domani, come dobbiamo rispondere ai bisogni ed alle necessità della Chiesa oggi e domani, restando fedeli al mandato del vangelo e rispondendo alla vocazione, che ci è stata data. E’ quanto chiediamo ai nostri Vescovi defunti, perché lo intercedano per noi al Signore di ogni grazia.